Vittoria Di Dato: la marcia e la felicità della fatica

La marcia è uno sport di grande tecnica. Uno sport che richiede tenuta mentale, allineamento tra l’obiettivo e la capacità di sostenere la fatica, metro dopo metro, con l’asfalto o il tartan che scorrono sotto i piedi. Vittoria Di Dato ha vent’anni compiuti da poco, ha abbracciato l’atletica che era una bambina e ha conosciuto la marcia dopo alcuni anni, nel 2017. Da allora, non solo non l’ha più abbandonata, ma ha scalato metro dopo metro le classifiche e i sogni, fino a divenire una delle giovani promesse azzurre che guardano al futuro.

di Ilaria Leccardi

Vittoria, come inizia la tua storia con la marcia?

Ho cominciato a praticare l’atletica in quarta elementare, undici anni fa. Inizialmente mi sono dedicata alla corsa ma poi, passata alla categoria cadetti, seguendo l’esempio di una ragazza che si allenava con me e marciava, ho provato anche io questa disciplina. Mi è subito piaciuta ed evidentemente ero portata. Dopo aver esordito con la marcia nella Polisportiva Colverde, mi sono spostata a Cantù, dove mi sono allenata per tanti anni con Vittorio Zeni, uno dei maestri della marcia azzurra, che aveva già cresciuto importanti talenti e che purtroppo è mancato lo scorso anno.

Un grande dolore per una figura che segnato positivamente il tuo percorso, proiettandoti nella marcia di altissimo livello.  

Sicuramente sì. Tant’è che dopo la sua scomparsa ho iniziato a essere seguita direttamente da Alessandro Gandellini, ex marciatore, azzurro alle Olimpiadi di Sydney e Atene, e attuale responsabile tecnico del settore marcia della Federazione italiana di atletica.

Sei già stata due volte campionessa italiana outdoor nella 10 km, nella categoria allieve (nel 2020) e junior (nel 2021). Quali sono state invece le tue prime esperienze internazionali in azzurro?

Agli Europei di Tallin nel luglio 2021 ho vestito per la prima volta la maglia della nazionale per la gara dei 10 km di marcia. Ero nel mio primo anno nella categoria Under20, la gara non è andata come speravo, ma l’emozione è stata enorme, anche perché mi confrontavo con atlete di tutta Europa e sentivo finalmente di essere entrata nel vivo della disciplina. Nel 2022 ho disputato la Coppa del Mondo a Muscat, in Oman, arrivando decima su strada nella 10 km, e i Campionati Mondiali Under20 a Cali, in Colombia. Infine, quest’anno, con il passaggio alla categoria Under23, ho disputato gli Europei in Finlandia, dove ho chiuso undicesima, ma gareggiando assieme a ragazze del 2002 e 2001. Ho fatto segnare il mio secondo tempo e lo ritengo un grande risultato.   

La marcia è uno sport molto duro, sia dal punto di vista fisico che mentale. Come ti alleni e qual è l’equilibrio tra l’attività di alto livello e il resto della tua vita?

Ho finito il primo anno di Università, alla Cattolica di Milano, in Lingue, comunicazione, media e culture digitali. All’inizio è stato difficile trovare una routine giusta. Tra il cambiamento di allenatore e l’inizio dell’università, il mese di settembre 2022 è stato un momento delicato. Ma ora ho trovato un buon ritmo. Continuo a vivere nel paesino di Oltrona, studio a Milano e mi alleno a Sesto San Giovanni, seguita da Alessandro. I ritmi della marcia sono duri: mi alleno sei giorni a settimana, spesso anche con due sessioni al giorno, mattina e sera.

Un tuo allenamento tipo?

Gli allenamenti sono vari e differenziati. Ci sono periodi in cui principalmente marciamo, 15 km in settimana e 20 o 25 km il sabato. Durante l’inverno invece facciamo più potenziamento, anche in palestra, con esercizi a corpo libero e circuiti per alzare i battiti cardiaci. Poi ci sono i giorni in cui ci dedichiamo alle ripetute: riscaldamento, 5 km di marcia e poi ripetute su 500 o 1000 metri.

Sempre con il tuo allenatore?

Lui mi segue sempre, talvolta in presenza altre a distanza. Quando esco a marciare al mattino generalmente sono sola, al pomeriggio invece sono spesso i miei genitori a seguirmi in bicicletta. Se i risultati arrivano, sono frutto di tutti.

L’Italia è un paese della grande storia nell’atletica, in particolar modo nella marcia. C’è qualche figura a cui ti ispiri in modo particolare?

Sicuramente Antonella Palmisano, oro Olimpico a Tokyo nel 2021 nella 20 km. La seguo da sempre e poi l’ho conosciuta di persona e ho avuto l’opportunità di allenarmi con lei lo scorso aprile a Ostia, durante un raduno. È una persona molto umile, alla mano, ma al tempo stesso molto determinata. Dopo Tokyo è stata ferma un anno, senza gareggiare, per un infortunio, ma poi è riuscita a tornare e quest’anno ha conquistato il bronzo ai Mondiali di Budapest. Un esempio per tutte noi. Io non mai dovuto affrontare grandi delusioni, ma nel 2018 sono stata ferma diversi mesi per un edema osseo alla testa iliaca dell’anca. È stato un periodo difficile, immagino dunque cosa voglia dire per una campionessa olimpica non potersi esprimere in gara e affrontare il dolore come ha fatto Antonella. Ma tra i miei punti di riferimento c’è anche Valentina Trapletti, che ha disputato gli ultimi Mondiali e sarà ai Giochi di Parigi 2024, ci alleniamo insieme e la reputo un esempio sportivo.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi sportivi e cosa ti aspetti dal futuro?

Nel 2024 per me l’appuntamento più importante saranno i Giochi del Mediterraneo. Inoltre, vorrei lavorare per migliorare i miei tempi, sia nella 10 km sia nella 20 km. Ovviamente è anche l’anno olimpico, ma io a Parigi non ci sarò. Tuttavia, ho l’opportunità di confrontarmi in allenamento con azzurri di spicco, come la stessa Valentina, ma anche Sara Vitiello, Riccardo Orsoni e Stefano Chiesa… Insomma, ormai mi sento nella scia della marcia che conta e se devo guardare in là posso sperare solo di crescere e di arrivare al meglio nel prossimo quadriennio.

Il nostro progetto, Odiare non è uno sport, mira a contrastare le forme di hate speech online in ambito sportivo, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Tu che rapporto hai con i social media?

Un rapporto positivo e certo non di dipendenza. Uso Whatsapp e Instagram e non sono mai incappata in esperienze negative nel loro utilizzo. Pubblico i risultati delle mie gare, ricevo sempre e solo complimenti. Ma sono consapevole che sui social possono innescarsi dinamiche negative, soprattutto a danno dei più giovani, e bisogna stare attenti.

Qual è il principale insegnamento della marcia e perché la consiglieresti come sport a una giovane o un giovane?

La marcia è uno sport capace di insegnare molto. Sicuramente lo fa dal punto di vista educativo, perché devi essere una persona umile, letteralmente e simbolicamente con i piedi per terra. Ma anche perché ti insegna a resistere alla fatica e questo, sembra strano, può dare felicità.

Nella maggior parte dei casi dopo un allenamento, che vi assicuro è sempre faticoso, sono felice. Perché sento che mi sono migliorata, in una sfida costante, non tanto con gli altri – perché questo arriva poi nel momento della gara – ma con me stessa. Mi aiuta a conoscermi e ad andare oltre ai miei limiti.

Commenti sessisti in Rai. Mimma Caligaris: “Quanta strada da fare”

Hanno fatto discutere e indignare tutta Italia le frasi sessiste pronunciate dal giornalista Rai Lorenzo Leonarduzzi, incaricato della telecronaca dei tuffi durante i Mondiali di nuoto, assieme al commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi. Frasi offensive nei confronti delle tuffatrici nella disciplina del sincronizzato, vero e proprio body shaming, commenti scurrili, andati in onda su RaiPlay2, e contro cui è stato presentato un esposto da parte di Usigrai, Ordine dei Giornalisti, CPO dell’FNSI e Associazione GiULiA Giornaliste. Ma il caso che ha fatto scalpore non è purtroppo isolato ed è da contestualizzare in quella che spesso è una narrazione sportiva ancora scorretta e degradante nei confronti delle atlete.

Ne abbiamo parlato con Mimma Caligaris, giornalista sportiva di lungo corso, oggi vicepresidente vicaria Ussi (Unione Stampa Sportiva Italiana), nella giunta esecutiva della FNSI (già presidente della Commissione Pari Opportunità dello stesso sindacato nazionale dei giornalisti), nonché componente del Gender Council della International Federation of Journalists e del Gender and Diversity Expert Group – GENDEG della European Federation of Journalists. Una delle voci più competenti in tema di linguaggio e narrazione sportiva nell’ottica della parità di genere.

di Ilaria Leccardi

“Le olandesi sono grosse. Come la nostra Vittorioso […]. Ma tanto a letto sono tutte uguali”. “Questa (la tuffatrice Harper, NdR) è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. Sono alcune delle espressioni pronunciate durante la diretta. Qual è la gravità di quanto successo ai Mondiali di nuoto? Com’è possibile nel 2023 alla TV pubblica sentire parole e commenti di quel genere nei confronti delle sportive?

La gravità è doppia. Da una parte per il fatto in sé, per il linguaggio utilizzato dal giornalista in diretta, dall’altra perché di fronte alla segnalazione – arrivata da alcuni spettatori tramite una Pec circostanziata inviata alla Rai – il telecronista ha risposto sostenendo che si trattasse solo di battute da bar, pensando di essere fuori onda. Prima di tutto, pensare di essere fuori onda è un’aggravante, e poi il commento dimostra una volta di più quanto siamo ancora indietro, perché c’è chi sostiene che le donne siano oggetti su cui raccontare barzellette, su cui parlare non per raccontare i risultati sportivi, ma per irridere e commentare le loro caratteristiche fisiche, ironizzando pesantemente sull’aspetto fisico, la corporatura, il tipo di abbigliamento.

Ci preoccupa l’approccio sessista e sminuente del ruolo delle donne, purtroppo ancora effettivo su diversi canali, emittenti, testate cartacee e online (non solo nel servizio pubblico, dove esiste comunque una policy di genere da seguire). Per fortuna – visto che il caso è stato sollevato grazie a persone che seguivano la diretta – notiamo anche una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, capace di guardare con sensibilità ai commenti, al racconto, alle parole e all’approccio narrativo dello sport.

Quanta discriminazione ancora c’è nella rappresentazione sportiva tra uomo e donna? E quali sono gli aspetti più critici di questa narrazione che spesso si sofferma su elementi che nulla hanno a che fare con la prestazione sportiva?  

Siamo a un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, i primi in cui ci sarà una effettiva parità di numeri tra uomo-donna, vicina al 50 e 50 come numero di atleti e atlete in gara. Ma c’è ancora una strada lunghissima da fare nel racconto dello sport.

Gli uomini sono citati tre volte più spesso nelle donne nell’ambito sportivo e sociale, che le atlete sono spesso associate a parole e temi come gravidanza, età, matrimonio, aspetto fisico, che per gli uomini la descrizione della corporeità è legata principalmente al concetto di resistenza. Le atlete sono indicate come “ragazze” il doppio delle volte rispetto ai colleghi maschi, spesso delle sportive nei titoli dei giornali si riporta solo il nome, senza il cognome, mentre il gossip e il modo di vestire mettono in secondo piano il risultato sportivo.

Per creare condizioni vere di parità pur nelle differenze, il linguaggio è fondamentale. Facciamo l’esempio del calcio, visto che sono iniziati da poco i Mondiali femminili. Io sono fortemente convinta che sia importante la declinazione al femminile dei ruoli in campo. Ad esempio, chi sta in porta in una squadra femminile dovrebbe essere chiamata “portiera”, che è un vocabolo esistente della lingua italiana. E chi si para dietro alla giustificazione che sia la diretta interessata a voler essere chiamata “portiere”, vuole semplicemente pulirsi la coscienza. Bisognerebbe provare a fare lo sforzo di spiegare che la definizione “portiera” è un’affermazione di identità conquistata con un lungo percorso. Usare il termine maschile significa interiorizzare che il proprio valore è inferiore a quello dell’uomo e che l’unico modo per sentirsi alla pari è utilizzare il termine maschile. A risentirne è l’autostima, con una percezione diffusa di disvalore che condiziona le scelte.

Ma il problema non riguarda solo le parole.

Anche la rappresentazione per immagini è critica. Pensate alle partite di beach volley. Nei tornei maschili le immagini si concentrano principalmente il gesto tecnico, mentre nelle partite femminili, l’inquadratura il più delle volte parte dal fondoschiena delle giocatrici. Una volta mi confrontai con un operatore il quale mi spiegò che era una richiesta esplicita, perché serve a fare più audience, come un titolo sensazionale serve a fare più clic.

Purtroppo, però il giornalismo italiano ricorda anche episodi veri e propri di body shaming, come il caso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando Il Resto del Carlino titolò “Il trio delle cicciottelle”, per raccontare la squadra di tiro con l’arco femminile.

In quel caso il direttore fu sollevato dall’incarico. E quando Lucilla Boari, una delle arciere azzurre, vinse il bronzo olimpico a Tokyo 2021, si ricordò ancora di quell’appellativo. Il body shaming purtroppo nella narrazione sportiva è fortemente presente. Altro caso eclatante, fu quello del telecronista di una tv privata campana che definì il calcio femminile come “un covo di lesbiche”. Dopo i nostri esposti, questo collega venne radiato dall’Ordine dei Giornalisti, ma comunque a questa persona si è continuato a dare spazio in altri modi.

Lucilla Boari, bronzo olimpico a Tokyo nel tiro con l’arco

A livello internazionale qual è la situazione?

Lo sport è un contesto delicato, ma si stanno facendo passi avanti anche a livello istituzionale. Come dimostra il progetto Combating Hate Speech in Sport che mira a fornire assistenza alle autorità pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea, per sviluppare strategie globali di contrasto ai discorsi d’odio nel quadro dei diritti umani.

E i social che ruolo hanno in tutto questo?

Tante volte hanno un ruolo devastante. Tornando all’episodio dei Mondiali di nuoto, ho letto commenti pubblicati da utenti sui social che fanno rabbrividire. Molte persone hanno dato ragione ai commentatori o comunque li hanno giustificati. Ho letto commenti sessisti e sminuenti delle persone ma anche della disciplina in sé, i tuffi sincronizzati. Purtroppo, è difficile ottenere una policy sui social anche a livello internazionale. Sui social media, spesso c’è la sensazione di poter dire tutto ciò che si vuole, di sentirsi giornalisti e giornaliste senza averne gli strumenti. Questo provoca un proliferare di fake news, una produzione di contenuti che non hanno basi deontologiche, che non rispettano i principi della corretta informazione. Ed è molto pericoloso.

Quanto è difficile per una sportiva in quest’ottica far sentire la propria voce, e fare valere il diritto di essere degnamente rappresentata?

Se per lo sport maschile è sistematico occupare spazio, le sportive conquistano le prime pagine solo perché hanno ottenuto un grande risultato. C’è una gerarchizzazione delle notizie che porta lo sport praticato dalle donne relegato alle varie, ai trafiletti, alle ultime pagine dei giornali. Lo scatto culturale deve venire dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, bisogna aumentare lo spazio dedicato allo sport femminile e far sì che questo spazio sia riempito di parole e di immagini giuste.

E nel caso in cui si verifichino episodi gravi di narrazione scorretta è fondamentale il rafforzamento delle reti di monitoraggio e sostegno. In Italia ormai, grazie alla stretta collaborazione tra CPO dell’FNSI, CPO dell’Ordine dei Giornalisti, Usigrai e Associazione GiULiA Giornaliste, ci sono frequenti segnalazioni, è difficile che casi di discriminazione o narrazioni tossiche passino inosservati. Perché nessuna persona deve sentirsi sola di fronte a parole d’odio.

Lo sport deve unire le persone, deve costruire fiducia, spirito di comunità, deve abbattere le barriere. Il racconto scorretto finisce per esacerbare tensioni e rivalità e favorire discriminazioni dei confronti di determinate categorie di persone, generalmente le più fragili.

E le sportive possono avere un ruolo diretto nell’affermare il proprio ruolo, anche a livello sociale? 

Su questo mi piace sempre citare il caso di Lella Lombardi, unica donna a riuscire a conquistare punti in Formula 1, ma anche capace di denunciare in conferenza stampa l’avversione dei colleghi maschi alla sua presenza nel circuito. Una posizione che Lombardi pagò, visto che poi la sua casa automobilistica assegnò la monoposto a un uomo. Eppure, lei non ha mai smesso di battersi, aiutando anche altre giovani e seguire la sua strada nell’ambito dei motori. Oggi di lei si legge qualcosa in più, anche se spesso viene descritta sottolineando il suo taglio di capelli “maschile”. Io prendo sempre ad esempio la sua storia, le sue battaglie, per dire che bisogna continuare a combattere e anche le stesse sportive devono provare a farlo. Nella storia dello sport penso che esista un prima e un dopo Lella Lombardi.

Le atlete vanno raccontate per quello che fanno in campo, in pista, per come hanno costruito la propria storia sportiva. Il mio appello è: scriviamo più storie di sport e scriviamole con le parole giuste.

Mattia Gaspari

Velocità, conoscenza minuziosa degli spazi e dei tempi di movimento, l’amore per la sfida, un contesto di fair play sportivo totale, come vivere in una grande famiglia. Mattia Gaspari ci parla dalla Francia quando gli chiediamo di raccontarci la sua storia sportiva con lo skeleton. Lui che è nato sulle Dolomiti e che qui, a Cortina, ancora vive. Ha 27 anni, fa parte delle Fiamme Azzurre (il gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria) e ha un bronzo mondiale al collo, conquistato nel 2020 ad Altenberg, in coppia con la compagna di nazionale, la piemontese Valentina Margaglio. Una risultato storico, la prima medaglia mondiale vinta dall’Italia in questa disciplina che lo vede protagonista dei circuiti internazionali ormai da alcune stagioni. Lo skeleton è la specialità, tra gli sport di budello, che in azzurro ha una storia più sommersa rispetto a bob e slittino che hanno reso gloriosa l’Italia anche a livello olimpico. Una disciplina affascinante che, nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di impianti in Italia, sta prendendo piede.

Di Ilaria Leccardi

Mattia, come hai iniziato a praticare questo sport?

È partito tutto grazie a un reclutamento a scuola. Quando avevo circa 15 anni è venuto nella mia classe un allenatore, futuro Direttore Tecnico della Nazionale, per presentarci questa disciplina così particolare. Assieme a un’altra allenatrice ci ha mostrato dei video, poi ci ha poi portati al campo d’atletica per effettuare dei test fisici. Qualche mese dopo abbiamo avuto l’opportunità di fare una prova su un pistino da spinta estivo su rotaia a Cortina. Io sono risultato idoneo, la disciplina mi è piaciuta e insomma… eccomi qui.

Tra le “discipline da budello”, che vedono gli atleti sfrecciare ad alta velocità sul ghiaccio, tra curve mozzafiato e passaggi di precisione, lo skeleton in Italia è il meno conosciuto. Si disputa in posizione prona, il viso rivolto in avanti, a puntare con lo sguardo la discesa. Quanto coraggio ci vuole per lanciarsi in questo modo a tutta velocità?

Effettivamente può sembrare una disciplina dove il coraggio è il primo requisito, ma non è poi così vero. Sfido chiunque a dirmi che in montagna, sulla neve, non si è mai lanciato con lo slittino in discesa a pancia in giù. In realtà non è necessaria alcuna dose particolare di audacia o follia, perché prima di affrontare le piste complete a velocità di gara seguiamo una lunga preparazione di base. Affrontiamo vari step e livelli progressivi di discesa, per prendere confidenza e approfondire la tecnica.

Le piste hanno una lunghezza compresa tra 1,2 e 1,7 km e ci sono tratti in cui potete arrivare a toccare la velocità di 140 km/h. I corpi che sfrecciano vicino al ghiaccio, sotto la pancia solo il vostro skeleton. Qual è dunque il segreto?

L’elemento necessario nel nostro sport è la consapevolezza di quello che stai facendo con il tuo corpo e di ciò che ti sta attorno. Devi avere coscienza dello spazio che stai attraversando, devi conoscere molto bene ogni metro delle piste, i tracciati, le curve. Ma anche la durezza del ghiaccio, perché le condizioni atmosferiche incidono molto… Può piovere, oppure esserci una temperatura molto sotto lo zero e noi comunque affrontiamo le discese, adattando la guida anche a questo aspetto. Tuttavia, non nascondo che quando hai a che fare con la velocità o la gravità il pericolo è sempre dietro l’angolo. E non bisogna sottovalutare l’incidenza delle forze G che si creano nelle curve… insomma, il nostro è un sport di precisione e di fatica.

Preparazione fisica e studio dell’ambiente…

Sì, per le piste già percorse, abbiamo la possibilità di vedere dei video, studiando le discese registrate. Invece per le piste nuove il lavoro è più complesso. In ogni caso, quando siamo sul posto mettiamo i ramponi e percorriamo la pista passo passo per conoscere tutte le curve e ogni passaggio.

Perché in Italia non è semplice praticare uno sport come lo skeleton?

Purtroppo per la mancanza di strutture. Gli impianti al momento non ci sono. Gli unici due, entrambi tracciati olimpici, erano a Cortina e a Cesana Pariol. Il primo è chiuso dal 2008, il secondo – inaugurata per i Giochi di Torino – è stata chiusa nel 2011 ed è in disuso. Tuttavia ora, grazie al fatto che Giochi Olimpici del 2026 si terranno a Milano e Cortina, l’impianto ai piedi delle Tofane verrà ripristinato e speriamo che questo possa essere di aiuto in futuro per lo sviluppo delle nostre discipline. Soprattutto nella stagione invernale ci alleniamo all’estero. In Europa ci sono diversi Paesi dove il nostro sport ha maggiore considerazione, in Germania ad esempio è sport nazionale.

Lo skeleton è uno sport individuale, chi affronta la discesa è solo sul ghiaccio. Tuttavia, la medaglia mondiale che hai conquistato, la prima per la storia azzurra, è arrivata in una gara di squadra mista: la “staffetta” composta da te e Valentina Margaglio. Qual è il valore di quel successo?

Per l’Italia è stata una medaglia storica, un bronzo mai raggiunto prima. Dopo un Mondiale sottotono, sia per me che per Valentina, siamo riusciti a tirare fuori il meglio nell’ultimo giorno di gare. E abbiamo dimostrato di essere una formazione e un movimento competitivo nel suo complesso, sia nel settore maschile sia in quello femminile, non solo come individualità.

A livello personale per te è stato un risultato importante, anche alla luce delle difficoltà fisiche che hai dovuto affrontare negli ultimi anni e che ti hanno costretto a saltare i Giochi Olimpici del 2018 in Corea del Sud. Cos’era successo?

A ottobre del 2017, a pochi mesi dai Giochi che si sarebbero svolti tra l’altro su una delle mie piste preferite, mi sono rotto il tendine d’Achille. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Ho dovuto affrontare un recupero lungo e doloroso. Un primo intervento che però non è stato risolutivo e, a distanza di un anno dall’infortunio, una nuova risonanza ha evidenziato che il tendine si era nuovamente rotto pochi centimetri sotto. Mi hanno operato nuovamente, tramite una tecnica chiamata Allograf, che prevede il trapianto di tendine. Ho seguito poi un lungo percorso di fisioterapia in un centro di Asti dove sono stato seguito giorno e notte e dopo sette mesi ne sono uscito sulle mie gambe. Ora va sicuramente meglio, i test fisici sono buoni, tuttavia ancora non sono al cento per cento, faccio fatica ad esempio ad affrontare lunghe camminate. E devo sempre equilibrare tra le necessità di non fare troppo, perché altrimenti zoppico, e quella di non fare troppo poco, perché se no il lavoro che porto avanti è inefficace…

Negli sport invernali, nella tua disciplina in particolare, qual è il livello di collaborazione tra atleti? Considerato anche il tema del nostro progetto, hai mai assistito a episodi di discriminazione o situazioni spiacevoli nel tuo ambito sportivo?

Il nostro ambiente è il perfetto esempio di come dovrebbe essere lo sport. Viviamo come se fossimo in una grande famiglia, anche tra atleti di diverse Nazioni. Personalmente non ha mai assistito a situazioni di discriminazione o attrito particolare. Ci conosciamo tutti nel circuito e nel momento del bisogno c’è sempre qualcuno pronto a darti una mano. Siamo abituati a stare sempre in giro, quasi ogni giorno dell’anno, la fatica è grande, ci sono giorni in cui devi scaldarti con la temperatura a meno 15 gradi o sei sotto la pioggia. Questo forse ci accomuna e ci avvicina ancora di più, anche nel momento della competizione. Lo scorso anno a una mia compagna, appena prima dell’avvio della prima manche di una gara, si è rotto il lacciolo del casco. Non poteva partire. Nel giro di un minuto il capo allenatore della Germania è uscito dal furgone, le ha consegnato un casco e lei è riuscita a partire in fondo al gruppo e affrontare la discesa.

L’emergenza Covid vi ha causato particolari problemi? Abbiamo visto alcuni video dei vostri allenamenti a casa. Come avete affrontato la situazione?

Siamo riusciti a chiudere la stagione 2020 senza grandi problemi, se non fosse per il dispiacere di non aver potuto festeggiare a dovere la vittoria mondiale, conquistata il 1 marzo, perché appena rientrati in Italia è scattato il lockdown duro. Abbiamo ripreso ad allenarci dopo un mese, ma poi non abbiamo avuto particolari problemi e siamo riusciti a condurre la preparazione estiva, che si concentra molto più sulla parte atletica e il lavoro relativo alle spinte, sui pistini di tartan. Le gare sono poi riprese a novembre. L’unico grosso inconveniente per noi sono, ancora oggi ovviamente, i continui controlli. Ogni settimana effettuiamo due Covid test per spostarci da una pista all’altra… Non è certo piacevole! Ma la cosa più difficile è gareggiare senza pubblico. Tuttavia anche quest’anno siamo riusciti a portare a termine la stagione, quindi non abbiamo motivo di lamentarci. Guardiamo al futuro, con fiducia.

Rossano Galtarossa

Rossano Galtarossa nasce a Padova il 6 luglio del 1972. Avvicinatosi allo sport del remo in età giovanile, inizia la sua attività agonistica a 13 anni con il Cus Padova. Partecipa per la prima volta alle Olimpiadi nel 1992 a Barcellona, dove taglia il traguardo al terzo posto in quattro di coppia. Nel 1993 passa alla Canottieri Padova e strappa il bronzo ai Mondiali di Racice (Repubblica Ceca) ancora in quattro di coppia. Nella stessa specialità diventerà campione mondiale nel 1994, 1995, 1997, 1998.

Nel 1996 partecipa alla sua seconda Olimpiade (ad Atlanta – USA), posizionandosi quarto. Con Alessio Sartori, Agostino Abbagnale e Simone Raineri trionfa alle Olimpiadi di Sydney (Australia) nel 2000. Quattro anni dopo si piazzerà terzo ad Atene (in doppio) e nel 2008 approderà all’argento con il quattro di coppia con Raineri, Luca Agamennoni e Simone Venier. Nel 2011 torna a essere protagonista con la maglia azzurra e si qualifica col quattro di coppia alle Olimpiadi di Londra 2012.

Rossano Galtarossa è il canottiere italiano ad aver vinto più medaglie alle Olimpiadi: quattro, un oro, un argento e due bronzi. Oggi è Direttore degli Impianti della Società Canottieri Padova.

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la su storia sportiva e spiegare il canottaggio e il valore dello sport dal suo punto di vista.

Angela Carini

Il pugilato mi ha fatto diventare la donna che sono. I Giochi di Tokyo slittati al 2021? L’obiettivo medaglia resta lo stesso.

“Sognavo questa Olimpiade da anni e mi mancava solo un match per ottenere il pass. Ma l’emergenza coronavirus ha bloccato tutto. Dopo un primo momento di scoramento e pianto ho capito che era giusto così: la vita a volte ci presenta delle sfide enormi. La cosa migliore è accettare di fermarsi e far sì che la nostra Italia resti unita e che la salute di tutti possa essere salvaguardata. Non posso che ringraziare Dio di stare bene e sono sicura che troverò la forza per tornare a compiere i sacrifici necessari ancora più di prima. E quando tornerò sul ring scatenerò tutta la forza che ho dentro”. Angela Carini ha 21 anni, è pugile ed è una delle speranze azzurre per i prossimi Giochi Olimpici, quelli che avrebbero dovuto riportare quest’estate i cinque cerchi a Tokyo, a 56 anni dall’edizione del 1964, a 80 anni dall’edizione cancellata a causa della seconda guerra mondiale. Ma, come tutti gli atleti in preparazione per l’evento più importante del quadriennio, anche Angela ha dovuto confrontarsi con un’emergenza più grande. Eppure lei non è tipa da arrendersi: è una ragazza forte, nelle braccia e nella testa, ha ben chiaro quale sia il suo obiettivo sportivo. E così, rientrata da Londra, dopo l’interruzione del Torneo Europeo di Qualificazione Olimpica, è chiusa in isolamento e si allena a casa con il papà – il suo “eroe” – che la guarda attraverso un vetro. Per non perdere neanche un minuto, per continuare a coltivare un sogno.

di Ilaria Leccardi

Angela, sei giovanissima, compirai 22 anni a ottobre, ma ti porti dietro già tante medaglie e tanta esperienza. Come è nata la tua passione per i guantoni e il ring?

Ho iniziato con il tiro al piattello, seguendo le orme di mio fratello Antonio, e arrivando a ottimi livelli nazionali. Ma a un certo punto lui smise e passò al pugilato, anche per seguire le orme di nostro papà che in gioventù aveva praticato questo sport. Vedevo che il loro rapporto diventata sempre più intenso e questa cosa mi rendeva gelosa… Anche perché lo sono sempre stata molto di mio papà. Avevo 14 anni e un fisico da bambina, non ero certo in forma e soprattutto non sapevo niente di boxe. Eppure quando mio fratello tornava a casa dagli allenamenti lo sfidavo, volevo emularlo. Mi misi d’impegno, persi peso. E un giorno mio papà mi disse: “Forza, dai, tirami un sinistro sul palmo della mano”. Io lo feci e fu – come disse lui – un “bel cazzotto!”. Avevo deciso, volevo anch’io praticare quello sport. Mio papà mi portò in palestra, il maestro notò subito che ero portata, poco tempo tempo disputai il mio primo campionato italiano e, a nove mesi dal mio ingresso in palestra, il mio primo Campionato Europeo. Nel 2014 ho vinto il primo titolo Europeo, seguito poi da quelli nel 2015 e 2016. Sempre nel 2015 – a 17 anni – ho vinto l’oro ai Campionati del Mondo nella categoria Youth.

Una carriera rapidissima, sempre al fianco del papà…

Sì lui è il mio eroe. È un poliziotto, vittima di un incidente in servizio e costretto sulla sedia a rotelle. Sono molto legata a lui, mi ha insegnato che nella vita non bisogna mai arrendersi. E quando sono sul ring e la situazione si fa difficile, sento il suo esempio, non mi arrendo mai. Quando è rimasto paralizzato io avevo solo due anni, sono cresciuta sulle sue gambe, non mi ha mai fatto mancare niente. Non l’ho mai visto come un papà diverso dagli altri, la sedia su cui lui è seduto non ci ha mai divisi, anzi. Ancora oggi lo guardo con occhi da innamorata.

È stato anche lui che ti ha aiutata a inquadrare i tuoi sogni?

Sì, assolutamente. Fin da bambina i miei sogni sono sempre stati due. Da una parte andare alle Olimpiadi, e spero di realizzarlo presto. Dall’altra entrare in Polizia ed è stato possibile grazie allo sport, dopo la vittoria dei Mondiali del 2015, per cui ora faccio pare del Gruppo Sportivo delle Fiamme Oro. Se non ci fossi arrivata così, sono sicura che avrei seguito la strada dei concorsi.

La tua carriera sportiva è stata brillante, rapida, ma ti ha costretta anche ad affrontare momenti non semplici.

A 18 anni sono entrata nel mondo delle “grandi” della Nazionale. Nuovi confronti, nuova vita. Ma all’inizio del 2018 ho subito un grave infortunio: la rottura del legamento crociato anteriore, che mi ha costretto a subire un intervento e a saltare al mio primo Europeo nella categoria Elite (over 19, ndr). I Mondiali erano in programma nove mesi dopo e nessuno dei medici credeva che potessi riprendermi per quell’appuntamento. Ma io non ho mollato: in tre mesi ho recuperato, con il programma di fisioterapia seguito passo passo, la riabilitazione tutte le mattine in piscina, grazie come sempre all’aiuto di mio papà. A giugno sono rientrata in Nazionale e ho rivisto la luce. Ho recuperato il peso gara, mi sono rimessa in riga e sono stata convocata per i Mondiali Elite in India, a novembre. Lì però è arrivata la seconda batosta: sono stata eliminata al secondo turno. Era la prima volta che mi capitava di uscire in quel modo.

Mi ero sempre vista sul gradino più alto e mi sono trovata ad affrontare la sconfitta. Poi, anche grazie al confronto con i miei genitori, ho capito che la vera vittoria in quella fase era stata tornare sul ring dopo l’infortunio che avevo subito.

Qual è stato il cambiamento in te?

Fino a quando ti confronti con le giovani, sei abituata a trovarti davanti della ragazzine. Con il passaggio all’Elite invece hai di fronte delle vere e proprie donne, pronte al combattimento. E per risposta devi imparare ad avere un carattere forte. Lì è iniziato il mio cambiamento vero. Dopo un paio di mesi ho vinto l’argento agli Europei Under 22, l’argento europeo Elite a Madrid e a ottobre scorso, a Ulan-Udè, in Russia, anche l’argento Mondiale. Non sono ori, ma sono comunque arrivata sempre in finale, tra le migliori. Quei momenti di buio mi sono serviti a farmi crescere a farmi diventare la donna che sono adesso.

Angela Carini, la prima a destra, con le compagne di Nazionale agli Europei Under 22 del 2019

Sei indulgente con te stessa?

No, sono molto critica. Anche in allenamento, quando qualcosa non va, difficilmente mi perdono.

Quanto dedichi allo sport ogni giorno?

Mi alleno in due sessioni: due ore al mattino, dedicate alla preparazione fisica, due ore e mezzo al pomeriggio, dedicate interamente al pugilato. Mi alleno a Casoria, assieme al mio ragazzo Gianluca, a sua volta pugile e fratello di Vincenzo Picardi, bronzo Olimpico a Pechino 2008. E questo è possibile grazie alla Polizia e alle Fiamme Oro, che mi concedono di stare a casa, vicino ai miei affetti. Anche se spesso mi trasferisco ad Assisi, per allenarmi al Centro Nazionale Federale.

Che rapporto hai con i social e il mondo del web?

Sono sempre stata “molto social”, ma fino a poco tempo fa i miei profili erano privati. Ultimamente, con la crescita sportiva, li ho resi pubblici e i contatti tra i follower sono molto aumentati. Quello dei social è un mondo in cui da una parte devi stare attenta, perché non sai mai cosa ti aspetta, dall’altra ti permette di conoscere realtà e persone nuove, anche appassionati del mio sport.

Hai mai avuto esperienze spiacevoli? Hai subito attacchi di qualche tipo?

Personalmente no, però sono stata testimone – sia sui social sia nella vita reale – di situazioni di razzismo, cattiverie, gelosie. E non posso che pensare che le persone razziste siano ignoranti. Chi ancora compie atti di razzismo non ha neanche bisogno di essere descritto, è inqualificabile. Così come chi compie atti di bullismo. Una persona che diventa vittima di queste azioni non significa che sia debole.

La persona veramente debole è colei che compie attacchi di bullismo per sentirsi forte, perché non ha altre forme per emergere.

Angela Carini insignita del premio Giuliano Gemma 2020

A occhi inesperti, il pugilato può sembrare uno sport violento…

Sì, ma non è così. È uno sport che ti insegna ad avere rispetto per il tuo avversario, a stare in mezzo ad altre persone. Il combattimento è fatto di regole, della capacità di amare se stessi e il prossimo. Il pugilato – è vero – nella vita può essere un’arma, ma solo di difesa. Non può e non deve diventare un abuso. Come ogni sport, può invece diventare un veicolo per sfogare la rabbia, il dolore.

Essere donna in un ambiente come quello pugilistico è difficile?

No, almeno dal mio punto di vista. È vero che, soprattutto all’inizio, mi sono trovata ad allenarmi con quasi solo dei maschi, tra cui mio fratello, che ha sempre insegnato a tutti – per prima a me – che le donne vanno rispettate in tutto e per tutto. Magari qualcuna al mio posto avrebbe potuto sentirsi in imbarazzo, ma io sono sempre stata rispettata e, da qualche ragazzo, anche temuta sul ring. Non è un ambiente chiuso alle donne, anche se le ragazze che praticano il pugilato non sono ancora moltissime.

Veniamo alla situazione attuale, con il blocco di tutte le attività a causa dell’emergenza coronavirus e il rinvio dei Giochi Olimpici. Cosa hai vissuto in queste ultime settimane, passando dal sogno di Tokyo all’obbligo di doversi mettere in attesa?

Aspettavo questo quadriennio da dieci anni, visto che andare alle Olimpiadi era uno dei miei sogni di bambina. E per ottenere il pass per Tokyo mi mancava solo un match. Siamo partiti per Londra, per il Torneo Europeo di Qualificazione, in un momento in cui sapevamo che già altri sport erano fermi per l’emergenza coronavirus. La situazione non era semplice, i nostri genitori erano preoccupati. Il Torneo è cominciato a porte chiuse, noi abbiamo iniziato a combattere, decisi verso i nostri obiettivi. Ma la sera prima del mio match si è tenuta una riunione in cui è stata decisa la sospensione dell’evento. La prima reazione è stata scoppiare in lacrime. Siamo rientrati a casa e ci siamo messi in isolamento. Poi, pochi giorni dopo, è stata ufficializzata la notizia dello spostamento dei Giochi Olimpici e ho capito che era giusto così. Se deve essere un male per me, per gli atleti e per tutti coloro che partecipano all’organizzazione dei Giochi, è giusto fermare tutto. Certo, per noi che attendiamo questo evento da almeno quattro anni è difficile ora pensare come riprogrammare tutta la preparazione. L’avvicinamento ai Giochi per ogni sportivo è fatto di sacrifici enormi, lunghi periodi passati fuori casa, dedizione costante. Ma la vita a volte ti presenta delle sfide più grandi e la cosa migliore è accettare di fermarsi e ringraziare Dio che stiamo bene, sperando che ci dia la forza di compiere di nuovo questi sacrifici, ancora più forti di prima.

Come passi questi giorni in casa? La Federazione Pugilistica Italiana (FPI) la lanciato la campagna social #InFormaConLaBoxe a cui tu hai partecipato.

Rientrata da Londra ho scelto l’isolamento volontario, come tutte le persone che tornano da un Paese straniero in questa situazione. Ho la fortuna di avere un grande terrazzo in cui mi posso allenare. E vicino a me, ma dall’altra parte di un vetro perché non possiamo entrare in contatto, c’è mio papà che mi segue costantemente. Noi atleti non possiamo far altro che allenarci da soli, dare l’esempio e “fare i bravi”, come tutto il resto della popolazione, ciascuno a casa propria ma uniti a distanza. Dobbiamo essere forti anche di testa, non mollare e continuare a inseguire i nostri sogni.

Assunta Legnante

Nulla come lo sport ti fa crescere e conoscere le tue potenzialità

Se è vero che dopo la pioggia e la tempesta torna sempre il sereno, se è vero che anche nelle notti più buie arrivano le stelle a illuminare una porzione di cielo, è anche vero che ci sono luoghi – e persone – in cui la luce non manca mai. Anzi, la si vede brillare a distanza. E quella luce non fa che trasmettere calore. Assunta Legnante è un’icona dello sport azzurro. Tra le migliori interpreti del getto del peso a livello internazionale per tante stagioni, un oro e un argento europei, un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo, una decina di anni fa ha dovuto fare i conti con un problema che si portava dietro dalla nascita, un glaucoma che l’ha condotta alla cecità totale. Ed è così che un giorno è arrivato il buio? No, perché Assunta è una di quelle persone in cui la luce non si spegne, anzi brilla di continuo, e che ha proseguito sulla sua strada affrontando la realtà, senza rimorsi, e con un sogno che l’ha guidata oltre il limite. Oggi è due volte campionessa paralimpica, primatista e pluricampionessa mondiale, capitana delle spedizioni azzurre, amatissima dai fan sul campo e sui social. Un esempio per tutto il mondo dello sport italiano, ma non solo.

di Ilaria Leccardi

Partiamo guardando al passato. Com’è nato in Assunta Legnante l’amore per l’atletica e una disciplina così particolare come il getto del peso?

All’atletica mi sono avvicinata 15enne, a scuola, grazie ai vecchi Giochi della Gioventù, un bellissimo veicolo per avvicinare i ragazzi al mondo sportivo. Fino ad allora praticavo la pallavolo: ero già molto alta, avevo un bel futuro davanti, ma nella mia zona, Napoli, non c’erano squadre di buon livello che mi potessero offrire un futuro brillante. A scuola iniziai a sperimentare diverse discipline, corsa, salti, fino a quando mi misero in mano un peso e i professori notarono che ero portata. Nel giro di poco tempo feci molti progressi e trovai una società di Napoli dove allenarmi in maniera continuativa. L’atletica mi aveva aperto le porte di un futuro straordinario.

Forza, esplosività. Tu sei alta quasi un metro e 90 e hai una notevole potenza fisica. Ma il getto del peso prevede soprattutto una grande tecnica…

La maggior parte delle persone pensa che la mia disciplina si riduca al prendere in mano una palla di ferro e lanciarla più forte possibile. Ma non è così, è tutto un equilibrio di forza, velocità, agilità, si lancia molto anche di gambe, serve tecnica. Un errore nel gesto può portarti a perdere mezzo metro sulla lunghezza del lancio.

Assunta Legnante doppio oro ai Mondiali di Dubai 2019 – foto Marco Mantovani/FISPES

Questione di attimi e concentrazione. E poi quell’urlo una volta che il peso si stacca dalla mano. Lo capisci subito quando un lancio è andato bene?

Io sì… L’urlo del lancio ha due sensi. Il primo è liberatorio, perché il gesto lo si compie in apnea, senza respirare, quindi liberi l’aria appena finisci. L’altro è perché quando ti rendi conto che il lancio è uscito bene e hai sentito tutte le sensazioni buone, esplodi di gioia.

La tua carriera è stata fin da subito un crescendo. Medaglie, record italiani, Giochi Olimpici. Poi cos’è successo?

Ho gareggiato per tanti anni con i normodotati, ho vinto medaglie agli Europei indoor, ai Giochi del Mediterraneo, ho avuto una carriera importante. Ma il sogno è sempre stato quello Olimpico. Nel 2004, nonostante avessi strappato il pass per Atene, il medico oculista del CONI mi fermò a causa di un problema oculare congenito, per cui – mi disse – rischiavo di rimanere cieca. Quattro anni dopo, però, fui io a non volermi fermare. Sapevo che il problema persisteva e continuare a quei livelli avrebbe comportato un rischio ancora maggiore. Ma decisi di affrontarlo, pur di vivere l’esperienza a cinque cerchi. Diciamo che sono andata incontro al buio di mia spontanea volontà. Volevo arrivare a quella gara, altrimenti non mi sarei sentita un’atleta realizzata. Ci sono riuscita e dopo due anni ho smesso, perché poi la malattia si è fatta sentire concretamente. Nel 2009 ho affrontato il mio ultimo anno da atleta normodotata, vincendo l’altro l’argento ai Giochi del Mediterraneo di Pescara, e il campo visivo iniziava a restringersi, me ne accorgevo nelle cose di tutti i giorni. Anche quando dovevo riprendere il peso dopo il lancio, facevo fatica a trovare l’attrezzo. Poi i problemi sono aumentati. Mi è caduta la retina, ho affrontato visite e interventi e con il passare del tempo la vista si è spenta.

Come hai vissuto questa situazione?

In realtà devo ancora realizzare, anche se sono passati diversi anni. Non ne ho avuto il tempo. Ho avuto la certezza di essere diventata cieca totale a marzo 2012. Ma dopo appena un mese ci fu chi nell’ambiente dell’atletica mi propose: Assunta, cosa ne dici di partecipare alle Paralimpiadi di Londra? E io: Siete pazzi? Non conoscevo nulla del mondo paralimpico e per me era impossibile immaginare che una persona non vedente potesse partecipare a una gara di getto del peso. Conoscevo i casi di persone amputate che correvano, o di chi si faceva accompagnare dalla guida, ma poco di più. Allora ne parlai con Nadia Checchini, tecnica che ancora oggi mi fa da guida in Nazionale, le feci una domanda per avere le prime informazioni. E poi, la mia seconda domanda è stata: quant’è il record del mondo? Un mese dopo, il 13 maggio, ho disputato la mia prima gara paralimpica a Torino, il campionato italiano, con l’obiettivo di realizzare la misura per ottenere il pass per Londra: feci 13,22 metri, pass e record del mondo superato di oltre 2 metri. Da allora non ho fatto altro che continuare ad allenarmi. Purtroppo quell’anno, a giugno, mancò mia madre, e poi poco dopo partii per le Paralimpiadi… E fu subito oro. La mia vita non si è mai fermata.

Cosa è cambiato dal punto di vista sportivo e delle sensazioni in pedana di gara?

Per me nulla, se non nel momento in cui mi accompagnano in pedana. Il momento del lancio è pura concentrazione. Sono sola con me stessa e le mie sensazioni.

E nella vita di tutti i giorni?

Sono sempre stata abituata a essere autonoma. Andai via di casa a 18 anni, trasferendomi ad Ascoli Piceno per allenarmi, subito dopo il diploma. Ho viaggiato tanto grazie all’atletica, ho conosciuto l’Italia e il mondo. E ho voluto anche in questa situazione mantenere la mia autonomia. Certo, però, ci sono cose che da sola non riesco più a fare come prima: la spesa da sola, una passeggiata. E allora sapete cosa faccio?

Uso la scusa di non avere né un bastone né un cane guida per coinvolgere altre persone, per creare momenti di socialità, per portare coloro che la vista ce l’hanno a vivere la mia vita, a comprendere le difficoltà di una persona non vedente.

Hai quasi 42 anni, hai ancora voglia di allenarti e puntare in alto?

Il mio obiettivo immediato ora è Tokyo 2020. Le difficoltà della vita agonistica di alto livello ci sono, l’età avanza, i dolori aumentano. Lo sport fa bene, ma quando si gareggia ad alti livelli per anni, allenandosi 12 o 13 volte a settimana, i problemini emergono per forza, la schiena, le articolazioni. Il sogno? Diciamo che nella mia vita non sono mai stata in America… e festeggiare i 50 anni a Los Angeles 2028 potrebbe essere un bel traguardo ambizioso, ma non impossibile. Fino a quando arrivi sul gradino più alto del podio gli stimoli ci sono.

Quanto è aumentata in questi anni l’attenzione al mondo paralimpico?

L’attenzione c’è quando arrivano le medaglie. I tifosi si riconoscono nei propri campioni, ne condividono la storia, i successi fanno appassionare tante persone. E il movimento italiano paralimpico è molto cresciuto, cercando di avvicinarsi sempre di più allo sport olimpico, con una maggiore professionalità e ciclicità negli allenamenti.

Tu però non ti accontenti mai e sei tornata anche a gareggiare nel circuito non paralimpico.

Sì, ogni anno faccio le mie due o tre gare con le normodotate e le mie soddisfazioni me le tolgo… E poi ho allargato un po’ le attività in ambito paralimpico. Dal 2012 gareggio anche nel lancio del disco, benché rispetto al peso sia una disciplina differente. Per me ormai lanciare il peso è un gesto meccanico, per cui il mio cervello ha un automatismo assodato. Imparare a lanciare il disco non vedendo è stato molto difficile.

Eppure anche qui ti sei tolta delle soddisfazioni perché agli ultimi Mondiali di Dubai oltre all’oro nel peso è arrivato quello nel lancio del disco con record europeo. Con una mascherina particolare…

Sì, dopo aver usato per un periodo la mascherina di Diabolik, ho deciso di far scegliere sui social ai miei tifosi la nuova mascherina per i Mondiali… E loro hanno scelto quella dell’Uomo Tigre!

Questa è l’anima buona dei social. Se spesso rischiano di diventare terreno di astio e aggressività, possono anche essere un veicolo positivo di coinvolgimento.

Assolutamente sì. Io con i social ho un ottimo rapporto. Non sono una fissata, ma gestisco il mio profilo e ho una grande risposta dai miei fan che cerco di coinvolgere il più possibile. Per una persona che mi segue vedermi vincere due medaglie mondiali indossando una mascherina che lei stessa ha contribuito a scegliere penso sia una bella soddisfazione. È un modo per sentirsi vicini, fare parte di una comunità, contribuire con un piccolo gesto di sostegno a un successo sportivo in cui tutti si possono riconoscere.

Hai mai vissuto invece episodi spiacevoli?

In realtà no, né sui social né quando ero ragazzina e – lo dico ora con certezza – per fortuna allora Facebook e i telefonini ancora non c’erano. Sono sempre stata una ragazza isolata, un po’ sulle mie. Ed è grazie allo sport che sono fiorita e ho imparato ad aprirmi.

Cosa può insegnare lo sport da questo punto di vista?

Io consiglio a tutti i ragazzi di fare attività sportiva, non per puntare a una vittoria o a una medaglia, perché lo sport ti fa crescere. Io quando ero piccola avevo vergogna di tutto, vivevo le interrogazioni tremando, non avevo sicurezza in me stessa.

Lo sport ti permette di conoscere gli altri e confrontarti con loro, con il mondo, sentire gli accenti delle diverse regioni italiane. Se ti va bene inizi a viaggiare e spostarti, entri in contatto con qualcosa al di fuori della tua stretta cerchia. E questo ti aiuta a rafforzare la tua autostima, ti fa riconoscere nell’altro. Ti dà la possibilità di conoscere i tuoi mezzi e le tue potenzialità, di metterle in marcia. E se non stiamo bene con noi stessi non possiamo pensare di stare bene con gli altri.

Se dovesse leggere questa intervista un ragazzo e una ragazza che ha subito episodi di bullismo, che consiglio daresti?

Prima di tutto di non restare in silenzio e, se ci riesce, di parlarne con i genitori, con i professori se la cosa è successa a scuola, o anche solo con un amico. La forza va trovata in sé, ma anche nell’aiuto degli altri. La cattiverie vanno fatte scivolare addosso anche se, il più delle volte, non è semplice. Purtroppo chi commette atti di bullismo è perché spesso si porta dietro qualche ferita che poi riversa sugli altri. Dovremmo tutti tornare a parlarci, trovare un equilibrio nelle nostre capacità e cercare di inseguire i nostri sogni.