Campioni e campionesse, società sportive, associazioni, scuole e studenti uniti per dire no all’hate speech nello sport, è così che riparte con nuovo slancio il progetto Odiare non è uno sport, per prevenire e contrastare i messaggi d’odio online in ambito sportivo
Veicolo di crescita e confronto, palestra di vita, lo sport coinvolge milioni di ragazzi e ragazze nel nostro paese ed è un importante terreno di inclusione e aggregazione sociale. Allo stesso tempo però lo sport è divenuto anche, e sempre più, terreno di scontri, discorsi e gesti d’odio, che nella dimensione digitale si potenziano e diffondono in maniera esponenziale.
Secondo la ricerca di Coder (UniTo) del 2020, sulle pagine Fb delle 5 principali testate sportive nazionali tre post su quattro ricevono commenti di hate speech
È così che, anche grazie all’aiuto di diversi campioni azzurri, in occasione della Giornata Mondiale dello Sport 2023, riprende nuovo slancio la campagna #Odiarenoneunosport, sostenuta dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo e promossa dal Centro Volontari Cooperazione allo Sviluppo (CVCS), con un fitta rete di partners su tutto il territorio nazionale.
Guarda il video reel
Avviata nel 2020 con un primo studio del fenomeno affidato all’Università di Torino (Centro Coder) che ha elaborato il primo Barometro dell’Odio nello sport, monitorando i principali social media e le testate giornalistiche sportive, la campagna ha raccolto le testimonianze di campioni dello sport azzurro come Igor Cassina,Paola Egonu, Stefano Oppo, Alessia Maurelli,Frank Chamizo, Valeria Straneo, Angela Carini e tanti altri. Al loro fianco le straordinarie storie di inclusione socialeavvenute attraverso lo sportsul territorio italiano e l’adesione spontanea di decine di sportivi, professionisti e dilettanti, associazioni, scuole o semplici cittadini che sostengono la campagna ritraendosi con la scritta Odiare non è uno sport . Qui la Gallery
Riparte oggi con nuovo slancio non solo la campagna di sensibilizzazione, che si svolgerà contestualmente alla delicata fase della preparazione Olimpica degli Azzurri verso Parigi 2024, ma anche un importante progetto di prevenzione e contrasto all’hate speech. Progetto che porterà alla realizzazione del secondo Barometro dell’Odio nello sport e al coinvolgimento in percorsi formativi interattivi e multimediali sulle dinamiche dell’odio nello sport 600 docenti di scuole secondarie, 540 allenatori sportivi del target giovanile, 300 dirigenti di società/ASD, 2200 studenti di scuole secondarie di I e II grado e 900 giovani sportivi della fascia 11-18.
Saranno costituite anche 9 squadre territoriali di attivisti digitali anti-odio, composte da studenti e giovani coinvolti nelle attività di formazione, che condurranno azioni di contrasto all’hate speech sportivo in chat e social frequentati dai giovani, attivando reazioni e risposte di valenza dissuasiva ed educativa.
Tutti insieme, con nuovo entusiasmo e determinazione e un obiettivo comune: dire no all’odio nello sport e nella vita.
Il progetto è sostenuto dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo e promosso dal Centro Volontariato Cooperazione allo Sviluppo, in partenariato con 7 ong italiane con ampia esperienza nell’educazione alla cittadinanza globale (ADP, Aspem. CeLIM, COMI, COPE, LVIA, Progettomondo), gli enti di promozione sportiva CSI e Libertas, Informatici senza Frontiere e Impactskills srl per lo sviluppo delle soluzioni tecnologiche e due Atenei (UniTo e UniTs) per la realizzazione della ricerca e la supervisione scientifica
Hanno alle loro spalle abbandoni o soprusi subiti proprio da chi li doveva amare di più, background difficili di immigrazione, povertà o solitudine, briciole di vita da cui ripartire. Sono i minori ospiti di Casa Priscilla, struttura di Padova che dal 2001 accoglie mamme e minori in difficoltà ai quali offre un ambiente sereno e protetto, una “casa” di amore e di affetti, possibilità di un futuro migliore.
Informatici Senza Frontiere ha voluto concludere assieme a loro i progetto “Odiare non è uno sport”, che tra il 2019 e il 2021 ha squarciato un velo sull’odio in rete e le discriminazioni in ambito sportivo.
Per i ragazzi di Casa Priscilla proprio lo sport è infatti occasione di rinascita, di gioia spensierata, territorio di amicizia e di fratellanza. Spesso manca però la materia prima: scarpe, palloni, abbigliamento sportivo. Così, grazie all’interessamento di Libertas Padova e alla collaborazione di Un Sesto Acca, Informatici Senza Frontiere ha messo le scarpe da corsa ai piedi dei ragazzi di Casa Priscilla e dotato la Casa di attrezzatura per far loro praticare calcio, atletica, un po’ di sport di base.
L’iniziativa ha visto la partecipazione dell’assessore allo sport del Comune di Padova, Diego Bonavina, che ci ha tenuto a dare il suo appoggio all’iniziativa e dire, ancora una volta, Odiare non è uno sport.
Qui un breve video sulla cerimonia di consegna dei regali
Dopo aver creato output di contro-narrazione i cui protagonisti sono stati atleti, dirigenti sportivi e altre figure legate al mondo dello sport, giunte e giunti al termine del progetto, l’equipe di Radio Sherwood e due ragazze che stanno svolgendo uno stage Erasmus + per Tele Radio City Onlus raccontano così Odiare non è uno sport. “Ecco cos’è questo progetto per noi e cosa ci ha lasciato”. Per voi un video e una gallery fotografica.
Venerdì 19 marzo Padova si è unita al presidi che si sono tenuti in 10 città d’Italia per dire no all’hate speech e promuovere lo sport inclusivo. I volontari di Amici dei Popoli e di Tele Radio City si sono ritrovati in piazza Portello, con striscioni e cartelli per segnalare i principali dati relativi all’hate speech online rilevati dal Barometro dell’Odio nello Sport. Il presidio, che è stato organizzato in forma statica e nel pieno rispetto delle norme anti-Covid, è stato un momento impotante per fare informazione e contrastare il fenomeno dell’odio online.
Oggi – venerdì 19 marzo – in dieci piazze italiane i nostri attivisti hanno organizzato azioni dimostrative – nel pieno rispetto delle norme anti-Covid e del distanziamento – per dire no all’hate speech e a ogni forma di discriminazione nello sport. Da Roma a Torino, da Padova a Catania, da Cuneo a Milano, passando Rovigo, Gorizia e Verona. Iniziative simboliche e creative partecipate a distanza da migliaia di persone grazie al rilancio sui social
In oltre un anno di progetto abbiamo lavorato per creare maggiore consapevolezza sul fenomeno, coinvolgere giovani e realtà sportive, dar vita a una narrazione positiva dell’inclusione in ambito sportivo, mobilitare e formare giovani attivisti che agissero contro l’odio online nelle conversazioni sportive.
Dodici campioni olimpici hanno aderito e portato le loro testimonianze mentre si sono coinvolti attivamente oltre 3000 giovani in tutta Italia, 200 insegnanti, 150 allenatori di società sportive che hanno partecipato alle attività del progetto. Alcune centinaia hanno anche voluto “metterci la faccia” postando le proprie foto con la scritta Odiare non è uno sport (vedi la gallery). In sette regioni inoltre sono nate delle squadre anti-odio, gruppi di giovani che, opportunamente formati, si sono attivati per intercettare i discorsi d’odio online sui principali social sportivi e intervenire per smorzare i toni e riportare le conversazioni su un piano corretto.
Il 19 marzo 2021 sono organizzati in contemporanea in 10 città italiane momenti di mobilitazione giovanile creativa, nel rispetto delle norme e del distanziamento fisico, per attirare l’attenzione della cittadinanza sul fatto che i linguaggi d’odio non appartengono alla pratica sportiva, ma anzi ne contraddicono i principi e il senso.
In vista del 21 marzo, Giornata internazionale contro il razzismo, l’obiettivo dell’azione è tutelare il diritto ad una comunicazione pacifica e inclusiva e stimolare una riflessione sul tema aumentando la consapevolezza dei giovani sugli impatti devastanti dell’hate speech tanto online che offline
Secondo il Barometro dell’Odio nello Sport, l’hate speech è ormai una componente strutturale delle conversazioni sportive, potenziata dai meccanismi virali della comunicazione digitale.
Su 4.857 post analizzati, per un totale di oltre 443mila commenti alle pagine Facebook delle cinque principali testate giornalistiche sportive nazionali (Gazzetta dello Sport, TuttoSport, Corriere dello Sport, SkySport, Sport Mediaset), è emerso che tre post su quattro ricevono commenti che contengono una qualche forma di hate speech
Ma noi non ci arrendiamo! Lo sport è anche un potente strumento di integrazione sociale e socializzazione e l’hanno ribadito gli oltre 3000 giovani, 200 insegnanti e 150 allenatori di società sportive che quest’anno hanno partecipato attivamente al progetto.
Si sono mobilitati anche personaggi dello spettacolo, che hanno dato il loro supporto alla campagna, come Giovanni Storti, del famoso trio Aldo giovanni e Giacomo, che sostiene in questo video ironico la mobilitazione del 19 marzo
Il progetta culmina con i presidi del 19 marzo dove, attraverso brevi performances sportive nel rispetto del distanziamento fisico, e la presentazione di materiali informativi nelle diverse città italiane si rilancerà la scritta Odiare non è uno sport ripresa e fotografata dagli uffici comunicazione dei diversi enti partners per realizzare in contemporanea un “Flash Mob online” coinvolgendo le scuole e associazioni sportive già precedentemente contattate dalle attività del progetto.
Ecco dove ci potrete trovare venerdì 19 marzo:
– a Catania, in Via Crociferi (centro storico), dalle ore 16
– a Cuneo, in via Roma, dalle ore 16.30
– a Gorizia, in piazza Vittoria, dalle ore 15
– a Milano, in piazza Castello, dalle ore 15
– a Padova, in via del Portello, dalle ore 15, e poi anche per le strade della città
– a Roma, in piazza del Colosseo nel pomeriggio
– a Rovigo, per le strade della centro nel pomeriggio
– a Torino, in piazza Castello e in piazzetta Reale, dalle ore 15.30
– a Verona, in piazza Brà, dalle ore 15
Guarda il video spot dell’iniziativa e partecipa anche tu!
Quanti discorsi d’odio ci sono nelle conversazioni online in ambito sportivo? Con l’Università degli Studi di Torino abbiamo realizzato il Barometro dell’odio nello Sport, la prima ricerca italiana che monitora le pagine social delle cinque principali testate sportive italiane. I ricercatori del centro CODER hanno analizzato 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter. Con risultati sorprendenti.
di Silvia Pochettino
Quanta volgarità, minacce e insulti anche a sfondo razziale o sessista sono presenti nelle discussioni on line che parlano di sport? Se da un lato lo sport è spesso strumento di integrazione e trasmissione di valori, soprattutto quando praticato, dall’altro, specialmente nella dimensione del tifo, può diventare un elemento divisivo che inasprisce la competizione fino a trasformarla in conflitti anche violenti. Ma quanto influisce in tutto questo l’uso dei social network? Che frequenza e che caratteristiche hanno i linguaggi d’odio online nello sport italiano?
Prova a rispondere a queste domande il Barometro dell’odio nello Sport, ricerca realizzata dal Centro CODER dell’Università di Torino nel quadro del progetto Odiare non è uno sport
Il primo risultato che salta agli occhi dal monitoraggio delle pagine Fb e Twitter delle principali testate sportive nazionali (La Gazzetta dello Sport, Tuttosport, Il Corriere dello Sport, Sky Sport e Sport Mediaset) realizzato dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020, è che esisteun livello costante di hate speech al di sotto del quale non si scende mai, pari al 10,9% dei commenti su Facebook e 18,6% su Twitter.
I messaggi d’odio risultano dunque una componente non solo rilevante ma strutturale delle conversazioni sportive sui social media.
Tuttavia, Facebook e Twitter sono diversi, sia per numero di commenti sia per la presenza di hate speech. A parità di messaggi pubblicati, Facebook genera un volume di commenti 26 volte superiore a quello di Twitter. Ma, mentre l’hate speech raggiunge il 13,4% dei commenti su Facebook, suTwitter arriva al 31% .
Se si vanno poi ad approfondire le modalità con cui si manifesta l’hate speech, il linguaggio volgare (14% su FB e 31% su Twitter) e l’aggressività verbale (73% e 60%) sono le forme più frequenti. Tuttavia, anche discriminazione (7% e 5%) e aggressività fisica (5% e 4%) non sono irrilevanti. La ricerca ha infatti individuato circa 5.000 commenti contenenti elementi di questo tipo pubblicati dagli utenti in un arco di tre mesi.
Infine, dato prevedibile, gran parte del traffico di notizie sui social e di conseguenza la maggior parte degli episodi di hate speech sono da ricondurre al mondo del calcio.. Emerge che Mario Balotelli e Romelu Lukaku sono i personaggi sportivi su cui si concentrano più commenti di hate speech (rispettivamente 16,7% su Facebook e 38,3% su Twitter; 15,5% su Facebook e 40,6% su Twitter) contenenti insulti e discriminazione razziale (rispettivamente 2,1% su Facebook e 5,6% su Twitter; 1,9% su Facebook e 2,4% su Twitter).
Infine è interessante notare come su Facebook, dove è possibile commentare i commenti degli altri, l’hate speech risulta più elevato nelle discussioni tra utenti rispetto ai commenti ai post. Ovvero il maggior numero di riferimenti al linguaggio d’odio non risulta correlato al contenuto dei post ma piuttosto alle prese di posizione di altri utenti
Guarda la presentazione live del Barometro con Giuliano Bobba, dell’Università di Torino, autore della ricerca, e Sara Fornasir coordinatrice del progetto Odiare non è uno Sport
Webinar – Quale futuro per i processi di integrazione?
Quale sarà il futuro dello sport dilettantistico in seguito alla pandemia e quali le prospettive e le azioni concrete da sviluppare per continuare i processi di integrazione? Giovedì 4 febbraio, alle ore 19, saremo online per un Webinar dedicato al tema, a cui sarà possibile partecipare via Zoom e che sarà trasmesso in diretta sulla pagina FB di Odiare non è uno sport.
L’appuntamento, dal titolo “La ‘fase 3’ dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”, coinvolge realtà sportive e atleti intercettati nel corso della campagna di contronarrazione del progetto. Sarà occasione per riflettere sulla situazione che sta vivendo il mondo sportivo, a causa della pandemia. Un contesto dove, con gli stadi chiusi, l’unico serbatoio in cui riversare l’odio sono rimasti i social. Mentre, con lo stop allo sport di base e dilettantistico, è fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione.
Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata, le disuguaglianze si sono acuite, chi era già in una situazione di difficoltà ora a stento riesce a sopravvivere. Il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità: una scelta che ha portato fuori dai campi di gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla situazione sanitaria.
Ne parleremo con Camilla Previati (ASD Quadrato Meticcio – Padova), Stefano Carbone (Polisportiva San Precario – Padova), Jacopo Mazziotti (St. Ambroeus FC – Milano), Federico Dagoli (Atletico No Borders – Fabriano), Teresa Carraro (Criminal Bullets – Roller Derby Padova), Marco Proto (RFC Ska Lions Caserta), Enzo Ardilio (Briganti Librino Catania).
Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità. L’odio nei social network e nello sport si interconnettono costantemente; ad accrescere questa tesi basti pensare che nel mondo dello sport perfino “gli odiatori” hanno bisogno dell’avversario.
Dal 7 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020 il centro CODER dell’Università di Torino ha monitorato alcuni social network – analizzando 443.567 post su Facebook e 16.991 su Twitter – delle cinque principali testate sportive italiane. Ne è uscito un Barometro che, purtroppo, segnala “alta pressione”. Il risultato più rilevante della ricerca è che il linguaggio d’odio è una componente strutturale del linguaggio sportivo, che si può classificare con quattro dimensioni: linguaggio volgare, aggressività verbale, minacce e discriminazione.
In una rivelazione svolta dall’Università di Milano, nel periodo marzo-settembre 2020, sono stati raccolti 1.304.537 tweet dei quali 565.526 negativi, contenti parole d’odio (il 43% circa vs. 57% positivi). Quello che emerge è una decrescita significativa dei tweet negativi rispetto al totale dei tweet raccolti. “Fattore determinante nell’analisi di quest’anno è stato lo scatenarsi della pandemia da Covid-19” osserva la ricerca, secondo la quale “ansie, paure, difficoltà si sono affastellate nel vissuto quotidiano delle persone, contribuendo a creare un tessuto endemico di tensione e polarizzazione dei conflitti”.
Anche lo sport viene da un anno epocale: per due mesi abbondanti tra metà maggio e fine luglio 2020 è sostanzialmente sparito, tanto al livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo. Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che oltre all’attività sportiva, porta avanti percorsi educazione e socializzazione che mirano alla lotta contro ogni discriminazione. In questo contesto si inseriscono le realtà di sport popolare e indipendente attive sul nostro territorio, che si sono messe al servizio delle comunità, senza chiedere nulla, spinti dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.
Il contrasto all’odio e al bullismo deve partire dalla scuola, rendendo i ragazzi protagonisti del cambiamento. Odiare non è uno sport prevede una serie di attività per i coinvolgere i giovani nel ruolo di “antenne” che dovranno intercettare i discorsi d’odio online e interromperli, diventando dei veri e propri attivisti anti hate speech. Un’esperienza simile a quella che due anni fa venne proposta e sperimentata in un Liceo umbro grazie all’intervento di Forma.Azione, uno dei partner del progetto. A raccontarla è Lorenzo, tra i protagonisti di quel percorso.
di Ilaria Leccardi
Mi chiamo Lorenzo Bartolucci e sono uno studente di Filosofia e Scienze e Tecniche psicologiche all’Università di Perugia. Due anni fa, con il mio Liceo classico, il Sesto Properzio di Assisi, ho partecipato al progetto “Cliccando positivo”, giunto nella nostra scuola grazie all’insegnante di Scienze motorie, la professoressa Paola Pagliacci. Assieme agli altri ragazzi della quarta, sono stato formato sul tema del cyberbullismo per poi lavorare con i ragazzi delle classi inferiori alla nostra attraverso un insegnamento peer to peer.
Cosa prevedeva il progetto?
Inizialmente una parte di formazione e autoconsapevolezza, da sviluppare attraverso esercizi di vario genere, anche in forma ludica. Poi veniva la parte più riflessiva e introspettiva, in cui ognuno analizzava i propri comportamenti e i comportamenti altrui. Ciascuno era chiamato a fornire la propria idea di “insulto” e a comunicare agli altri come si era sentito ricevendo un certo tipo di insulto. Abbiamo affrontato il tema del bullismo esercitato di persona, ma soprattutto quello del cyberbullismo: insulti immateriali che risuonano come un’eco, che finisce per rimbombare nelle orecchie di chi è preso di mira.
Com’è stata l’esperienza con i ragazzi più giovani?
Ci siamo divisi in due gruppi, ciascuno dei quali si è occupato di due classi, sviluppando un proprio metodo di intervento, portando degli esempi, anche iconici per far comprendere concetti complessi. Come l’esempio della mela: si taglia in due e una delle due parti viene ammaccata e lasciata annerire internamente; quando la si ricompone sembra integra e bella, o comunque alla classe viene mostrato solo il lato buono. A quel punto si chiede di scrivere o pronunciare una serie di insulti che verranno simbolicamente “assorbiti” dalla mela. All’esterno la mela rimane bella ma internamente la mela è compromessa. E solo alla fine si mostrerà l’interno marcito.
Siete diventati dei veri e propri formatori e questo cos’ha significato nella vita quotidiana all’interno della scuola?
Siamo diventati registi attivi di un processo, per cui ogni volta che si fosse verificato un momento di violenza verbale o fisico o un accenno di bullismo era nostro compito intervenire.
E nei ragazzi più giovani hai notato sensibilità al tema?
Non è sempre semplice. La presa di coscienza in percorsi come questi è molto soggettiva.
Nel mio ruolo ho cercato di osservare, oltre alle parole dei ragazzi, anche le loro reazioni spontanee. I più prepotenti tendevano a fare ironia sull’argomento o addirittura c’era chi cercava di giustificare un certo tipo di azioni, considerando ciò che avevano fatto o detto non particolarmente grave. I ragazzi più sensibili e sottomessi, invece, tendevano alla chiusura, alla timidezza.
Il lavoro da fare è ancora molto lungo.
Diventa un Attivista anti hate speech nel mondo sportivo contattando uno dei seguenti enti (anche se non sei di una delle regioni nominate puoi comunque collaborare a distanza):
Rispondere ai discorsi d’odio online, per combattere il fenomeno direttamente tra le maglie dei social. In quella mole di commenti, parole, spesso insulti, servono gli strumenti giusti per bloccare un flusso che tante volte si trasforma in escalation d’odio. Fin dal suo esordio come progetto, Odiare non è uno sport ha messo in campo diversi strumenti per comprendere, analizzare e combattere l’hate speech online in ambito sportivo. Tra questi due strumenti particolarmente efficaci per rispondere puntualmente ai commenti d’odio che proliferano sui social media. Da una parte l’elaborazione di un albero delle risposte studiato per intervenire sui social in forma automatica tramite un chatbot, dall’altra la formazione di un certo numero di ragazzi che agiranno da “antenne” dell’odio online, andando a intercettare eventuali situazioni spiacevoli che si generano sui social e rispondendo con messaggi per “allentare” o “interrompere” il flusso negativo di commenti.
La prima fase dello studio, spiega la psicologa, «ha previsto una selezione di commenti effettuata attraverso un “software sonda” che ha estratto da un gruppo di tweet e commenti molto ampio, un sottogruppo potenzialmente problematico. Commenti che sono stati poi analizzati da due giudici indipendenti che hanno selezionato quelli considerati offensivi. E a ogni commento selezionato è stata accoppiata una risposta, dando così vita a un set di coppie commento-risposta utile come “modello” per il software che “impara” così a riconoscere commenti simili a quelli del nostro set, fornendo la risposta che è stata accoppiata al commento più simile».
L’obiettivo dell’intervento da parte del laboratorio dell’Università di Trieste è stato creare una serie di risposte che potessero essere fornite in maniera automatica, senza la mediazione umana. «Non potendo stabilire una comunicazione diretta con l’interlocutore, le frasi di risposta sono state costruite in forma impersonale (per es. “è comprensibile che…”)». Alcune di queste risposte, prosegue Stragà, possono essere valide per commenti differenti, ma bisogna tenere in considerazione che il risponditore automatico non può essere addestrato a rispondere in maniera argomentata a episodi specifici
Le risposte formulate dal software hanno come primo obiettivo non tanto mettere in atto una vera e propria contro-narrazione, come potrebbe fare un utente reale, ma attenuare i toni e sottolineare l’offensività del messaggio.
Tuttavia la componente “umana” è stata fondamentale nell’elaborazione delle risposte automatiche. Prima di tutto, tenendo sempre a mente che, «anche se nascosti dietro a una tastiera, quello che diciamo e come lo diciamo ha delle conseguenze reali» e quindi l’intervento, benché preconfezionato, può aiutare a creare consapevolezza e coscienza in merito al peso delle parole utilizzate sul web. E poi ricordandosi che quando si scrive sul web, anche sotto questa formula, «non ci rivolgiamo solo all’autore del commento in sé, il quale magari non cambierà idea grazie al nostro commento, ma a tutto il pubblico che si imbatte nel commento e che sarà portato a riflettere su queste modalità di espressione grazie all’intervento del risponditore automatico».
Anche se un risponditore automatico non è una persona, spiega ancora Stragà, «studi in psicologia relativi all’interazione uomo-macchina hanno mostrato che c’è una tendenza a percepire come umani, per esempio, anche gli assistenti vocali che in certi casi vengono considerati in maniera simile a un essere umano».
Ad oggi è ancora scarsa la letteratura, psicologica e non, sull’efficacia delle strategie di contrasto d’odio online, ma il team che si è occupato di questa delicata parte del progetto ha fatto riferimento principalmente agli studi disponibili sulle tecniche in risposta ai commenti d’odio e la letteratura psicologica relativa a come l’essere umano percepisce e interagisce con gli altri. «Per esempio – sottolinea ancora la psicologa dell’Università di Trieste – si è visto che cercare di prendere in carico la prospettiva dell’altro in una discussione, facendogli capire che lo abbiamo ascoltato e abbiamo capito qual è il suo punto di vista, può facilitare il tentativo di trovare dei punti in comune» e così può essere fatto nel rispondere a un commento d’odio. Un’altra strategia può essere quella di rispondere al commento d’odio fornendo informazioni e dati di fatto in contrasto con quando espresso dall’interlocutore, ma al tempo stesso cercare di fornirgli una vita di fuga per attenuare la situazione e condurlo a considerare informazioni in contrasto con il suo punto di vista iniziale. «Nel laboratorio di Memoria e Decisione dell’Università di Trieste stiamo testando l’efficacia di queste due tecniche di risposta, con risultati incoraggianti».
Come potranno lavorare invece le antenne? Quei ragazzi che, in collaborazione con le ong coinvolte nel progetto Odiare non è uno sport, verranno formati per intercettare e rispondere direttamente e singolarmente ai commenti d’odio? «Il lavoro sulle risposte elaborate per il risponditore automatico – continua Stragà – può essere adattato e impiegato anche per la produzione di risposte “manuali”, soprattutto quando il commento d’odio non offre grandi spunti per argomentazioni approfondite. Tuttavia, quando si risponde di persona, è possibile entrare nel merito delle argomentazioni e delle false credenze, portare evidenze e dati che confutano quello che l’interlocutore sta dicendo, sottolineare le incoerenze e i sottintesi del messaggio. Per questo ai ragazzi verranno fornite delle linee guida sul linguaggio e il tono da adottare, su come reagire nella maniera più pacata ed efficace possibile per evitare il peggiorare della situazione, e su come sia possibile adottare delle piccole accortezze per far smorzare i toni e aumentare la probabilità che le contro-argomentazioni siano ascoltate e considerate».
Soprattutto, è importante ricordarsi – conclude Stragà – che il contrasto all’odio on-line passa anche attraverso la sincera adesione a una modalità di comunicazione non-violenta e rispettosa dell’altro, ma allo stesso tempo ferma e solidamente basata sull’evidenza. Una modalità di comunicazione che dovrebbe quindi rappresentare un esempio positivo, che altri possono voler adottare, stanchi delle parole d’odio, della stereotipizzazione dell’altro, del pregiudizio e della riduzione del pensiero a slogan».
In questo senso ci viene in aiuto un’esperienza passata, che può diventare da modello ed esempio per chi vorrà intraprendere la strada di “attivista” del contrasto all’odio online. Ed è la storia di Lorenzo, studente universitario che nell’anno scolastico 2018-2019 ha partecipato con il Liceo Sesto Properzio di Assisi al progetto “Cliccando positivo”, grazie all’intervento di Forma.Azione, tra i partner del progetto Odiare non è uno sport. LEGGI LA STORIA DI LORENZO
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