Vittoria Di Dato: la marcia e la felicità della fatica

La marcia è uno sport di grande tecnica. Uno sport che richiede tenuta mentale, allineamento tra l’obiettivo e la capacità di sostenere la fatica, metro dopo metro, con l’asfalto o il tartan che scorrono sotto i piedi. Vittoria Di Dato ha vent’anni compiuti da poco, ha abbracciato l’atletica che era una bambina e ha conosciuto la marcia dopo alcuni anni, nel 2017. Da allora, non solo non l’ha più abbandonata, ma ha scalato metro dopo metro le classifiche e i sogni, fino a divenire una delle giovani promesse azzurre che guardano al futuro.

di Ilaria Leccardi

Vittoria, come inizia la tua storia con la marcia?

Ho cominciato a praticare l’atletica in quarta elementare, undici anni fa. Inizialmente mi sono dedicata alla corsa ma poi, passata alla categoria cadetti, seguendo l’esempio di una ragazza che si allenava con me e marciava, ho provato anche io questa disciplina. Mi è subito piaciuta ed evidentemente ero portata. Dopo aver esordito con la marcia nella Polisportiva Colverde, mi sono spostata a Cantù, dove mi sono allenata per tanti anni con Vittorio Zeni, uno dei maestri della marcia azzurra, che aveva già cresciuto importanti talenti e che purtroppo è mancato lo scorso anno.

Un grande dolore per una figura che segnato positivamente il tuo percorso, proiettandoti nella marcia di altissimo livello.  

Sicuramente sì. Tant’è che dopo la sua scomparsa ho iniziato a essere seguita direttamente da Alessandro Gandellini, ex marciatore, azzurro alle Olimpiadi di Sydney e Atene, e attuale responsabile tecnico del settore marcia della Federazione italiana di atletica.

Sei già stata due volte campionessa italiana outdoor nella 10 km, nella categoria allieve (nel 2020) e junior (nel 2021). Quali sono state invece le tue prime esperienze internazionali in azzurro?

Agli Europei di Tallin nel luglio 2021 ho vestito per la prima volta la maglia della nazionale per la gara dei 10 km di marcia. Ero nel mio primo anno nella categoria Under20, la gara non è andata come speravo, ma l’emozione è stata enorme, anche perché mi confrontavo con atlete di tutta Europa e sentivo finalmente di essere entrata nel vivo della disciplina. Nel 2022 ho disputato la Coppa del Mondo a Muscat, in Oman, arrivando decima su strada nella 10 km, e i Campionati Mondiali Under20 a Cali, in Colombia. Infine, quest’anno, con il passaggio alla categoria Under23, ho disputato gli Europei in Finlandia, dove ho chiuso undicesima, ma gareggiando assieme a ragazze del 2002 e 2001. Ho fatto segnare il mio secondo tempo e lo ritengo un grande risultato.   

La marcia è uno sport molto duro, sia dal punto di vista fisico che mentale. Come ti alleni e qual è l’equilibrio tra l’attività di alto livello e il resto della tua vita?

Ho finito il primo anno di Università, alla Cattolica di Milano, in Lingue, comunicazione, media e culture digitali. All’inizio è stato difficile trovare una routine giusta. Tra il cambiamento di allenatore e l’inizio dell’università, il mese di settembre 2022 è stato un momento delicato. Ma ora ho trovato un buon ritmo. Continuo a vivere nel paesino di Oltrona, studio a Milano e mi alleno a Sesto San Giovanni, seguita da Alessandro. I ritmi della marcia sono duri: mi alleno sei giorni a settimana, spesso anche con due sessioni al giorno, mattina e sera.

Un tuo allenamento tipo?

Gli allenamenti sono vari e differenziati. Ci sono periodi in cui principalmente marciamo, 15 km in settimana e 20 o 25 km il sabato. Durante l’inverno invece facciamo più potenziamento, anche in palestra, con esercizi a corpo libero e circuiti per alzare i battiti cardiaci. Poi ci sono i giorni in cui ci dedichiamo alle ripetute: riscaldamento, 5 km di marcia e poi ripetute su 500 o 1000 metri.

Sempre con il tuo allenatore?

Lui mi segue sempre, talvolta in presenza altre a distanza. Quando esco a marciare al mattino generalmente sono sola, al pomeriggio invece sono spesso i miei genitori a seguirmi in bicicletta. Se i risultati arrivano, sono frutto di tutti.

L’Italia è un paese della grande storia nell’atletica, in particolar modo nella marcia. C’è qualche figura a cui ti ispiri in modo particolare?

Sicuramente Antonella Palmisano, oro Olimpico a Tokyo nel 2021 nella 20 km. La seguo da sempre e poi l’ho conosciuta di persona e ho avuto l’opportunità di allenarmi con lei lo scorso aprile a Ostia, durante un raduno. È una persona molto umile, alla mano, ma al tempo stesso molto determinata. Dopo Tokyo è stata ferma un anno, senza gareggiare, per un infortunio, ma poi è riuscita a tornare e quest’anno ha conquistato il bronzo ai Mondiali di Budapest. Un esempio per tutte noi. Io non mai dovuto affrontare grandi delusioni, ma nel 2018 sono stata ferma diversi mesi per un edema osseo alla testa iliaca dell’anca. È stato un periodo difficile, immagino dunque cosa voglia dire per una campionessa olimpica non potersi esprimere in gara e affrontare il dolore come ha fatto Antonella. Ma tra i miei punti di riferimento c’è anche Valentina Trapletti, che ha disputato gli ultimi Mondiali e sarà ai Giochi di Parigi 2024, ci alleniamo insieme e la reputo un esempio sportivo.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi sportivi e cosa ti aspetti dal futuro?

Nel 2024 per me l’appuntamento più importante saranno i Giochi del Mediterraneo. Inoltre, vorrei lavorare per migliorare i miei tempi, sia nella 10 km sia nella 20 km. Ovviamente è anche l’anno olimpico, ma io a Parigi non ci sarò. Tuttavia, ho l’opportunità di confrontarmi in allenamento con azzurri di spicco, come la stessa Valentina, ma anche Sara Vitiello, Riccardo Orsoni e Stefano Chiesa… Insomma, ormai mi sento nella scia della marcia che conta e se devo guardare in là posso sperare solo di crescere e di arrivare al meglio nel prossimo quadriennio.

Il nostro progetto, Odiare non è uno sport, mira a contrastare le forme di hate speech online in ambito sportivo, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Tu che rapporto hai con i social media?

Un rapporto positivo e certo non di dipendenza. Uso Whatsapp e Instagram e non sono mai incappata in esperienze negative nel loro utilizzo. Pubblico i risultati delle mie gare, ricevo sempre e solo complimenti. Ma sono consapevole che sui social possono innescarsi dinamiche negative, soprattutto a danno dei più giovani, e bisogna stare attenti.

Qual è il principale insegnamento della marcia e perché la consiglieresti come sport a una giovane o un giovane?

La marcia è uno sport capace di insegnare molto. Sicuramente lo fa dal punto di vista educativo, perché devi essere una persona umile, letteralmente e simbolicamente con i piedi per terra. Ma anche perché ti insegna a resistere alla fatica e questo, sembra strano, può dare felicità.

Nella maggior parte dei casi dopo un allenamento, che vi assicuro è sempre faticoso, sono felice. Perché sento che mi sono migliorata, in una sfida costante, non tanto con gli altri – perché questo arriva poi nel momento della gara – ma con me stessa. Mi aiuta a conoscermi e ad andare oltre ai miei limiti.

Maria Magatti, con il rugby non ti puoi nascondere

“Il rugby è il mio elemento. È quello sport che ti permette di esprimere la parte più autentica di te, la tua vera essenza. Una volta che sei in campo e stai giocando, non ti puoi nascondere, combatti su tutti i palloni, sei davanti alla realtà e stai letteralmente dentro la fatica”. Maria Magatti è stata per anni una delle colonne della Nazionale azzurra femminile di rugby, dove conta oltre 50 presenze, e di recente è diventata la seconda italiana convocata nella squadra internazionale delle Barbarians che riunisce giocatrici provenienti da tutto il mondo, una sorta di Hall of Fame del rugby mondiale.

Ma la sua storia con la palla ovale nasce quasi per caso, grazie a un illuminato insegnante delle scuole superiori che colse nella giovane ragazza lombarda il talento che avrebbe potuto sbocciare.

di Ilaria Leccardi

Maria, ci racconti come e quando sei arrivata a giocare a rugby?

Il mio percorso è iniziato in maniera quasi casuale, anche perché quando ho iniziato, a Como, la mia città, il rugby non era uno sport conosciuto o praticato a livello femminile. Da ragazzina giocavo a basket, ma poi non sono cresciuta tanto di statura come le altre ragazze e, quando iniziai il Liceo Classico, il mio professore di motoria mi propose di provare il rugby, per partecipare ai giochi sportivi studenteschi che si sarebbero tenuti a Jesolo, al mare, per un paio di giorni. Fui attirata da questa proposta, quasi più per la trasferta… Ma una volta provato il primo allenamento mi sono sentita subito a mio agio, mi sono appassionata. E dopo due anni di progetto scolastico abbiamo fondato la prima squadra femminile della città.

E da questo sport non ti sei più staccata. Come è proseguita la tua carriera?

Dopo due anni a Como, sono andata a giocare nella squadra di Monza, in Serie A. Inizialmente era complicato dal punto di vista logistico, non avevo ancora la patente, dovevo andare a Monza in treno e poi passavano a recuperarmi i miei genitori o mio fratello. Ma nulla era un peso per me. Nel 2014 abbiamo vinto lo scudetto, l’unico della storia della squadra. Dopo alcuni anni ho iniziato a sentire la necessità di nuovi stimoli e nel 2018 mi sono trasferita a giocare al CUS Milano. Ora vivo e gioco a Treviso.

La tua storia sportiva si è giocata nei club ma anche molto nella Nazionale. Quando sei arrivata a vestire la maglia azzurra?

In realtà la prima convocazione è arrivata quando ancora non avevo una squadra, nella Nazionale Under 16. All’epoca avevo svolto solo attività scolastiche, giocando le finali nazionali studentesche a Roma. Lì erano presenti dei rappresentanti della Federazione, mi hanno notata e mi hanno convocata. Ero entrata nel rugby che contava.

E in quel rugby hai scritto pagine di storia per l’Italia, tra la partecipazione a varie edizioni del Sei Nazioni con alcune indimenticabili mete e dei Mondiali, l’ultima delle quali nel 2022 in Nuova Zelanda. 

Sì, con la maglia azzurra è stata una bellissima storia. Ora, dopo i Mondiali in Nuova Zelanda ho deciso di ritirarmi dalla Nazionale, dando priorità al lavoro. Sono insegnante di motoria ed è molto complesso conciliare gli impegni. Ho scelto di dedicarmi solo più al seven, il rugby a sette, fino a quando la scorsa estate sono incappata in un brutto infortunio, mi sono rotta la rotula. Tuttavia, ad agosto mi è arrivata una telefonata inaspettata e incredibile: mi invitavano a una tournee con la squadra delle Barbarians, per giocare due partite, in Sud Africa e in Irlanda. Arrivare nel team Barbarians è un sogno per tutte le giocatrici e i giocatori di livello internazionale. In Italia prima di me (e di Sara Barattin convocata insieme a Maria, ndr) era successo solo a una giocatrice. È una squadra che non ha luogo, ha solo uno staff dirigenziale, convoca allenatore e giocatrici da tutto il mondo e consacra il riconoscimento di una carriera importante nel nostro sport. Ricevere quella telefonata mi ha provocato un mix di panico ed emozione. Zoppicavo ancora dopo l’infortunio, avevo appena cambiato scuola e città, essendomi trasferita a Treviso quest’estate… Ma ho parlato con la dirigente, che ha capito benissimo la situazione, e ha accettato che prendessi qualche giorno di permesso per partecipare alla trasferta.

E che esperienza è stata?

Fantastica, difficile da descrivere. Dal punto di vista sportivo, ho giocato entrambe le partite in programma: la prima contro il Sud Africa allo stadio di Twickenham, la seconda contro il Munster in Irlanda. Le abbiamo vinte tutte e due e in entrambe ho segnato una meta, quindi non posso che essere felice. Ma soprattutto è stata una grande esperienza dal punto di vista umano. Con tutte le ragazze della squadra, alcune delle quali già le conoscevo altre no, si è creato immediatamente un legame speciale in pochissimo tempo. Inoltre posso dire che mi sono divertita tantissimo. Rispetto alle normali partite che ero abituata a giocare, con il club o in Nazionale, non ho sentito pressioni, ho potuto godermi il gioco, stare al cento per cento dentro lo spirito del rugby.

Come hai vissuto da ragazza la tua storia nel rugby? Hai mai subito forme di discriminazione o sguardi perplessi per la tua scelta sportiva?

Discriminazioni no, però ho avvertito spesso un’ignoranza diffusa, principalmente da parte di alcuni “anziani” del nostro sport che ancora denigrano il rugby femminile. Spesso, durante competizioni come il Sei Nazioni che mettono la nostra Nazionale un po’ più in vista, io e le mie compagne andavamo a leggere i commenti sui social e trovavamo chi scriveva che il rugby non è uno sport da femmine, che le femmine devono andare a chiudersi in cucina. C’è una parte del mondo del rugby che non ha mai visto di buon occhio il nostro sport al femminile. Ma penso sia più che altro una questione di ignoranza.

Oggi tu sei insegnante di scienze motorie. Guardando al passato, la tua storia nel rugby è nata proprio grazie a un insegnante che ti ha indirizzata sulla giusta strada sportiva. Come vivi oggi il tuo ruolo?

La mia esperienza è stata così importante e determinante per la mia vita che avevo voglia di restituire anche io qualcosa in quella direzione, a favore dei giovani.

Dell’insegnamento mi piace la parte relazionale, soprattutto con i ragazzi un po’ più grandi. Cerco di essere un sostegno, uno spunto di riflessione per loro, mi piace molto il dialogo, a partire dallo sport. Vorrei far capire loro che lavorare e dedicarsi anche con fatica a uno sport è importante, che quelle di motoria sono ore in cui si fa però anche qualcosa di bello e divertente. 

E il tuo rapporto con i social?

Ho Facebook e Instagram, ma non sono una grande fruitrice di social. Ho ancora un’impostazione da boomer. Preferisco così, condivido alcune delle mie esperienze sportive, ma non amo mettere in scena la mia vita quotidianamente online. Penso che se ne possa fare a meno.  

Emanuele Lambertini. Il ragazzo nato due volte

Nascere due volte. Ripartire da un’amputazione per tornare a sorridere alla vita, dopo un dolore continuo, capace di rovinare l’infanzia. A 24 anni Emanuele Lambertini è una delle punte della squadra azzurra di scherma paralimpica, impegnato in due delle armi previste dalla disciplina, fioretto e spada, oro Mondiale nel fioretto a squadre, campione mondiale Under23 e plurimedagliato in coppa del Mondo, nonché testimonial della Onlus Art4Sport, fondata dai genitori della campionessa Bebe Vio. Ma le sue vite sono mille, schermidore, futuro ingegnere, musicista e compositore per passione. Ora guarda a Parigi 2024 con la speranza di grandi risultati e noi lo abbiamo intervistato per scoprire la sua storia e il valore dello sport nella sua vita.

di Ilaria Leccardi

Emanuele, fai parte della squadra paralimpica di scherma azzurra, in quanto amputato alla gamba destra. La tua non è la storia di un incidente, ma di una malattia che ti ha fin da subito insegnato a confrontarti con il dolore. Ci racconti la tua esperienza?

Sono nato con rarissima malformazione vascolare alla gamba destra. Inizialmente i medici pensavano che le macchie rosse sulla pelle fossero delle semplici “voglie”. Ma quando ho compiuto un anno, quelle macchie iniziarono a ingrandirsi, ne spuntarono altre, e con loro anche ulcere e abrasioni molto dolorose. Iniziai un’odissea per cercare una cura, tra Italia, Stati Uniti e Francia. Nessuno riusciva a trovare la terapia giusta e, anzi, tante delle strade percorse erano sbagliate. Fui addirittura sottoposto a quattro cicli di chemioterapia. In Francia trovai l’ospedale specializzato in cui meglio riuscivano a seguirmi. Per tre lunghi anni ho vissuto tra la mia casa e Parigi. Fu molto difficile per me, per i miei genitori, le mie sorelle. Quella gamba, sempre gonfia, a rischio emorragie, mi stava divorando il futuro, non potevo giocare, correre, non potevo farmi la doccia in serenità. Fino a quando, nel 2007, i medici francesi mi presero da parte e mi spiegarono che la soluzione migliore era l’amputazione dell’arto e che quello era il momento migliore per procedere, visto che il mio fisico si era stabilizzato. La mia reazione fu positiva, dissi: “So com’è la vita con questa gamba, ed è terribile, voglio provare a vedere com’è senza”. Avevo otto anni.  

Com’è ricominciata la vita “senza”?

Venni amputato a Parigi e la mia vita prese una svolta colossale. Certo, il mio fisico si doveva abituare, ho affrontato alcuni mesi di riabilitazione non semplici, ma poi iniziai una vita completamente nuova, con una naturalezza che non potevo neanche immaginare. Mi sono avvicinato allo sport proprio grazie alla riabilitazione, iniziai a praticare il nuoto.

E alla scherma come sei arrivato?

Dopo un anno e mezzo di nuoto, il mio istruttore ha dovuto lasciare la piscina e io non avevo più nessuno che potesse rispondere alle mie esigenze. A Bologna mi rivolsi allo sportello del Comitato Italiano Paralimpico che indirizza giovani con disabilità ai vari centri sportivi. Qui i miei genitori vennero messi in contatto con Gianni Scotti, allora presidente regionale del Comitato Paralimpico Italiano, che propose loro di indirizzarmi alla scherma. Non sapevo nulla di questo sport, ma volevo provare. Entrai alla Zinella Scherma di San Lazzaro di Savena dove iniziai a lavorare con Magda Melandri, maestra che mi segue ancora oggi.

Negli ultimi anni la scherma paralimpica ha fatto grandi passi in termini di seguito e visibilità, anche grazie a una campionessa come Bebe Vio. Percepisci anche tu questa maggiore attenzione?

Sì, la scherma paralimpica è entrata a far parte della Federazione Scherma e questo le ha dato ulteriore visibilità. Stiamo raggiungendo importanti risultati a livello internazionale e poche settimane fa sono stato uno dei 13 componenti della squadra paralimpica (tra cui 4 schermidori, NdR) a prestare giuramento nella Polizia di Stato, un passo molto importante per tutto il movimento.

Tu hai partecipato a due Paralimpiadi, Rio 2016 e Tokyo 2020 (svolta in realtà nel 2021 a causa della pandemia da Covid). Che esperienze sono state?

Un’emozione indescrivibile, soprattutto Rio. Ho scoperto di essere qualificato nel mese di giugno, poco prima dell’inizio dei Giochi, mentre gli altri componenti della spedizione lo sapevano già da alcuni mesi. Poco prima avevamo disputato gli europei individuali e squadre, dove arrivammo secondi per poco. Ma una verifica fece emergere che il punteggio non era corretto e fummo ripescati. Cancellai gli impegni dell’estate e partii con la squadra, ero il più giovane di tutta la spedizione azzurra, con i miei 17 anni. Questo mi ha permesso di vivere l’esperienza sia con gli occhi di un adolescente, sia con occhi più adulti, per la responsabilità di vestire la maglia azzurra. Mio padre, dopo aver visto la cerimonia di apertura in televisione, non è riuscito a rimanere a casa come previsto ed è partito per Rio per venire a seguirmi dal vivo. A Tokyo è stato altrettanto bello, anche se la vita al villaggio olimpico è stata un po’ smorzata a causa del Covid. Se a Rio non avevo pretese di medaglie, a Tokyo invece ci speravo, mi ero allenato tantissimo, ma nell’individuale ho perso di un pelo, sia nella spada che nel fioretto. Ci penso ogni singolo giorno… Ora guardo con grande attesa a Parigi 2024.

La tua vita però non si ferma allo sport…

Porto avanti altre due grandi passioni. La musica, suono il pianoforte ormai da tempo, dopo aver iniziato seguendo l’esempio delle mie sorelle maggiori, e compongo brani originali che spesso diffondo e condivido sui social. E poi lo studio: sto frequentando Ingegneria dell’automazione a Bologna e il mio sogno per il futuro è aiutare altre persone che come me hanno necessità di utilizzare una protesi, uno degli sbocchi possibili del mio percorso universitario. Mi rendo conto che ogni materia che studio e ogni esame che do mi permettono di aggiungere un tassello alla mia strada in questa direzione.  

Sui tuoi profili, Instagram in particolare, racconti molto di te. Che rapporto hai con i social?

Li ritengo un importante mezzo di comunicazione, tramite cui sto cercando di divulgare la mia storia, il mio rapporto con la gamba amputata e la protesi, con le sofferenze dell’Emanuele bambino che comunque riusciva a sorridere, per cercare di raccontare come vivo la mia vita: alla leggera, ma non con leggerezza. E quindi metto nella narrazione anche un po’ di ironia.

Non ho problemi a porre me stesso, per come sono, davanti al mondo che mi circonda. E questo cerco di metterlo in pratica anche quando incontro i ragazzi delle scuole o con le aziende durante gli incontri a cui partecipo.

Hai mai vissuto episodi negative a causa dei social?

La maggior parte sono situazioni molto belle: tante persone mi scrivono per dirmi che le ho aiutate, come esempio e stimolo, spesso sono famiglie e ragazzi che stanno vivendo percorsi simili al mio. Solo in un caso anni fa sono incappato in un episodio molto spiacevole, a causa di un mio errore di ingenuità. Dopo una medaglia in Coppa del mondo a Tokyo pubblicai una fotografia in cui sorridevo e mimavo gli occhi a mandorla, non sapendo che il gesto era mal visto e ritenuto offensivo dalle persone asiatiche. Errore mio. Nel giro di poche ore sono stato sommerso da insulti e minacce molto pesanti provenienti un po’ da tutto il mondo. È stato un momento difficile e mi ha fatto capire prima di tutto che bisogna essere sempre consapevoli di quello che si fa, e io in quel caso ero stato davvero ingenuo e me ne scuso, lo feci anche pubblicamente, ma anche che i social possono essere un motore di odio molto forte, di messaggi che rimbalzano e si amplificano, spesso senza lasciare spazio al confronto o alla spiegazione.

Però sei anche quello che celebra il 25 aprile davanti ai memoriali dei partigiani e che non si risparmia quando si tratta di portare aiuti in prima persona, come nel caso delle recenti alluvioni in Emilia Romagna…

Diciamo che sono una persona molto eclettica e tutto quello che faccio lo inserisco nel mio percorso di vita come una crescita individuale e collettiva. Per questo, anche forte della mia esperienza da scout vissuta da ragazzino, appena finita una serie di gare a giugno ho deciso che sarei partito per fare la mia parte e aiutare famiglie e persone le cui case erano state sommerse dal fango. Mi sono organizzato, informandomi nei centri di dislocamento volontari, e sono partito più volte, o con persone del mio paese o da solo. È stata un’esperienza indescrivibile. Sono convinto che davanti alle difficoltà ciascuno debba dare il proprio contributo.  

Emanuele Lambertini, foto Marco Mantovani

Quello che ti aspetta è un autunno impegnativo. A breve sarai protagonista di nuovi appuntamenti di avvicinamento a Parigi 2024, ma cosa rappresenta per te lo sport nella quotidianità?

Per me lo sport è importante perché sa insegnare che cos’è la sofferenza. Detta così può sembrare strana come affermazione, ma la dice un ragazzo che fin da bambino ha dovuto confrontarsi con il dolore. Ora, da atleta, so che l’unico modo per crescere davvero è allenarmi fino a quando i muscoli mi fanno male per la fatica, spostare i miei limiti di volta in volta un po’ più in là. Gli obiettivi li raggiungi solo se sei disposto ad accettare e sopportare quel dolore e quella fatica. Se devo poi dire qualcosa in particolare della scherma… è una disciplina sportiva che ti dà delle scariche di adrenalina uniche: duelli con un avversario che spesso non conosci, devi avere un grande controllo su di te, è tecnica e strategia. In pedana ci vai da solo, ma per fortuna sai che dietro ha un grande team che ti sostiene e questo per me è fondamentale. 

Francesca D’Alonzo: dalla danza al sogno dei motori

Stringere forte le mani su un manubrio. Percorrere i primi metri nei campi, senza confini. Provare paura, ma al tempo stesso rendersi conto che si sta scrivendo il proprio futuro. Fino a pensare: “Io da qui non scendo più”. Nell’estate 2020, in pochi attimi vissuti tra l’adrenalina e l’immaginazione, Francesca D’Alonzo si innamorò della moto e decise che sarebbe stata la sua compagna di avventure in giro per il mondo. Lei, che era una ballerina e una moto non l’aveva mai guidata. Lei che oggi, proprio attraverso la moto e ai suoi seguitissimi canali social (con il nome di The Velvet Snake), porta avanti messaggi di autodeterminazione ed empowerment per le donne, sfidando stereotipi e falsi miti.

di Ilaria Leccardi

Canali social seguitissimi, in particolare Instagram e YouTube, una moto da 200 kg con cui hai attraversato il mondo, ma un passato – soprattutto sportivo – che racconta altro. Francesca, chi eri prima di diventare The Velvet Snake?

Sono stata per tanti anni una ballerina. Ho iniziato a cinque anni, la danza è stata una passione travolgente, con cui sono cresciuta, che mi ha insegnato la disciplina, il rispetto delle regole, l’armonia, l’educazione alla musica, il movimento nello spazio. Con me, grazie alla danza – prima classica, poi moderna e contemporanea – è cresciuto il mio corpo, sul mio luogo di elezione che era il palcoscenico. Per anni ho tenuto esibizioni, ho calcato teatri, ho vinto un concorso nazionale di danza dedicato alle studentesse di tutte le scuole superiori di Italia.

E poi cosa è successo?

A 19 anni, dovevo capire cosa fare concretamente del mio futuro. Io avrei voluto portare avanti la carriera, mentre i miei genitori volevano che mi laureassi. Tentai allora di entrare all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, una possibilità che mi avrebbe permesso di portare avanti danza e studio. Partecipai alle audizioni ma per soli due posti non fui ammessa. Mi iscrissi allora a Giurisprudenza per studiare da avvocata, ma non furono anni semplici. Avevo vissuto un grande smacco, avevo visto il mio sogno – anche professionale – dissolversi, ebbi un periodo di forte depressione. Per completare gli ultimi due anni della laurea quinquennale da Udine mi trasferii a Bologna e lì la mia vita cambiò, con nuove conoscenze, una nuova apertura. Nel frattempo, scalpitavo, non riuscivo a stare ferma. Presi uno zaino e viaggiai tre mesi nel Sudest asiatico. Con un’amica ideai poi un progetto contro i pregiudizi nei confronti degli stranieri, viaggiando in autostop per tutta l’Europa, fino alla Svezia. Quindici giorni bellissimi, in cui la parte più difficile fu quella iniziale affrontata in Italia, perché sentivo forti i pregiudizi della gente nei confronti di due donne che viaggiavano sole. 

Fino all’incontro con la moto. Com’è avvenuto? E cosa è scattato dentro di te?

Finito il periodo peggiore del Covid, il mio compagno Amedeo Lovisoni, che è uno storico ed era un viaggiatore in moto ancora prima di conoscermi, mi fece provare una vecchia moto. Forse si era stufato di portarmi dietro in sella… Sono salita, ho stretto il manubrio fortissimo, perché avevo paura. Iniziai ad andare, in prima, nei campi, e lì ho capito che non sarei più scesa. È stato il punto di svolta della mia vita. Il motore sotto di me e l’asfalto che correva sotto ai miei piedi… Furono un’emozione fortissima, in cui ho visto più di quello che c’era effettivamente in quel momento: una vecchia moto che andava a malapena avanti e soprattutto una donna – la sottoscritta – che non la sapeva minimamente guidare… Dopo qualche mese io e Amedeo siamo ripartiti, ancora con la sua moto, per la Turchia, fino ai confini con la Siria e l’Armenia. E alla fine di quell’estate mi sono detta: io qui voglio tornarci, ma lo voglio fare con una moto mia.

Francesca d’Alonzo in Iran

In pochissimo tempo hai costruito un percorso che si è trasformato in un sogno professionale. Quali sono state le tappe?

All’epoca non avevo neanche ancora la patente, stavo ancora prendendo lezioni di guida! Ma ero molto decisa. Mi sono documentata, ho letto molto e ho iniziato a chiedermi perché le donne fossero così poco rappresentate in questo settore. Benché ci fossero tante amanti delle moto, sulle riviste, nei giornali e nei siti specializzati, erano molto poco visibili. Allora ho scritto un progetto, che teneva insieme la moto guidata da una donna e i viaggi, e ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi a realizzarlo, trovandolo in Yamaha Motor Italia. Ricordo quando andai a ritirare la moto alla fine del maggio 2021… Peccato che appena una settimana dopo sia caduta e, avendo imparato a guidare ma non ancora a cadere, rimasi incastrata con un piede e fui costretta a rimanere ferma per un po’. I primi tempi è stata dura. Il punto di svolta è stato quando ho iniziato a ridere dei miei errori, imparando dagli stessi. È una lezione che sicuramente ho mutuato dallo sport, dalla mia carriera nella danza. E allora ho cominciato a raccontare il mio percorso di crescita, rivendicando anche il diritto a non essere perfetta. L’ho fatto sui social, dove all’inizio ero un po’ naif, ma poi ho visto quanto questo modo di raccontare piaceva ed era umano.

I tuoi primi viaggi dove ti hanno portata?

Nell’estate 2021 ho compiuto un percorso di 11mila chilometri dall’Italia alla Georgia andata e ritorno. L’anno seguente ho affrontato il mio primo rally, la Gibraltar Race 2022, due settimane tra Riga e Praga, un percorso ad anello di dodici tappe. Poche settimane dopo sono partita per un lunghissimo viaggio con Amedeo dal Friuli fino in India, per un totale di 17mila chilometri. Quest’anno invece sono stata per la prima volta in moto in Africa, ancora grazie alla Gibraltar Race, per un difficile rally in Marocco. Sei giorni durissimi in cui ho vissuto anche un episodio di disidratazione, perché alla mia terza giornata di gara, in mattinata avevo già finito le scorte di due litri e mezzo d’acqua che pensavo mi sarebbero durate per tutto il giorno. Sono ambienti per cui ci vuole una grande preparazione, mentale e fisica.

E dalla danza alla moto la preparazione fisica non è proprio la stessa…

Sì, anche perché la mia moto pesa quattro volte me. Da quest’anno ho iniziato degli allenamenti specifici, anche di pesistica, per costruirmi una buona massa muscolare. La mia base è quella di una danzatrice, quindi un muscolo reattivo ma esile. Ma sto “rimediando”, con grande dedizione, anche per continuare ad affrontare il mondo delle gare in cui mi ha introdotta Yamaha.

Uno degli ultimi video del canale YouTube su cui Francesca D’Alonzo racconta i suoi viaggi

Alternare gare in contesti estremi a viaggi molto lunghi in località remote. Qual è il messaggio che porti con te?

Sicuramente un messaggio di empowerment femminile, contro gli stereotipi di genere e i pregiudizi, di cui il mondo delle moto e dei motori è ancora molto intriso, dando voce alle donne impegnate nel motorsport. E poi trovo molto importante l’incontro con quei luoghi e quelle popolazioni con cui entro in contatto. I viaggi che compio con Amedeo ci portano ad attraversare luoghi poco conosciuti dagli occhi occidentali, aree in cui la religione e la cultura si prestano a facili generalizzazioni. Quello che invece amo, e penso sia importante da fare, è raccontare la complessità, anche per quel che riguarda la condizione della donna.

A meno di un anno di mezzo dall’apertura, il tuo canale YouTube conta oltre 12.000 iscritti e 700mila visualizzazioni. A questi si aggiungono 178mila follower su Instagram e diverse migliaia su Facebook. Cosa sono i social per te? Ti hanno mai creato dei problemi? 

Quando ho scritto per la prima volta a Yamaha avevo un migliaio di follower su Instagram, non di più. Sono stati i miei viaggi a portarmi seguito e a mettermi in contatto con tante persone. Le avventure in Asia, raccontate grazie ai video girati con le nostre fotocamere GoPro, ma soprattutto i rally, che mi hanno resa un personaggio pubblico, capace di affrontare gare difficili, nonostante la mia giovane esperienza. I social sono senza dubbio uno strumento bellissimo, con tante potenzialità. Ma purtroppo – soprattutto in quanto donna – io sono spesso vittima di attacchi gratuiti ad opera di veri e propri haters. L’8 marzo di quest’anno ho deciso di pubblicare su Instagram una carrellata di commenti e attacchi che mi sono stati rivolti, alcuni dei quali molto pesanti. Commenti che mai sarebbero stati indirizzati a un uomo, anche perché il contesto in cui mi muovo è ancora pesantemente intriso di sessismo.

Viva le belle storie / che ci infondono coraggio / ad essere delle combattenti /ogni giorno / e ad essere indulgenti con noi stesse / quando siamo troppo stanche per farlo. / Le moto non conoscono genere / riconoscono solo chi le ama / e chi se ne prende cura. / E allora perché quando una ragazza condivide la propria passione riceve questi commenti?

Dal Canale instagram “The velvet snake” – 8 marzo 2023

Se dovessi guardare indietro, al tuo passato da danzatrice, e al tuo presente, ora che guidi una moto in fuoristrada, quali sono le assonanze, le emozioni che risuonano?

Penso che forse i sogni che non si realizzano continuano a bruciarci dentro per anni, sono destinati a cambiare forma e possano trasformarsi in altro per rimanere vivi. È come se in qualche modo la danza non avessi mai smesso di viverla, anche sulla moto, nello specifico nel fuoristrada, dove i terreni accidentati e i continui ostacoli richiedono una guida sempre molto attiva, una interpretazione. E poi una parte importante la giocano anche i paesi che ho attraversato in moto e che attraverserò ancora, contesti in cui la condizione della donna è molto marginale. Quando passo con la mia moto desto curiosità e stupore, vedo uno sguardo particolare che molto mi ricorda quello che si soffermava sui miei passi in palcoscenico, quando raccontavo storie in movimento. Ricordo ancora quando nel 2021 raggiunsi il teatro di Aspendos, in Turchia, uno dei teatri meglio conservati dell’antichità, magnifico e imponente. Una ciabatta sì e una no, improvvisai un passo di danza, per poi tornare a indossare il casco e riprendere strade nuove e inesplorate. Ogni volta incrocio sguardi nuovi e stupiti, come quelli delle bambine, a cui spero con il mio passaggio di raccontare una favola nuova.

Francesca D’Alonzo improvvisa un passo di danza al teatro di Aspendos, in Turchia

Quindi lo sguardo va soprattutto al futuro?

L’emozione più grande è quando ragazzine e bambine mi incontrano e mi chiedono se possono salire sulla moto. Io le vedo come mi guardano con gli occhi sgranati e mi rendo conto dell’importanza di ciò che sto facendo, sto raccontando una storia diversa, sta offrendo un modello positivo, sto dicendo che sì, è possibile. Anche per loro.  

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Gaia Tortolina

“Quando ho dato vita al mio nuovo team l’obiettivo è stato fin da subito creare una squadra con dei valori. Scegliere le componenti prima come persone che come atlete, insegnare loro che esiste un ciclismo internazionale e che lo possono praticare, dando l’opportunità a tutte di farlo, anche a chi in Italia questa possibilità non l’aveva”. Gaia Tortolina ha solo 23 anni, ma le idee molto chiare. Ci parla dal Belgio, dove vive dal 2018 e dove la cultura del ciclismo offre maggiori opportunità, anche e soprattutto alle donne, che in Italia pagano ancora un notevole divario di trattamento, considerazione e visibilità rispetto ai colleghi maschi. Proprio in Belgio nell’autunno scorso ha fondato il Women Cycling Project, una squadra di ciclismo tutta al femminile. Alle ragazze dice: “Difendete sempre la vostra dignità, non fatevi trattare come macchine”.

Di Ilaria Leccardi

Gaia, partiamo dall’inizio, dal tuo avvicinamento al ciclismo che è avvenuto quando eri piccolissima…

Sono nata in un ambiente sportivo e ho iniziato a praticare sport da piccolissima. Mio papà ha giocato a calcio a livello professionistico, poi dopo la mia nascita si è dato al triathlon, coinvolgendo anche mia mamma in questo sport di tenacia e fatica. Li ho sempre visti uscire in allenamento, per me era entusiasmante, era normale volerli emulare. Poi un giorno un amico di mio padre che gestiva una squadra di ciclismo di bambini della zona, la Cicli Tortonese, gli chiese se volevo unirmi a loro. Non avevo ancora l’età per gareggiare, mi allenavo con i maschietti. Non avevo neanche la bici da corsa, ma una piccola mountain bike rosa… È iniziato tutto così, quasi per gioco. E anche se c’erano sport in cui eccellevo più che nel ciclismo, le due ruote sono sempre state il mio amore più grande.

Quando ti sei accorta che non era più un gioco e si iniziava a fare sul serio?

È stato attorno ai 14/15 anni, quando sono approdata alla categoria Juniores, in cui ormai si gareggia a buoni livelli, appena prima del professionismo. Sono sempre stato molto costante. E pur non essendo mai stata un talento eccelso, riuscivo sempre a piazzarmi tra le migliori, una gara dopo l’altra. Sono stata presa in un team di Milano di sole donne. Mi allenavo per lo più da sola, seguita a distanza, e poi mi vedevo con le compagne e il team in occasione delle gare e per dei periodi intensivi di allenamento. Facevamo base in un appartamento dove noi ragazze dormivamo e poi di giorno uscivamo in strada tutte insieme. Il ciclismo – soprattutto su strada – è uno sport particolare, dove l’allenamento non può mai riprodurre pienamente ciò che avviene in gara. Da una parte perché durante la preparazione sei sola, mentre in gara si corre in gruppo ed è quest’ultimo che determina la velocità, nel confronto con le altre partecipanti. Dall’altra perché incidono molti fattori, dal tempo atmosferico alla possibilità di forare o di incappare in una caduta.

Quando è avvenuto il passaggio al professionismo?

Nel 2016, avevo 18 anni. Ho avuto una proposta da una squadra di Asti, di cui sono entrata a fare parte, ma purtroppo non è stata un’esperienza positiva. Volevo crescere, trovare le mie opportunità. Una compagna di squadra belga mi disse: “Vieni da noi, là ci sono tante gare, avrai l’occasione di metterti in mostra”. La mia idea era partire, fare un po’ di esperienza, qualche gara, prendere il ritmo per la stagione e rientrare. E invece… sono ancora qua!

Cos’hai trovato di diverso rispetto al contesto italiano?

In Belgio c’è una grande attenzione all’atleta e una passione verso tutti e tutte coloro che fanno parte del mondo del ciclismo. Sono abituati a vedere ciclisti che arrivano da tutte le parti del mondo per correre da soli ed emergere. Io sono arrivata letteralmente da sola e senza niente: in macchina, con la mia bici e il mio materiale per correre. Eppure nel giro di poco tempo sono riuscita ad affermarmi. Nel mio primo anno, ancora con i colori della squadra italiana, ho preso parte a 30 gare, conquistato un podio e diversi piazzamenti importanti. E così ho trovato almeno due squadre che mi volevano con loro. Nell’anno 2018 sono entrata a far parte del team Equano – Wase Zon. Mi sono trovata molto bene, ho partecipato a 120 gare in due anni, tantissime rispetto a quanto ero abituata in Italia.

Le cicliste del Women Cycling Project

Ed è arrivata anche la prima vittoria da professionista. Che emozione è stata e quali gli elementi che ti hanno consentito di conquistarla?

Un’emozione enorme. Dopo tanti podi, nel settembre del 2019 ho conquistato quella vittoria a Wenduine. La cercavo da tempo, sapevo di avere le potenzialità, ma evidentemente non credevo abbastanza nelle mie capacità. Quel traguardo mi sembrava vicino, ma pensare a una vittoria era una cosa troppo grande. L’aspetto mentale ha giocato tantissimo su di me. Tant’è che dal 2019 ho iniziato a farmi seguire da una mental coach. Abbiamo portato avanti un lavoro importante che ho dovuto metabolizzare e che mi ha permesso di accrescere la mia autostima, arrivare concretamente a credere in me stessa. In quello stesso anno ho conseguito la prima laurea in psicologia, la triennale in Scienze e tecniche psicologiche. Poi è arrivato il Covid e a inizio marzo si è bloccato tutto.

Come hai fatto a ripartire e com’è maturata l’idea di dar vita a una squadra tutta tua?

Purtroppo la pandemia ha reso tutto difficile e per il team di cui facevo parte non è stato più possibile andare avanti, per l’assenza di sponsor. Avevo due scelte: o cercarmi un’altra squadra in Belgio, oppure provare a crearmi qualcosa di mio… Mi sembrava una sfida molto grande, ma su consiglio e su spinta del mio ragazzo che vive nel mondo del ciclismo da anni, ho deciso di provarmi. Così, nell’ottobre 2020, è nato il nostro team, il Women Cyciling Project.

Chi ne fa parte e quali sono stati i passaggi per dar vita a questa nuova realtà?

Abbiamo optato per una squadra giovane, con ragazze di età massima 19/20 anni, oltre a tre cicliste più esperte. Siamo un team internazionale composto da sette italiane, tra cui ovviamente ci sono anch’io, e quattro straniere. Non è stato semplice, perché abbiamo dovuto muoverci per trovare gli sponsor, per coprire le spese principali, in primo luogo l’abbigliamento delle ragazze, caschi, scarpe, indumenti per le varie condizioni atmosferiche… Poi le macchine e i furgoni per spostarci, non abbiamo ancora tutto, ma poco per volta stiamo crescendo. I nostri sponsor principali sono italiani, biciclette Finotti e Molino Filippini. Abbiamo già preso parte alle prime gare in Italia e le nostre junior hanno partecipato a una tappa della Coppa del Mondo. La sede ufficiale della squadra è in Italia, ad Alessandria, ma la staff tecnico è belga.

Tu ripeti spesso che dietro a questo progetto ci sono prima di tutto dei valori. Perché?

Io penso che lo sport, anche quello di alto livello, possa essere veicolo per portare avanti valori e cause importanti. Certo, nell’agonismo sono i risultati che parlano, ma non concepisco uno sport “vuoto” di valori, come purtroppo spesso mi accede di vedere, soprattutto in figure che hanno un’alta visibilità mediatica.

Che i giovani e le giovani diventino campioni o no, per tutti lo sport deve poter veicolare messaggi di giustizia, autostima ed emancipazione. Soprattutto per noi donne.

Quanto è importante la dimensione psicologica?

Moltissimo. Lo vedo anche tra le mie ragazze della squadra. I problemi più grandi non sono negli allenamenti, ma negli ostacoli interiori che si trovano ad affrontare. Le insicurezze. Nel ciclismo gli allenamenti sono tutti abbastanza simili uno all’altro, se ti alleni a un certo livello vuol dire che ormai hai superato determinati step a livello di performance. Ciò che invece cambia è la l’approccio mentale. L’ho vissuto anch’io sulla mia pelle. Quando ho iniziato a godermi lo sport al cento per cento, fuori dalle gabbie mentali, tutto è cambiato.

Perché per una ragazza è ancora difficile vivere il mondo del ciclismo, soprattutto in Italia?

Perché purtroppo viviamo di retaggi assurdi. Nei confronti delle atlete c’è una dose alta di body shaming, attacchi e giudizi sulla loro forma fisica. In Italia è un atteggiamento molto frequente, che invalida molto le atlete. Ti dicono che se non pesi 45 kg non puoi essere una ciclista e questo è terribile. Le ragazze finiscono per preoccuparsi del proprio corpo, più che di come si sentono interiormente. Anche questi sono abusi psicologici… L’ambiente ciclistico in Belgio è diverso da questo punto di vista.

Quale consiglio daresti a una ragazza che si trova a subire un giudizio del genere?

Sono convinta che siamo noi donne a dover evolvere e cambiare il sistema. È una nostra sfida. Quello che dico è che non bisogna rimanere vittime, è necessario uscire da questo schema. Il rischio è di perdere il posto o la visibilità in squadra? È vero, ma meglio che perdere la dignità. Tante volte ho sentito dire alle giovani cicliste che non vogliono essere trattate come macchine. Perfetto, allora dove cercare di comportarvi come persone e lottare per la vostra dignità. Perché questo è importante nello sport, come nella vita.

Veronica Lisi

Video-intervista alla campionessa di canottaggio Veronica Lisi, 33 anni, padovana. Nel 2003 – quando ancora gareggiava nella categoria Ragazzi – ai Mondiali Junior di Atene ha colto il bronzo nel quattro di coppia. Poi una lunga pausa fino al 2018, a parte una fugace ma vincente nuova comparsata nel 2006, quando vinse il titolo italiano in Tipo Regolamentare sul doppio canoe.

Voglia di rimettersi e impegno professionale le hanno consentito di vincere di tre titoli italiani – due di Società e uno di Gran Fondo – sempre in singolo e di tornare in Nazionale dalla porta principale. Tra i temi trattati nell’intervista, lo sport come possibilità di riscatto, rottura degli stereotipi e strumento di integrazione.

Mattia Gaspari

Velocità, conoscenza minuziosa degli spazi e dei tempi di movimento, l’amore per la sfida, un contesto di fair play sportivo totale, come vivere in una grande famiglia. Mattia Gaspari ci parla dalla Francia quando gli chiediamo di raccontarci la sua storia sportiva con lo skeleton. Lui che è nato sulle Dolomiti e che qui, a Cortina, ancora vive. Ha 27 anni, fa parte delle Fiamme Azzurre (il gruppo sportivo della Polizia Penitenziaria) e ha un bronzo mondiale al collo, conquistato nel 2020 ad Altenberg, in coppia con la compagna di nazionale, la piemontese Valentina Margaglio. Una risultato storico, la prima medaglia mondiale vinta dall’Italia in questa disciplina che lo vede protagonista dei circuiti internazionali ormai da alcune stagioni. Lo skeleton è la specialità, tra gli sport di budello, che in azzurro ha una storia più sommersa rispetto a bob e slittino che hanno reso gloriosa l’Italia anche a livello olimpico. Una disciplina affascinante che, nonostante le difficoltà dovute alla mancanza di impianti in Italia, sta prendendo piede.

Di Ilaria Leccardi

Mattia, come hai iniziato a praticare questo sport?

È partito tutto grazie a un reclutamento a scuola. Quando avevo circa 15 anni è venuto nella mia classe un allenatore, futuro Direttore Tecnico della Nazionale, per presentarci questa disciplina così particolare. Assieme a un’altra allenatrice ci ha mostrato dei video, poi ci ha poi portati al campo d’atletica per effettuare dei test fisici. Qualche mese dopo abbiamo avuto l’opportunità di fare una prova su un pistino da spinta estivo su rotaia a Cortina. Io sono risultato idoneo, la disciplina mi è piaciuta e insomma… eccomi qui.

Tra le “discipline da budello”, che vedono gli atleti sfrecciare ad alta velocità sul ghiaccio, tra curve mozzafiato e passaggi di precisione, lo skeleton in Italia è il meno conosciuto. Si disputa in posizione prona, il viso rivolto in avanti, a puntare con lo sguardo la discesa. Quanto coraggio ci vuole per lanciarsi in questo modo a tutta velocità?

Effettivamente può sembrare una disciplina dove il coraggio è il primo requisito, ma non è poi così vero. Sfido chiunque a dirmi che in montagna, sulla neve, non si è mai lanciato con lo slittino in discesa a pancia in giù. In realtà non è necessaria alcuna dose particolare di audacia o follia, perché prima di affrontare le piste complete a velocità di gara seguiamo una lunga preparazione di base. Affrontiamo vari step e livelli progressivi di discesa, per prendere confidenza e approfondire la tecnica.

Le piste hanno una lunghezza compresa tra 1,2 e 1,7 km e ci sono tratti in cui potete arrivare a toccare la velocità di 140 km/h. I corpi che sfrecciano vicino al ghiaccio, sotto la pancia solo il vostro skeleton. Qual è dunque il segreto?

L’elemento necessario nel nostro sport è la consapevolezza di quello che stai facendo con il tuo corpo e di ciò che ti sta attorno. Devi avere coscienza dello spazio che stai attraversando, devi conoscere molto bene ogni metro delle piste, i tracciati, le curve. Ma anche la durezza del ghiaccio, perché le condizioni atmosferiche incidono molto… Può piovere, oppure esserci una temperatura molto sotto lo zero e noi comunque affrontiamo le discese, adattando la guida anche a questo aspetto. Tuttavia, non nascondo che quando hai a che fare con la velocità o la gravità il pericolo è sempre dietro l’angolo. E non bisogna sottovalutare l’incidenza delle forze G che si creano nelle curve… insomma, il nostro è un sport di precisione e di fatica.

Preparazione fisica e studio dell’ambiente…

Sì, per le piste già percorse, abbiamo la possibilità di vedere dei video, studiando le discese registrate. Invece per le piste nuove il lavoro è più complesso. In ogni caso, quando siamo sul posto mettiamo i ramponi e percorriamo la pista passo passo per conoscere tutte le curve e ogni passaggio.

Perché in Italia non è semplice praticare uno sport come lo skeleton?

Purtroppo per la mancanza di strutture. Gli impianti al momento non ci sono. Gli unici due, entrambi tracciati olimpici, erano a Cortina e a Cesana Pariol. Il primo è chiuso dal 2008, il secondo – inaugurata per i Giochi di Torino – è stata chiusa nel 2011 ed è in disuso. Tuttavia ora, grazie al fatto che Giochi Olimpici del 2026 si terranno a Milano e Cortina, l’impianto ai piedi delle Tofane verrà ripristinato e speriamo che questo possa essere di aiuto in futuro per lo sviluppo delle nostre discipline. Soprattutto nella stagione invernale ci alleniamo all’estero. In Europa ci sono diversi Paesi dove il nostro sport ha maggiore considerazione, in Germania ad esempio è sport nazionale.

Lo skeleton è uno sport individuale, chi affronta la discesa è solo sul ghiaccio. Tuttavia, la medaglia mondiale che hai conquistato, la prima per la storia azzurra, è arrivata in una gara di squadra mista: la “staffetta” composta da te e Valentina Margaglio. Qual è il valore di quel successo?

Per l’Italia è stata una medaglia storica, un bronzo mai raggiunto prima. Dopo un Mondiale sottotono, sia per me che per Valentina, siamo riusciti a tirare fuori il meglio nell’ultimo giorno di gare. E abbiamo dimostrato di essere una formazione e un movimento competitivo nel suo complesso, sia nel settore maschile sia in quello femminile, non solo come individualità.

A livello personale per te è stato un risultato importante, anche alla luce delle difficoltà fisiche che hai dovuto affrontare negli ultimi anni e che ti hanno costretto a saltare i Giochi Olimpici del 2018 in Corea del Sud. Cos’era successo?

A ottobre del 2017, a pochi mesi dai Giochi che si sarebbero svolti tra l’altro su una delle mie piste preferite, mi sono rotto il tendine d’Achille. Nessuno se lo sarebbe aspettato. Ho dovuto affrontare un recupero lungo e doloroso. Un primo intervento che però non è stato risolutivo e, a distanza di un anno dall’infortunio, una nuova risonanza ha evidenziato che il tendine si era nuovamente rotto pochi centimetri sotto. Mi hanno operato nuovamente, tramite una tecnica chiamata Allograf, che prevede il trapianto di tendine. Ho seguito poi un lungo percorso di fisioterapia in un centro di Asti dove sono stato seguito giorno e notte e dopo sette mesi ne sono uscito sulle mie gambe. Ora va sicuramente meglio, i test fisici sono buoni, tuttavia ancora non sono al cento per cento, faccio fatica ad esempio ad affrontare lunghe camminate. E devo sempre equilibrare tra le necessità di non fare troppo, perché altrimenti zoppico, e quella di non fare troppo poco, perché se no il lavoro che porto avanti è inefficace…

Negli sport invernali, nella tua disciplina in particolare, qual è il livello di collaborazione tra atleti? Considerato anche il tema del nostro progetto, hai mai assistito a episodi di discriminazione o situazioni spiacevoli nel tuo ambito sportivo?

Il nostro ambiente è il perfetto esempio di come dovrebbe essere lo sport. Viviamo come se fossimo in una grande famiglia, anche tra atleti di diverse Nazioni. Personalmente non ha mai assistito a situazioni di discriminazione o attrito particolare. Ci conosciamo tutti nel circuito e nel momento del bisogno c’è sempre qualcuno pronto a darti una mano. Siamo abituati a stare sempre in giro, quasi ogni giorno dell’anno, la fatica è grande, ci sono giorni in cui devi scaldarti con la temperatura a meno 15 gradi o sei sotto la pioggia. Questo forse ci accomuna e ci avvicina ancora di più, anche nel momento della competizione. Lo scorso anno a una mia compagna, appena prima dell’avvio della prima manche di una gara, si è rotto il lacciolo del casco. Non poteva partire. Nel giro di un minuto il capo allenatore della Germania è uscito dal furgone, le ha consegnato un casco e lei è riuscita a partire in fondo al gruppo e affrontare la discesa.

L’emergenza Covid vi ha causato particolari problemi? Abbiamo visto alcuni video dei vostri allenamenti a casa. Come avete affrontato la situazione?

Siamo riusciti a chiudere la stagione 2020 senza grandi problemi, se non fosse per il dispiacere di non aver potuto festeggiare a dovere la vittoria mondiale, conquistata il 1 marzo, perché appena rientrati in Italia è scattato il lockdown duro. Abbiamo ripreso ad allenarci dopo un mese, ma poi non abbiamo avuto particolari problemi e siamo riusciti a condurre la preparazione estiva, che si concentra molto più sulla parte atletica e il lavoro relativo alle spinte, sui pistini di tartan. Le gare sono poi riprese a novembre. L’unico grosso inconveniente per noi sono, ancora oggi ovviamente, i continui controlli. Ogni settimana effettuiamo due Covid test per spostarci da una pista all’altra… Non è certo piacevole! Ma la cosa più difficile è gareggiare senza pubblico. Tuttavia anche quest’anno siamo riusciti a portare a termine la stagione, quindi non abbiamo motivo di lamentarci. Guardiamo al futuro, con fiducia.

Rossano Galtarossa

Rossano Galtarossa nasce a Padova il 6 luglio del 1972. Avvicinatosi allo sport del remo in età giovanile, inizia la sua attività agonistica a 13 anni con il Cus Padova. Partecipa per la prima volta alle Olimpiadi nel 1992 a Barcellona, dove taglia il traguardo al terzo posto in quattro di coppia. Nel 1993 passa alla Canottieri Padova e strappa il bronzo ai Mondiali di Racice (Repubblica Ceca) ancora in quattro di coppia. Nella stessa specialità diventerà campione mondiale nel 1994, 1995, 1997, 1998.

Nel 1996 partecipa alla sua seconda Olimpiade (ad Atlanta – USA), posizionandosi quarto. Con Alessio Sartori, Agostino Abbagnale e Simone Raineri trionfa alle Olimpiadi di Sydney (Australia) nel 2000. Quattro anni dopo si piazzerà terzo ad Atene (in doppio) e nel 2008 approderà all’argento con il quattro di coppia con Raineri, Luca Agamennoni e Simone Venier. Nel 2011 torna a essere protagonista con la maglia azzurra e si qualifica col quattro di coppia alle Olimpiadi di Londra 2012.

Rossano Galtarossa è il canottiere italiano ad aver vinto più medaglie alle Olimpiadi: quattro, un oro, un argento e due bronzi. Oggi è Direttore degli Impianti della Società Canottieri Padova.

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la su storia sportiva e spiegare il canottaggio e il valore dello sport dal suo punto di vista.

Valentina Petrillo

“Sogno un futuro in cui nessuno debba più sentire storie come la mia. Sogno un futuro in cui non ci siano più bambini, bambine, adolescenti, costretti e costrette a nascondersi, ad avere paura, a non potersi esprimere per quello che sono: in famiglia, nella società, nelle attività di tutti i giorni. E nello sport, sì, anche nello sport”.

Valentina Petrillo è una campionessa paralimpica che gareggia sulle distanze dei 200 e 400 metri nella categoria T12, riservata alle persone ipovedenti. Dall’età di 14 anni soffre della sindrome di Stargardt, che preclude fortemente la vista. Ma Valentina è anche una persona che sta scrivendo la storia dello sport italiano e internazionale. È infatti la prima ad aver affrontato la transizione di genere a correre nella categoria a cui si sente di appartenere: le donne.

Di Ilaria Leccardi

Il 2021 sarà un anno fondamentale per lo sport. Dopo il rinvio causa Covid dei Giochi di Tokyo, il mondo è in attesa di capire se sarà possibile disputare l’evento. E nel frattempo tutti i campioni che puntano a quel traguardo sono in lotta con se stessi o gli avversari per conquistare il pass. Valentina è in forma, finalmente. Il corpo risponde bene agli allenamenti e le gambe girano forte. Nel meeting di Ancona del 31 gennaio ha fatto siglare il record italiano paralimpico femminile sui 400 metri. “Dal punto di vista sportivo è un momento importante, questa era la seconda uscita stagionale. Una settimana prima, ai Campionati paralimpici, avevo vinto ma con un tempo più alto. Qui, oltre all’oro, sono riuscita a segnare il nuovo primato italiano assoluto sulla distanza, con il tempo di 1’02.88. Sono molto felice. Ho dato il via a una fase importante che potrebbe darmi molte soddisfazioni. E questo, a due anni dall’inizio della terapia ormonale”. La strada per Tokyo è ancora lunga: la prossima tappa fondamentale sarà il weekend del 15/17 aprile, quando a Jesolo si terrà il Meeting internazionale paralimpico, prima occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e quindi ritenuti validi per i pass a cinque cerchi.

“Per molti il 2020 è stato un anno terribile. A me, nonostante tutto, ha permesso di prepararmi al meglio e ha consentito al mio corpo di abituarsi alla terapia ormonale che è tutto fuorché una passeggiata”, prosegue.

Valentina corre perché è nata per farlo. E corre fin dal giorno in cui, ad appena sette anni, vede Pietro Mennea volare sui 200 metri ai Giochi di Mosca. Ma Valentina per troppi anni è costretta a vivere una vita che non è la sua.

Io sono il classico esempio di una persona che per timore dello stigma sociale si è tenuta tutto dentro. L’impatto della società, di cosa avrebbe potuto comportare essere veramente me stessa, ha inciso molto sul mio percorso di vita.

foto FISPES – Mantovani

“Ho provato a lottare per rimanere nel posto assegnatomi dalla società, che inscatola i bambini maschi con un fiocco azzurro. L’ho fatto fino a quando sono esplosa. Per 44 anni non ho avuto strumenti, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. Sono nata nella Napoli degli anni Settanta, dove i femminielli erano considerati la “feccia” della società. Con una cugina più grande di me che, dove aver dichiarato di essere trans, venne cacciata di casa dal padre e non fece una bella fine. Avevo paura e mi sono nascosta”.

Poi però arriva il momento in cui Valentina non può far altro che essere se stessa. Prima di iniziare il percorso di transizione, aveva già vinto 11 titoli italiani paralimpici maschili nella sua categoria di disabilità. Lo sport è sempre stato importante, ma a un certo punto la scelta di iniziare la transizione diventa prioritaria. “Sentivo che per essere me stessa dovevo arrivare a realizzarmi in quanto donna, a prescindere dallo sport. Se poi fossi riuscita a coronare il sogno anche in ambito sportivo, sarebbe stato fantastico”.

Un ruolo centrale nel suo percorso lo ha il Gruppo Trans di Bologna che da anni segue e affianca le persone nei percorsi di transizione. “Fino al giorno in cui non ho varcato la soglia dell’Associazione, grazie al consiglio di un’amica, e ho visto quella che poi sarebbe diventata una delle persone di riferimento per me, Milena, non potevo immaginare la normalità della situazione. Nel mio immaginario le persone trans erano sempre e solo associate a contesti degradati, di strada. Invece davanti a me vidi una ragazza in scarpe da ginnastica e jeans. Le chiesi se potevo toccarle la mano e capire se fosse reale. La guardai e dissi: ‘Sei la persona che ho sempre saputo di essere, ma che non avevo mai incontrato’. A quel punto avevo capito chi fossi”.

Il percorso di transizione per Valentina inizia quasi subito dopo quell’incontro. Cosa non scontata, visto che prima di avere l’ok da parte dei medici è necessario una lunga valutazione, anche psicologica. “Per me è stata abbastanza rapida, perché era chiara la mia determinazione. Io ero dell’idea che, a prescindere dalla terapia, avrei comunque iniziato a vivere da donna, nei contesti privati e in quelli pubblici”.

L’impatto sul corpo delle persone che affrontano il percorso di transizione non è semplice. Valentina in un mese ingrassa di 10 chili e dopo tre mesi non riesce a correre. È fisicamente spossata, la sua temperatura corporea si abbassa di 2 gradi. La muscolatura fa molta più fatica a recuperare. Le prime gare le affronta dopo sei mesi, ancora nella categoria maschile, e il calo delle prestazioni in pista è evidente. Ma non si arrende, soprattutto con l’obiettivo di gareggiare finalmente nel genere che le appartiene.

I momenti più difficili, ricorda, sono due. I primi mesi del 2018, “quando iniziavo a uscire di casa vestita da donna, ma negli ambiti sociali come il lavoro vivevo ancora da uomo. E per me era terribile, una sorta di sdoppiamento di personalità, in cui sentivo che Valentina chiamava, ma non potevo sempre rispondere”. L’altro è stato nel 2019, poco dopo l’inizio del percorso di transizione, quando le Federazioni sportive le dicono che il suo sogno di gareggiare con le donne è irrealizzabile.

foto FISPES – Mantovani

Poi qualcosa cambia. Da una parte l’Uisp e il Gruppo Trans intervengono per sollecitare un passo in avanti, poi – nel giugno 2019 – l’incontro con Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. “Gli mandai una mail e lui mi convocò. Fu un incontro bellissimo, in cui parlammo di tutto tranne che di sport. ‘Valentina- mi disse – io ti vedo come vedevo me stesso dopo l’incidente che provocò la mia disabilità. Ti capisco’. Non so bene cosa sia successo, ma so che a un certo punto la FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, mi aprì le porte”.

L’11 settembre 2019 Valentina Petrillo diventa la prima persona trans a correre nella categoria del genere di appartenenza. E poi, a ottobre, si aprono le porte anche della Fidal, nei campionati Master ad Arezzo.

Fin dall’inizio Valentina si pone il dubbio se sia giusto o meno gareggiare con le altre donne. Ma la risposta, la più semplice possibile, arriva dalla dottoressa Joanna Harper, medico statunitense che da anni approfondisce il tema dalle persone sportive che affrontano la transizione. Lei ricorda a Valentina che esistono regole internazionali da questo punto di vista e che rispetto al passato i diritti delle persone trans sono stati finalmente affermati. Fino al 2003, infatti, non era nemmeno pensabile che una persona trans potesse gareggiare con il genere a cui si sentiva di appartenere. Poi un passo avanti è stato fatto con le prime linee guida, in vigore dal 2003 al 2015, secondo cui i requisiti erano: l’operazione per il cambio di sesso, il riconoscimento legale del proprio cambio di genere e almeno due anni di terapia ormonale. Dal 2015, invece (anche per andare incontro a quelle persone che vivono in Paesi dove il cambio di sesso non è consentito), l’unico requisito è dettato dal livello di testosterone nel sangue: 5 nanomoli. Un livello basso, rispetto al quale – tra l’altro – Valentina è ben sotto.

“Capii che era stato lo stesso CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, ha indicare cosa potevo fare. Non ero un’eretica, chiedevo solo che le regole venissero applicate, anche se fossi stata la prima. E così, dopo qualche chiusura iniziale, il sogno si è avverato. La cosa più straordinaria, forse, è che sia successo proprio in Italia, un Paese dove su certe aperture non siamo certo all’avanguardia. Ma ben venga!”.

foto FISPES – Mantovani

Tuttavia, al di là di quello che le Federazioni hanno permesso, non tutti o tutte hanno accolto bene l’arrivo di Valentina nelle gare femminili. “Sui social – ci spiega – ho imparato a non leggere più i commenti. Solo il primo giorno in cui mi sono esposta come donna ho risposto a una persona che mi attaccava, ma poi, anche su consiglio dei miei collaboratori, ho deciso di lasciar perdere. Nel mondo reale, ho avuto un’ottima accoglienza nell’ambiente paralimpico, dove le persone sono più abituate ad avere a che fare con la diversità, e dove mi conoscevano già bene perché avevo vinto molto prima di iniziare la transizione. Nel mondo sportivo dei cosiddetti normodotati, invece, l’accoglienza non è stata calorosa. So che c’è chi si è lamentata della mia presenza e addirittura c’è chi ha detto che boicotterà eventuali gare a cui mi presenterò”.

Purtroppo lo sport è un ambiente molto sessista, dove – anche necessariamente – vige la divisione agonistica tra maschi e femmine. Ecco perché farsi accettare può essere ancora più dura che nella vita di tutti i giorni. Io stessa penso che delle perplessità siano legittime. Ma noi abbiamo il dovere di fare informazione. Ci sono stati studi di anni per arrivare a stilare le linee guida del CIO e io le sto semplicemente rispettando”.

Sulla storia di Valentina sta venendo prodotto anche un documentario 5 Nanomoli, prodotto da Ethnos e Gruppo Trans, in collaborazione con Uisp e Arcigay. “La visibilità che ho acquisito in seguito alla decisione che ho preso per la mia vita mi fa piacere, anche se ho sofferto molto negli ultimi mesi per l’invadenza e l’intromissione nella vita privata. Molte domande fuori luogo, molte morbosità che mi hanno infastidita. Io penso sempre alla mia amica, la campionessa paralimpica Martina Caironi: qualche giornalista farebbe mai a lei le stesse domande che pongono a me? Credo proprio di no… Eppure sono consapevole che tutto questo servirà. A me da giovane sono mancati gli esempi positivi. Se a 14 anni avessi visto in televisione una Valentina Petrillo che faceva sport, avrei pensato: caspita, ma allora è possibile! E non mi sarei stata nascosta per così tanto tempo. Non posso dire di avere avuto una brutta vita, anzi. Ma sicuramente non era la mia. Cresciamo in una società in cui non è possibile vedere altre strade che quelle imposte dai ruoli che ci pongono alla nascita. E se quei ruoli non li rispettiamo siamo fuori dai canoni, siamo persone sbagliate”.

Nel futuro c’è Tokyo, ma soprattutto un grande sogno: “Io vorrei che Valentina non fosse più il caso a cui guardare con curiosità, ma che dalla mia storia venisse fuori la normalità. Perché ogni persona che viene al mondo deve potersi esprimere e deve poter vivere per quella che è. E non dobbiamo rimanere in silenzio. Lo dico anche pensando a quanto sia stato simile il percorso che ho affrontato per accettare la mia disabilità, l’ipovedenza. Per anni ho parlato ai ragazzi dell’importanza di accettare e rispondere alla malattia, ora lo voglio fare per contribuire a rendere il nostro mondo più vero, sincero e libero. Solo così potrà essere un mondo più felice”.

Paola Egonu

Video intervista al volto più noto del volley italiano

Un metro e 89 centimetri di tecnica e potenza. Un’elevazione che la porta a volare a quasi tre metri e mezzo. Le sue schiacciate sono bolidi che lasciano poche speranze a chi si trova dall’altra parte della rete. Paola Egonu ha 21 anni e ormai da qualche stagione è il volto più noto della Nazionale italiana di volley e icona della pallavolo mondiale. Schiacciatrice e opposto, più volte nei tornei e campionati internazionali disputati nelle ultime stagioni si è trovata insignita del riconoscimento di MVP (Most Valuable Player).

Paola è nata a Cittadella, in provincia di Padova, nel 1998, da genitori nigeriani che proprio in Veneto si sono conosciuti. Afroitaliana. È questo il termine con cui meglio si definisce. Nata e cresciuta in Italia ma consapevole della sua storia a cui è molto legata, così come alla sua famiglia di origine che di frequente va a trovare in Nigeria. È uno dei volti che rappresenta l’Italia di oggi, che sa raccontarsi, prendendo parola e scardinando i pregiudizi, come quando – al termine dei Mondiali 2018 – con tutta naturalezza disse di avere una fidanzata e la stampa utilizzò quelle poche parole e la foto di un bacio per ricamarci titoli e scrivere fiumi di articoli.

La pallavolo l’ha conosciuta quando aveva 12 anni. Prima come semplice hobby, poi ha iniziato a divertirsi davvero e ha capito che poteva essere lo sport adatto a lei. E presto lo notano anche gli allenatori. Tant’è che dal 2013 entra a far parte del Club Italia, la società che fa capo alla Federazione, fondata per volere di Julio Velasco nel 1998, con l’obiettivo di formare giovani atlete italiane provenienti dai vivai, facendo così fare loro esperienza ad alto livello anche in termini di campionati.

FOTO Galbiati/Fipav – Paola Egonu agli Europei 2019, la Nazionale italiana è bronzo

Ed è proprio tra le fila del Club Italia che Paola Egonu ottiene i suoi primi successi, partendo dalla serie B1 e arrivando fino all’A1. Celebre resterà una partita del campionato 2016-2017 in cui riuscì a realizzare ben 46 punti, il record di sempre in un match femminile nella serie maggiore. Una scalata inarrestabile che l’ha portata sul tetto del mondo.

Ingaggiata dall’AGIL Volley Novara nel 2017, vi gioca due stagioni, durante le quali vince di tutto: la SuperCoppa Italiana nel 2017, due Coppa Italia (nelle stagioni 2017-2018 e 2018-2019) e nel 2019 la CEV Champions League, dove risulta anche MVP. Nella scorsa stagione torna in Veneto, ingaggiata dall’Imoco di Conegliano, con cui si distingue subito vincendo la SuperCoppa Italiana e il Mondiale per Club in cui, neanche a dirlo, è MVP. E poi la Coppa Italia 2019-2020, poco prima della chiusura delle attività per lockdown a causa dell’emergenza coronavirus.

Straordinaria è anche la sua attività in Nazionale azzurra, fin dalle giovanili. Nel 2015 è campionessa mondiale sia con l’Under-18 che con l’Under-20. Nel 2017 è argento al World Grand Prix. Mentre nel 2018, ai Campionati del Mondo che si disputano in Giappone, conduce con le sue schiacciate l’Italia alla finale, dove però ha la meglio la Serbia. L’Italia si deve “accontentare” dell’argento. Nel 2019 è bronzo Europeo, in una Nazionale azzurra dove quasi la metà delle giocatrici ha origini straniere, per lo più seconde generazioni.

Con Paola Egonu abbiamo parlato degli aspetti che riguardano la nostra campagna. La diffusione dell’hate speech anche in ambito sportivo e come lei ha affrontato episodi spiacevoli che l’hanno riguardata. La ricchezza della nuova Italia che anche nello sport sta vivendo una sempre maggiore condivisione di culture e diversità. L’importanza per una campionessa come lei di portare avanti un messaggio di integrazione. E infine il suo legame con la Nigeria, cosa significhi essere afroitaliana oggi.

LA VIDEO INTERVISTA DI “ODIARE NON È UNO SPORT” ALLA CAMPIONESSA DI VOLLEY PAOLA EGONU