Emma Mazzenga, la prof dei record a 90 anni

“Per me lo sport è una grande passione ed è stato un sostegno nei momenti difficili. Mi dà benessere fisico e migliora l’umore. Ai giudizi sui social non bisogna dare retta, la maggior parte vengono espressi senza cognizione di causa”. Parola della padovana Emma Maria Mazzenga, campionessa sui 200 metri piani categoria W90, dove 90 sta per l’età. Lo scorso gennaio, con 54.47 l’atleta, nata il 1 agosto 1933, ha demolito il precedente primato di 1.00.72, che resisteva da 13 anni. Ma non è finita, nei mesi successivi ha abbassato ulteriormente il crono ed è già al settimo record del mondo da inizio anno.

di Progettomondo

La tenacia e la positività dell’ex professoressa in pensione sono impressionanti. “La notorietà mi ha meravigliato e divertita”, commenta. “Ai giovani dico che lo sport chiede impegno e fatica ma dà molte soddisfazioni e ciò che conta è raggiungere i risultati che si è in grado di raggiungere, con passione e piacere”.

Emma ha iniziato a praticare sport al liceo e una volta all’Università, nel ’56, si è cimentata con l’atletica. Poi si è sposata, ha avuto figli e per 25 anni si è limitata a sciare, mai per agonismo. Nell’86 il fondatore e allora presidente del Cus di Padova, Alberto Pettinella, ha riunito le atlete degli anni passati e così Emma ha iniziato a gareggiare nei master. “A 83 anni ho fatto una pausa, mi sentivo ridicola e fuori luogo, ma poi l’amica Rosa Marchi mi ha convinta a iscrivermi all’Atletica Insieme Verona, dove corro da 5 anni. Mi alleno con persone di tutte le età, dai 15 anni in su e questo mi piace molto”.

Quanto Emma ha iniziato la sua carriera sportiva i social non c’erano e in pochi sapevano quello che accadeva nei campi sportivi. “Navigando sui social, che seguo un po’ ma senza particolare coinvolgimento, si leggono parecchi giudizi”, dichiara l’atleta. “Alcuni arrivano da esperti, ma la maggior parte sono di chi non sa nemmeno di cosa si stia parlando e potrebbero proprio essere risparmiati. Si passa con estrema facilità da una celebrazione a un insulto, attenendosi al solo risultato, senza essere consapevoli della complessità di una disciplina sportiva.

“È impressionante che persino un tennista tanto riservato ed equilibrato, oltre che eccellente, come Sinner, riceva degli insulti. Ho condiviso la sua scelta di non andare al Festival di Sanremo. Chi fa sport sa cosa ci sia dietro una partita o una gara e non trovo giusto che vengano sfruttati impegno e bravura per fare audience”.

La campionessa ricorda un aneddoto accadutole durante un allenamento di qualche anno fa. “Mi era stato detto di andare a casa a fare la calza, ma mi sono limitata a replicare che io vesto in pile. Forse c’è ancora qualcuno che pensa che potrei fare altro nella vita, quando si è esposti si è purtroppo soggetti a ogni attacco o commento. Ma non bisogna dipendere dal giudizio altrui. Lo sport fa bene al fisico e alla mente, grazie al fatto di avere una meta, uno scopo. Ho visto passare tante mode e mi auguro che prima o poi si esaurisca anche quella dell’uso smodato e inappropriato dei telefonini”.

Un ultimo appello la campionessa lo lancia ai genitori. “Sono spesso mamme e papà a creare un clima di tensione e di eccessiva competizione. C’è chi cronometra i propri bambini in piscina e chi urla a chi gioca in campo. Non tutti possono diventare campioni e i giovani, specie se adolescenti, non vanno stressati. Non bisogna distruggere l’armonia e il benessere che lo sport sa donare”.

Briantea84 e Bulgaro Academy: sport inclusivo e tifo positivo

Lavorare per dar vita a una società dove lo sport sia realmente inclusivo e tracciare nuovi percorsi per rendere il tifo un’esperienza positiva, determinata ma anche gentile. Sul territorio comasco ci sono due realtà che incarnano questi obiettivi, lavorando nella pratica agonistica e nell’educazione della propria “famiglia sportiva”: quella comunità che si riunisce sugli spalti o ai bordi del campo, quella allargata a genitori e tifosi, quella che non può non sentirsi coinvolta se si parla di amore per lo sport.

UnipolSai Briantea84 Cantù, una delle più titolate realtà italiane del basket in carrozzina, fresca vincitrice della Coppa Italia, e FCD Bulgaro Academy, scuola calcio della FIGC, si sono incontrate e hanno potuto confrontarsi attorno a questi temi grazie a un evento organizzato dalla ONG ASPEm nell’ambito di Odiare non è uno sport, lo scorso 16 gennaio a Bulgarograsso, davanti a una platea di genitori, educatori, personale sportivo.

Di Ilaria Leccardi e Camilla Novara (ASPEm)

Nata da un’intuizione di Alfredo Marson che fino alla sua scomparsa, nel 2022, ne è stato presidente, la Briantea84 conta attualmente 150 tesserati in cinque discipline sportive (oltre all’eccellenza del basket in carrozzina, anche nuoto, calcio, atletica e pallacanestro). “Come società lavoriamo per promuovere l’inclusione quotidiana, incontriamo migliaia di giovani ogni anno, per trasmettere e testimoniare loro che lo sport paralimpico è sport, e dà dignità alla persona”, ha spiegato durante l’evento Simone Rabuffetti, responsabile ufficio stampa della società.

E che Cantù sia una dei centri focali di questa disciplina, lo testimonia la storia di Francesco Santorelli, play, classe 1992, cresciuto nelle fila del CIS Napoli e approdato in Briantea84 quando aveva 18 anni, fortemente voluto dal presidente Marson che proprio in quegli anni lanciava il nuovo progetto di scalata alle classifiche. Da allora con la squadra lombarda ha vinto 7 scudetti (che si aggiungono ai 2 già presenti nella bacheca della squadra), 8 Coppe Italia e 6 Supercoppe Italiane. “Mi sono avvicinato al basket in carrozzina quando avevo 13 anni, indirizzato da un conoscente. Rimasi affascinato quando vidi giocare a basket a un livello così alto. L’arrivo in Briantea è stato per me un passo molto importante, sportivo, vista l’importanza del team a livello italiano ed europeo, ma anche umano, per la mia crescita e autonomia”.

Negli anni la società ha costruito valore. Agonistico, che ha portato a rivalità storiche come quella con Amicacci Giulianova, vincitori dell’ultimo scudetto, o Santa Lucia Sport Roma. Ma anche quello di comunità, capace di riempire i palazzetti. “Nel nostro ambiente – ha proseguito Santorelli – ci conosciamo tutti, anche perché molti di noi, pur se avversari nei club, vestono o hanno vestito la maglia della Nazionale. Eppure, in campo la rivalità è molto forte. Il nostro giocatore in più è senza dubbio il pubblico: il territorio ci segue molto, ad ogni partita gli spalti del PalaMeda (dove giochiamo) sono pieni, mentre fuori casa capita spesso di giocare nel silenzio di un palazzetto vuoto. Rispetto a dieci anni fa, possiamo dire che lo sport paralimpico sta raccogliendo più seguito. Finalmente veniamo percepiti come atleti a tutti gli affetti: le ore di allenamento, i sacrifici per arrivare a livelli di eccellenza, la dedizione sono gli stessi, che si tratti di sportivi paralimipici o no”.

Il grande lavoro di Briantea84 verso la propria comunità, tuttavia, non è andato solo nella direzione di ampliare il bacino di tesserati o di portare pubblico sugli spalti, bensì, verso un’educazione al rispetto, anche grazie alla collaborazione con l’associazione Comunità nuova e il progetto “Io tifo positivo”, che porta la società a compiere anche simulazioni di tifo durante gli incontri che la vedono incontrare giovani negli oratori e nelle scuole. “Facciamo di tutto affinché gli avversari possano sentirsi accolti nel nostro palazzetto e questo non vuol dire non tifare o non schierarsi per i propri colori. Ma riconoscere che l’avversario può essere più forte e non per questo va insultato”, spiega ancora Simone Rabuffetti.

L’obiettivo è pienamente condiviso da un’altra eccellenza del territorio comasco, la FCD Bulgaro Academy, scuola calcio che sta crescendo talenti e generazioni. “Per noi – ha spiegato durante l’incontro Alessandro Crisafulli, giornalista, responsabile comunicazione della società – l’aspetto educativo è molto importante. Siamo cresciuti negli ultimi anni, abbiamo numeri importanti, ma non dimentichiamo mai che ogni singolo bambino o ragazzo è un progetto, da crescere e gestire al meglio. E in quest’ottica per noi è determinante la collaborazione con i genitori. Lavoriamo per informarli, formarli e coinvolgerli”. Purtroppo, sottolinea, “nel calcio giovanile c’è spesso un clima inquinato, fatto di ‘risultatismo’ e ‘campionismo’, che rovina l’ambiente e incide sui più piccoli. Noi adulti abbiamo una grande responsabilità”. Un approccio delicato, pedagogicamente attento, è quello che sta da anni cercando di valorizzare Crisafulli, ideatore della Scuola Genitori Sportivi, che ha dato vita un Alfabeto della gentilezza, attraverso cui lavora per promuovere il tifo gentile.

“Bisogna spiegare a un genitore l’importanza di stare al fianco del proprio figlio o della propria figlia, ma senza creare eccessive aspettative”. E, soprattutto dopo una sconfitta o una prestazione negativa, è importante rimanere in ascolto, anche di un silenzio.

Ed ecco un nuovo punto in comune: usare le parole giuste, nel tifo, così come nella narrazione sportiva, senza cadere nel perbenismo – che rischia di sfociare in forme di abilismo o infantilizzazione nei confronti degli sportivi con disabilità. “Gli atleti della Briantea84 – tiene a evidenziare Rabuffetti – hanno una dedizione totale all’allenamento, con ritmi e sessioni di preparazione del tutto simili a quelli seguiti dai giocatori di basket in piedi, con doppi allenamenti e numerose trasferte. A volte da fuori si ha la percezione che basti essere in carrozzina per essere ‘bravo’, ma non è così”.

“Ancora oggi – chiude Santorelli – capita che le persone che ci seguono non giudichino la prestazione, ma vogliano tirarci su il morale e stimolarci solo perché abbiamo una disabilità. Ma non ci serve ‘comprensione’ dopo una sconfitta. Dobbiamo invece analizzare gli errori commessi, le debolezze dimostrate, per studiare una tattica da applicare poi in campo”. Semplicemente, atleti.

Damiano Tommasi: Bisogna dare importanza alle relazioni

Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.

Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.

di Progettomondo

Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?

In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.

I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?

Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.

Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatore professionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?

Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzo contro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.

Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?

Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.

Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?

Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.

Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.

Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?

Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.

Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.

Luca Cesana, il “dottore” del basket: studio e sport si può

Fare del basket una delle proprie ragioni d’essere, ma al tempo stesso lasciare aperta la porta dello studio, quella verso prospettive future, quella dell’approfondimento e della conoscenza. Una strada non semplice, perché lo sport professionistico è fatto di delicati equilibri, impegni costanti, sponsor, aspettative e contratti. E per molti dei suoi protagonisti basta a sé stesso. Ma per Luca Cesana, 26 anni, play/guardia della Pallacanestro Cantù, dottore magistrale in Psicologia, la vita è un insieme di sfaccettature e lo sportivo, anche quello di più alto livello, non può dimenticarsi di essere prima di tutto una persona. Rientrato in partita domenica 17 dicembre dopo una fastidiosa fascite plantare che lo ha tenuto fuori dal campo per due mesi, lo abbiamo intervistato per dialogare di sport, social, gestione delle emozioni e spirito di squadra.

di Ilaria Leccardi

Com’è nato e come si alimentato nel giovane Luca Cesana l’amore per il basket?

Vengo da una famiglia di sportivi, con tre fratelli più grandi di me che hanno sempre giocato a calcio e basket. Io li ho provati entrambi, ma del basket mi sono innamorato. Ricordo ancora quando con la mia famiglia andai a Bormio nell’estate del 2004 ad assistere al ritiro della Nazionale in partenza per i Giochi di Atene, dove poi conquistò uno storico argento. Giocavo con gli amici, il basket mi faceva sentire bene. Sono cresciuto da ragazzino nel vivaio della Pallacanestro Cantù, con cui ho vinto uno scudetto Under20. Una volta diventato professionista, ho poi militato in diverse squadre: Treviglio, Eurobasket Roma, Junior Casale, Piacenza.

Fino al rientro a Cantù, una delle patrie del basket italiano, oggi in A2. Cosa significa per te?

Poter tornare a giocare dove sono cresciuto, a casa, è un’emozione indescrivibile. So cosa significa vestire questa maglia, ne sono onorato, sono gasatissimo, spero semplicemente di poter dare il meglio. 

Quando hai capito che il basket poteva essere la tua vita?

Attorno ai 16 anni, non ero più un bambino. Venni convocato per la prima volta per un raduno della Nazionale e capii che la cosa si stava facendo seria. Benché poi sia diventato il mio lavoro, a mio avviso il più bello del mondo, ancora oggi gioco a basket principalmente perché mi diverto.

Eppure, non si tratta di un “senso unico”. Perché nel curriculum puoi vantare un onorevole corso di studi con laurea triennale e magistrale in Psicologia. Perché questa scelta e che valore ha?

Quando ho firmato il primo contrato con Treviglio, nel 2016, avevo appena finito le scuole superiori e non avevo molta voglia di studiare. Vedevo entrare i primi soldini, mi bastava lo sport. È stata mia madre a insistere affinché non abbandonassi lo studio, non mi fece fretta, ma mi spinse a cercare qualcosa che mi potesse interessare. E visto che il mio focus è sempre stata la pallacanestro, mi sono detto: scegliamo un percorso che possa aiutarmi nella vita futura, anche se dovesse aiutarmi a migliorare me stesso dell’uno per cento, perché non provarci… E così ho optato per Psicologia. Sono un grande sostenitore della dual career per gli atleti, sono convinto che sia importante tenere aperte diverse prospettive sulla vita: a un certo punto la carriera sportiva finisce e non è sempre scontato riuscire a rimanere nel proprio ambito, che è spesso l’unica dimensione che si è conosciuta in una vita dedicata allo sport. È invece fondamentale accrescere la propria cultura sotto diversi punti di vista, mantenersi attivi mentalmente. 

L’immagine è presa dal profilo Instagram di Luca Cesana

È stato un percorso complicato?

Inizialmente sì, non riuscivo a trovare il metodo giusto per studiare e ricordarmi quanto avevo letto e ascoltato. Poi ho seguito un percorso che mi ha aiutato a sviluppare un mio metodo di apprendimento e memorizzazione ed è diventato tutto più semplice. Ho recuperato in poco tempo l’anno che avevo perso, mi sono laureato e poi ho deciso di proseguire con la specialistica, in cui ho conseguito la laurea all’inizio di quest’anno.

Su cosa hai concentrato la tesi?

Sul basket ovviamente, in particolare su come giocatori, professionisti e non, gestiscono le emozioni. Ho realizzato oltre duecento interviste a giocatori e giocatrici maggiorenni, ed è emerso che le differenze nella capacità di gestire le emozioni non dipendono tanto dal livello a cui si gioca e dall’esperienza che ci si porta dietro, quanto piuttosto dalla possibilità o meno di seguire un percorso di preparazione mentale dedicato.

Questo dimostra che prendersi cura dell’aspetto psicologico per gli atleti e le atlete è molto importante. Spesso non c’è questa attenzione e gli sportivi faticano a gestire emozioni come la rabbia o le frustrazioni date da una sconfitta o da un periodo di stop per infortunio.

Per avvicinarci al tema al centro del nostro progetto, che rapporto hai con i social media? Hai mai avuto esperienze negative online?

I social li utilizzo, ma non quanto vorrei. Penso che possano essere un valido strumento e un aiuto per trasmettere al mondo esterno l’ideale del giocatore di basket. Noi abbiamo il dovere di incarnare e trasmettere valori importanti e i social possono aiutare. Personalmente non ho mai subito attacchi d’odio online, ma i tifosi di basket sono molto accesi e – soprattutto in caso di sconfitta – gli articoli e i post che riguardano le prestazioni della squadra sono spesso bersaglio di commenti di questo tipo.

E nella vita “reale”? Quella dei palazzetti dello sport?

Nei nostri palazzetti le partite sono seguite da un pubblico misto, c’è la tifoseria da “curva”, ma ci sono anche famiglie con bambini. Purtroppo, mi è capitato di sentire che qualcuno non vuole portare i propri figli a vedere le partite perché sugli spalti si respira violenza, un po’ come nel calcio. Cosa che, al contrario, in uno sport come la pallavolo non succede. Ed è un peccato, perché in realtà il basket è uno sport divertente e molto adatto alle famiglie. A Cantù, ad esempio, c’è sempre grande spettacolo, le coreografie sono molto coinvolgenti. Io invito davvero tutti a provare a venire a vedere una partita.

Perché consiglieresti a un ragazzino o una ragazzina di avvicinarsi al basket?

Prima di tutto perché ti insegna a stare in gruppo e a rispettare i valori della squadra, accettando il tuo ruolo e mettendoti a disposizione del gruppo. E poi perché è uno sport super dinamico, dove può cambiare tutto in un attimo, un po’ come nella vita. Può capitare di essere sotto di tanti punti e tornare in vantaggio nel giro di pochi minuti.

Il basket ti insegna a non darti mai per vinto.

Per chiudere, ti chiediamo di raccontarci una curiosità. Lo scorso anno, con la maglia di Piacenza, hai fatto segnare un record storico: sei stato il primo italiano a segnare 46 punti con 13 triple in una sola partita. Com’è nata questa impresa?

Venivo da un periodo di forma ottima e realizzavo tanto. Ma non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dei miei compagni di squadra, che mi hanno messo nelle condizioni di esprimermi al meglio. Giocavamo contro Orzinuovi e dopo tre quarti avevo già segnato 9 canestri da 3. Così, per curiosità, ho chiesto al team manager quale fosse il record in Italia e lui, dopo una breve ricerca, mi disse: 12. Eravamo già sopra di 20 punti, la partita era nelle nostre mani, e così ci siamo concentrati tutti su quel mio obiettivo. Anche i compagni di squadra più individualisti si sono messi a mia disposizione e mi hanno passato la palla ogni volta che potevano, fino a quando, allo scadere, sono riuscito a segnare la tredicesima tripla. Una grande emozione personale, resa possibile da un lavoro di gruppo. 

Vittoria Di Dato: la marcia e la felicità della fatica

La marcia è uno sport di grande tecnica. Uno sport che richiede tenuta mentale, allineamento tra l’obiettivo e la capacità di sostenere la fatica, metro dopo metro, con l’asfalto o il tartan che scorrono sotto i piedi. Vittoria Di Dato ha vent’anni compiuti da poco, ha abbracciato l’atletica che era una bambina e ha conosciuto la marcia dopo alcuni anni, nel 2017. Da allora, non solo non l’ha più abbandonata, ma ha scalato metro dopo metro le classifiche e i sogni, fino a divenire una delle giovani promesse azzurre che guardano al futuro.

di Ilaria Leccardi

Vittoria, come inizia la tua storia con la marcia?

Ho cominciato a praticare l’atletica in quarta elementare, undici anni fa. Inizialmente mi sono dedicata alla corsa ma poi, passata alla categoria cadetti, seguendo l’esempio di una ragazza che si allenava con me e marciava, ho provato anche io questa disciplina. Mi è subito piaciuta ed evidentemente ero portata. Dopo aver esordito con la marcia nella Polisportiva Colverde, mi sono spostata a Cantù, dove mi sono allenata per tanti anni con Vittorio Zeni, uno dei maestri della marcia azzurra, che aveva già cresciuto importanti talenti e che purtroppo è mancato lo scorso anno.

Un grande dolore per una figura che segnato positivamente il tuo percorso, proiettandoti nella marcia di altissimo livello.  

Sicuramente sì. Tant’è che dopo la sua scomparsa ho iniziato a essere seguita direttamente da Alessandro Gandellini, ex marciatore, azzurro alle Olimpiadi di Sydney e Atene, e attuale responsabile tecnico del settore marcia della Federazione italiana di atletica.

Sei già stata due volte campionessa italiana outdoor nella 10 km, nella categoria allieve (nel 2020) e junior (nel 2021). Quali sono state invece le tue prime esperienze internazionali in azzurro?

Agli Europei di Tallin nel luglio 2021 ho vestito per la prima volta la maglia della nazionale per la gara dei 10 km di marcia. Ero nel mio primo anno nella categoria Under20, la gara non è andata come speravo, ma l’emozione è stata enorme, anche perché mi confrontavo con atlete di tutta Europa e sentivo finalmente di essere entrata nel vivo della disciplina. Nel 2022 ho disputato la Coppa del Mondo a Muscat, in Oman, arrivando decima su strada nella 10 km, e i Campionati Mondiali Under20 a Cali, in Colombia. Infine, quest’anno, con il passaggio alla categoria Under23, ho disputato gli Europei in Finlandia, dove ho chiuso undicesima, ma gareggiando assieme a ragazze del 2002 e 2001. Ho fatto segnare il mio secondo tempo e lo ritengo un grande risultato.   

La marcia è uno sport molto duro, sia dal punto di vista fisico che mentale. Come ti alleni e qual è l’equilibrio tra l’attività di alto livello e il resto della tua vita?

Ho finito il primo anno di Università, alla Cattolica di Milano, in Lingue, comunicazione, media e culture digitali. All’inizio è stato difficile trovare una routine giusta. Tra il cambiamento di allenatore e l’inizio dell’università, il mese di settembre 2022 è stato un momento delicato. Ma ora ho trovato un buon ritmo. Continuo a vivere nel paesino di Oltrona, studio a Milano e mi alleno a Sesto San Giovanni, seguita da Alessandro. I ritmi della marcia sono duri: mi alleno sei giorni a settimana, spesso anche con due sessioni al giorno, mattina e sera.

Un tuo allenamento tipo?

Gli allenamenti sono vari e differenziati. Ci sono periodi in cui principalmente marciamo, 15 km in settimana e 20 o 25 km il sabato. Durante l’inverno invece facciamo più potenziamento, anche in palestra, con esercizi a corpo libero e circuiti per alzare i battiti cardiaci. Poi ci sono i giorni in cui ci dedichiamo alle ripetute: riscaldamento, 5 km di marcia e poi ripetute su 500 o 1000 metri.

Sempre con il tuo allenatore?

Lui mi segue sempre, talvolta in presenza altre a distanza. Quando esco a marciare al mattino generalmente sono sola, al pomeriggio invece sono spesso i miei genitori a seguirmi in bicicletta. Se i risultati arrivano, sono frutto di tutti.

L’Italia è un paese della grande storia nell’atletica, in particolar modo nella marcia. C’è qualche figura a cui ti ispiri in modo particolare?

Sicuramente Antonella Palmisano, oro Olimpico a Tokyo nel 2021 nella 20 km. La seguo da sempre e poi l’ho conosciuta di persona e ho avuto l’opportunità di allenarmi con lei lo scorso aprile a Ostia, durante un raduno. È una persona molto umile, alla mano, ma al tempo stesso molto determinata. Dopo Tokyo è stata ferma un anno, senza gareggiare, per un infortunio, ma poi è riuscita a tornare e quest’anno ha conquistato il bronzo ai Mondiali di Budapest. Un esempio per tutte noi. Io non mai dovuto affrontare grandi delusioni, ma nel 2018 sono stata ferma diversi mesi per un edema osseo alla testa iliaca dell’anca. È stato un periodo difficile, immagino dunque cosa voglia dire per una campionessa olimpica non potersi esprimere in gara e affrontare il dolore come ha fatto Antonella. Ma tra i miei punti di riferimento c’è anche Valentina Trapletti, che ha disputato gli ultimi Mondiali e sarà ai Giochi di Parigi 2024, ci alleniamo insieme e la reputo un esempio sportivo.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi sportivi e cosa ti aspetti dal futuro?

Nel 2024 per me l’appuntamento più importante saranno i Giochi del Mediterraneo. Inoltre, vorrei lavorare per migliorare i miei tempi, sia nella 10 km sia nella 20 km. Ovviamente è anche l’anno olimpico, ma io a Parigi non ci sarò. Tuttavia, ho l’opportunità di confrontarmi in allenamento con azzurri di spicco, come la stessa Valentina, ma anche Sara Vitiello, Riccardo Orsoni e Stefano Chiesa… Insomma, ormai mi sento nella scia della marcia che conta e se devo guardare in là posso sperare solo di crescere e di arrivare al meglio nel prossimo quadriennio.

Il nostro progetto, Odiare non è uno sport, mira a contrastare le forme di hate speech online in ambito sportivo, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Tu che rapporto hai con i social media?

Un rapporto positivo e certo non di dipendenza. Uso Whatsapp e Instagram e non sono mai incappata in esperienze negative nel loro utilizzo. Pubblico i risultati delle mie gare, ricevo sempre e solo complimenti. Ma sono consapevole che sui social possono innescarsi dinamiche negative, soprattutto a danno dei più giovani, e bisogna stare attenti.

Qual è il principale insegnamento della marcia e perché la consiglieresti come sport a una giovane o un giovane?

La marcia è uno sport capace di insegnare molto. Sicuramente lo fa dal punto di vista educativo, perché devi essere una persona umile, letteralmente e simbolicamente con i piedi per terra. Ma anche perché ti insegna a resistere alla fatica e questo, sembra strano, può dare felicità.

Nella maggior parte dei casi dopo un allenamento, che vi assicuro è sempre faticoso, sono felice. Perché sento che mi sono migliorata, in una sfida costante, non tanto con gli altri – perché questo arriva poi nel momento della gara – ma con me stessa. Mi aiuta a conoscermi e ad andare oltre ai miei limiti.

Maria Magatti, con il rugby non ti puoi nascondere

“Il rugby è il mio elemento. È quello sport che ti permette di esprimere la parte più autentica di te, la tua vera essenza. Una volta che sei in campo e stai giocando, non ti puoi nascondere, combatti su tutti i palloni, sei davanti alla realtà e stai letteralmente dentro la fatica”. Maria Magatti è stata per anni una delle colonne della Nazionale azzurra femminile di rugby, dove conta oltre 50 presenze, e di recente è diventata la seconda italiana convocata nella squadra internazionale delle Barbarians che riunisce giocatrici provenienti da tutto il mondo, una sorta di Hall of Fame del rugby mondiale.

Ma la sua storia con la palla ovale nasce quasi per caso, grazie a un illuminato insegnante delle scuole superiori che colse nella giovane ragazza lombarda il talento che avrebbe potuto sbocciare.

di Ilaria Leccardi

Maria, ci racconti come e quando sei arrivata a giocare a rugby?

Il mio percorso è iniziato in maniera quasi casuale, anche perché quando ho iniziato, a Como, la mia città, il rugby non era uno sport conosciuto o praticato a livello femminile. Da ragazzina giocavo a basket, ma poi non sono cresciuta tanto di statura come le altre ragazze e, quando iniziai il Liceo Classico, il mio professore di motoria mi propose di provare il rugby, per partecipare ai giochi sportivi studenteschi che si sarebbero tenuti a Jesolo, al mare, per un paio di giorni. Fui attirata da questa proposta, quasi più per la trasferta… Ma una volta provato il primo allenamento mi sono sentita subito a mio agio, mi sono appassionata. E dopo due anni di progetto scolastico abbiamo fondato la prima squadra femminile della città.

E da questo sport non ti sei più staccata. Come è proseguita la tua carriera?

Dopo due anni a Como, sono andata a giocare nella squadra di Monza, in Serie A. Inizialmente era complicato dal punto di vista logistico, non avevo ancora la patente, dovevo andare a Monza in treno e poi passavano a recuperarmi i miei genitori o mio fratello. Ma nulla era un peso per me. Nel 2014 abbiamo vinto lo scudetto, l’unico della storia della squadra. Dopo alcuni anni ho iniziato a sentire la necessità di nuovi stimoli e nel 2018 mi sono trasferita a giocare al CUS Milano. Ora vivo e gioco a Treviso.

La tua storia sportiva si è giocata nei club ma anche molto nella Nazionale. Quando sei arrivata a vestire la maglia azzurra?

In realtà la prima convocazione è arrivata quando ancora non avevo una squadra, nella Nazionale Under 16. All’epoca avevo svolto solo attività scolastiche, giocando le finali nazionali studentesche a Roma. Lì erano presenti dei rappresentanti della Federazione, mi hanno notata e mi hanno convocata. Ero entrata nel rugby che contava.

E in quel rugby hai scritto pagine di storia per l’Italia, tra la partecipazione a varie edizioni del Sei Nazioni con alcune indimenticabili mete e dei Mondiali, l’ultima delle quali nel 2022 in Nuova Zelanda. 

Sì, con la maglia azzurra è stata una bellissima storia. Ora, dopo i Mondiali in Nuova Zelanda ho deciso di ritirarmi dalla Nazionale, dando priorità al lavoro. Sono insegnante di motoria ed è molto complesso conciliare gli impegni. Ho scelto di dedicarmi solo più al seven, il rugby a sette, fino a quando la scorsa estate sono incappata in un brutto infortunio, mi sono rotta la rotula. Tuttavia, ad agosto mi è arrivata una telefonata inaspettata e incredibile: mi invitavano a una tournee con la squadra delle Barbarians, per giocare due partite, in Sud Africa e in Irlanda. Arrivare nel team Barbarians è un sogno per tutte le giocatrici e i giocatori di livello internazionale. In Italia prima di me (e di Sara Barattin convocata insieme a Maria, ndr) era successo solo a una giocatrice. È una squadra che non ha luogo, ha solo uno staff dirigenziale, convoca allenatore e giocatrici da tutto il mondo e consacra il riconoscimento di una carriera importante nel nostro sport. Ricevere quella telefonata mi ha provocato un mix di panico ed emozione. Zoppicavo ancora dopo l’infortunio, avevo appena cambiato scuola e città, essendomi trasferita a Treviso quest’estate… Ma ho parlato con la dirigente, che ha capito benissimo la situazione, e ha accettato che prendessi qualche giorno di permesso per partecipare alla trasferta.

E che esperienza è stata?

Fantastica, difficile da descrivere. Dal punto di vista sportivo, ho giocato entrambe le partite in programma: la prima contro il Sud Africa allo stadio di Twickenham, la seconda contro il Munster in Irlanda. Le abbiamo vinte tutte e due e in entrambe ho segnato una meta, quindi non posso che essere felice. Ma soprattutto è stata una grande esperienza dal punto di vista umano. Con tutte le ragazze della squadra, alcune delle quali già le conoscevo altre no, si è creato immediatamente un legame speciale in pochissimo tempo. Inoltre posso dire che mi sono divertita tantissimo. Rispetto alle normali partite che ero abituata a giocare, con il club o in Nazionale, non ho sentito pressioni, ho potuto godermi il gioco, stare al cento per cento dentro lo spirito del rugby.

Come hai vissuto da ragazza la tua storia nel rugby? Hai mai subito forme di discriminazione o sguardi perplessi per la tua scelta sportiva?

Discriminazioni no, però ho avvertito spesso un’ignoranza diffusa, principalmente da parte di alcuni “anziani” del nostro sport che ancora denigrano il rugby femminile. Spesso, durante competizioni come il Sei Nazioni che mettono la nostra Nazionale un po’ più in vista, io e le mie compagne andavamo a leggere i commenti sui social e trovavamo chi scriveva che il rugby non è uno sport da femmine, che le femmine devono andare a chiudersi in cucina. C’è una parte del mondo del rugby che non ha mai visto di buon occhio il nostro sport al femminile. Ma penso sia più che altro una questione di ignoranza.

Oggi tu sei insegnante di scienze motorie. Guardando al passato, la tua storia nel rugby è nata proprio grazie a un insegnante che ti ha indirizzata sulla giusta strada sportiva. Come vivi oggi il tuo ruolo?

La mia esperienza è stata così importante e determinante per la mia vita che avevo voglia di restituire anche io qualcosa in quella direzione, a favore dei giovani.

Dell’insegnamento mi piace la parte relazionale, soprattutto con i ragazzi un po’ più grandi. Cerco di essere un sostegno, uno spunto di riflessione per loro, mi piace molto il dialogo, a partire dallo sport. Vorrei far capire loro che lavorare e dedicarsi anche con fatica a uno sport è importante, che quelle di motoria sono ore in cui si fa però anche qualcosa di bello e divertente. 

E il tuo rapporto con i social?

Ho Facebook e Instagram, ma non sono una grande fruitrice di social. Ho ancora un’impostazione da boomer. Preferisco così, condivido alcune delle mie esperienze sportive, ma non amo mettere in scena la mia vita quotidianamente online. Penso che se ne possa fare a meno.  

Emanuele Lambertini. Il ragazzo nato due volte

Nascere due volte. Ripartire da un’amputazione per tornare a sorridere alla vita, dopo un dolore continuo, capace di rovinare l’infanzia. A 24 anni Emanuele Lambertini è una delle punte della squadra azzurra di scherma paralimpica, impegnato in due delle armi previste dalla disciplina, fioretto e spada, oro Mondiale nel fioretto a squadre, campione mondiale Under23 e plurimedagliato in coppa del Mondo, nonché testimonial della Onlus Art4Sport, fondata dai genitori della campionessa Bebe Vio. Ma le sue vite sono mille, schermidore, futuro ingegnere, musicista e compositore per passione. Ora guarda a Parigi 2024 con la speranza di grandi risultati e noi lo abbiamo intervistato per scoprire la sua storia e il valore dello sport nella sua vita.

di Ilaria Leccardi

Emanuele, fai parte della squadra paralimpica di scherma azzurra, in quanto amputato alla gamba destra. La tua non è la storia di un incidente, ma di una malattia che ti ha fin da subito insegnato a confrontarti con il dolore. Ci racconti la tua esperienza?

Sono nato con rarissima malformazione vascolare alla gamba destra. Inizialmente i medici pensavano che le macchie rosse sulla pelle fossero delle semplici “voglie”. Ma quando ho compiuto un anno, quelle macchie iniziarono a ingrandirsi, ne spuntarono altre, e con loro anche ulcere e abrasioni molto dolorose. Iniziai un’odissea per cercare una cura, tra Italia, Stati Uniti e Francia. Nessuno riusciva a trovare la terapia giusta e, anzi, tante delle strade percorse erano sbagliate. Fui addirittura sottoposto a quattro cicli di chemioterapia. In Francia trovai l’ospedale specializzato in cui meglio riuscivano a seguirmi. Per tre lunghi anni ho vissuto tra la mia casa e Parigi. Fu molto difficile per me, per i miei genitori, le mie sorelle. Quella gamba, sempre gonfia, a rischio emorragie, mi stava divorando il futuro, non potevo giocare, correre, non potevo farmi la doccia in serenità. Fino a quando, nel 2007, i medici francesi mi presero da parte e mi spiegarono che la soluzione migliore era l’amputazione dell’arto e che quello era il momento migliore per procedere, visto che il mio fisico si era stabilizzato. La mia reazione fu positiva, dissi: “So com’è la vita con questa gamba, ed è terribile, voglio provare a vedere com’è senza”. Avevo otto anni.  

Com’è ricominciata la vita “senza”?

Venni amputato a Parigi e la mia vita prese una svolta colossale. Certo, il mio fisico si doveva abituare, ho affrontato alcuni mesi di riabilitazione non semplici, ma poi iniziai una vita completamente nuova, con una naturalezza che non potevo neanche immaginare. Mi sono avvicinato allo sport proprio grazie alla riabilitazione, iniziai a praticare il nuoto.

E alla scherma come sei arrivato?

Dopo un anno e mezzo di nuoto, il mio istruttore ha dovuto lasciare la piscina e io non avevo più nessuno che potesse rispondere alle mie esigenze. A Bologna mi rivolsi allo sportello del Comitato Italiano Paralimpico che indirizza giovani con disabilità ai vari centri sportivi. Qui i miei genitori vennero messi in contatto con Gianni Scotti, allora presidente regionale del Comitato Paralimpico Italiano, che propose loro di indirizzarmi alla scherma. Non sapevo nulla di questo sport, ma volevo provare. Entrai alla Zinella Scherma di San Lazzaro di Savena dove iniziai a lavorare con Magda Melandri, maestra che mi segue ancora oggi.

Negli ultimi anni la scherma paralimpica ha fatto grandi passi in termini di seguito e visibilità, anche grazie a una campionessa come Bebe Vio. Percepisci anche tu questa maggiore attenzione?

Sì, la scherma paralimpica è entrata a far parte della Federazione Scherma e questo le ha dato ulteriore visibilità. Stiamo raggiungendo importanti risultati a livello internazionale e poche settimane fa sono stato uno dei 13 componenti della squadra paralimpica (tra cui 4 schermidori, NdR) a prestare giuramento nella Polizia di Stato, un passo molto importante per tutto il movimento.

Tu hai partecipato a due Paralimpiadi, Rio 2016 e Tokyo 2020 (svolta in realtà nel 2021 a causa della pandemia da Covid). Che esperienze sono state?

Un’emozione indescrivibile, soprattutto Rio. Ho scoperto di essere qualificato nel mese di giugno, poco prima dell’inizio dei Giochi, mentre gli altri componenti della spedizione lo sapevano già da alcuni mesi. Poco prima avevamo disputato gli europei individuali e squadre, dove arrivammo secondi per poco. Ma una verifica fece emergere che il punteggio non era corretto e fummo ripescati. Cancellai gli impegni dell’estate e partii con la squadra, ero il più giovane di tutta la spedizione azzurra, con i miei 17 anni. Questo mi ha permesso di vivere l’esperienza sia con gli occhi di un adolescente, sia con occhi più adulti, per la responsabilità di vestire la maglia azzurra. Mio padre, dopo aver visto la cerimonia di apertura in televisione, non è riuscito a rimanere a casa come previsto ed è partito per Rio per venire a seguirmi dal vivo. A Tokyo è stato altrettanto bello, anche se la vita al villaggio olimpico è stata un po’ smorzata a causa del Covid. Se a Rio non avevo pretese di medaglie, a Tokyo invece ci speravo, mi ero allenato tantissimo, ma nell’individuale ho perso di un pelo, sia nella spada che nel fioretto. Ci penso ogni singolo giorno… Ora guardo con grande attesa a Parigi 2024.

La tua vita però non si ferma allo sport…

Porto avanti altre due grandi passioni. La musica, suono il pianoforte ormai da tempo, dopo aver iniziato seguendo l’esempio delle mie sorelle maggiori, e compongo brani originali che spesso diffondo e condivido sui social. E poi lo studio: sto frequentando Ingegneria dell’automazione a Bologna e il mio sogno per il futuro è aiutare altre persone che come me hanno necessità di utilizzare una protesi, uno degli sbocchi possibili del mio percorso universitario. Mi rendo conto che ogni materia che studio e ogni esame che do mi permettono di aggiungere un tassello alla mia strada in questa direzione.  

Sui tuoi profili, Instagram in particolare, racconti molto di te. Che rapporto hai con i social?

Li ritengo un importante mezzo di comunicazione, tramite cui sto cercando di divulgare la mia storia, il mio rapporto con la gamba amputata e la protesi, con le sofferenze dell’Emanuele bambino che comunque riusciva a sorridere, per cercare di raccontare come vivo la mia vita: alla leggera, ma non con leggerezza. E quindi metto nella narrazione anche un po’ di ironia.

Non ho problemi a porre me stesso, per come sono, davanti al mondo che mi circonda. E questo cerco di metterlo in pratica anche quando incontro i ragazzi delle scuole o con le aziende durante gli incontri a cui partecipo.

Hai mai vissuto episodi negative a causa dei social?

La maggior parte sono situazioni molto belle: tante persone mi scrivono per dirmi che le ho aiutate, come esempio e stimolo, spesso sono famiglie e ragazzi che stanno vivendo percorsi simili al mio. Solo in un caso anni fa sono incappato in un episodio molto spiacevole, a causa di un mio errore di ingenuità. Dopo una medaglia in Coppa del mondo a Tokyo pubblicai una fotografia in cui sorridevo e mimavo gli occhi a mandorla, non sapendo che il gesto era mal visto e ritenuto offensivo dalle persone asiatiche. Errore mio. Nel giro di poche ore sono stato sommerso da insulti e minacce molto pesanti provenienti un po’ da tutto il mondo. È stato un momento difficile e mi ha fatto capire prima di tutto che bisogna essere sempre consapevoli di quello che si fa, e io in quel caso ero stato davvero ingenuo e me ne scuso, lo feci anche pubblicamente, ma anche che i social possono essere un motore di odio molto forte, di messaggi che rimbalzano e si amplificano, spesso senza lasciare spazio al confronto o alla spiegazione.

Però sei anche quello che celebra il 25 aprile davanti ai memoriali dei partigiani e che non si risparmia quando si tratta di portare aiuti in prima persona, come nel caso delle recenti alluvioni in Emilia Romagna…

Diciamo che sono una persona molto eclettica e tutto quello che faccio lo inserisco nel mio percorso di vita come una crescita individuale e collettiva. Per questo, anche forte della mia esperienza da scout vissuta da ragazzino, appena finita una serie di gare a giugno ho deciso che sarei partito per fare la mia parte e aiutare famiglie e persone le cui case erano state sommerse dal fango. Mi sono organizzato, informandomi nei centri di dislocamento volontari, e sono partito più volte, o con persone del mio paese o da solo. È stata un’esperienza indescrivibile. Sono convinto che davanti alle difficoltà ciascuno debba dare il proprio contributo.  

Emanuele Lambertini, foto Marco Mantovani

Quello che ti aspetta è un autunno impegnativo. A breve sarai protagonista di nuovi appuntamenti di avvicinamento a Parigi 2024, ma cosa rappresenta per te lo sport nella quotidianità?

Per me lo sport è importante perché sa insegnare che cos’è la sofferenza. Detta così può sembrare strana come affermazione, ma la dice un ragazzo che fin da bambino ha dovuto confrontarsi con il dolore. Ora, da atleta, so che l’unico modo per crescere davvero è allenarmi fino a quando i muscoli mi fanno male per la fatica, spostare i miei limiti di volta in volta un po’ più in là. Gli obiettivi li raggiungi solo se sei disposto ad accettare e sopportare quel dolore e quella fatica. Se devo poi dire qualcosa in particolare della scherma… è una disciplina sportiva che ti dà delle scariche di adrenalina uniche: duelli con un avversario che spesso non conosci, devi avere un grande controllo su di te, è tecnica e strategia. In pedana ci vai da solo, ma per fortuna sai che dietro ha un grande team che ti sostiene e questo per me è fondamentale. 

Francesca D’Alonzo: dalla danza al sogno dei motori

Stringere forte le mani su un manubrio. Percorrere i primi metri nei campi, senza confini. Provare paura, ma al tempo stesso rendersi conto che si sta scrivendo il proprio futuro. Fino a pensare: “Io da qui non scendo più”. Nell’estate 2020, in pochi attimi vissuti tra l’adrenalina e l’immaginazione, Francesca D’Alonzo si innamorò della moto e decise che sarebbe stata la sua compagna di avventure in giro per il mondo. Lei, che era una ballerina e una moto non l’aveva mai guidata. Lei che oggi, proprio attraverso la moto e ai suoi seguitissimi canali social (con il nome di The Velvet Snake), porta avanti messaggi di autodeterminazione ed empowerment per le donne, sfidando stereotipi e falsi miti.

di Ilaria Leccardi

Canali social seguitissimi, in particolare Instagram e YouTube, una moto da 200 kg con cui hai attraversato il mondo, ma un passato – soprattutto sportivo – che racconta altro. Francesca, chi eri prima di diventare The Velvet Snake?

Sono stata per tanti anni una ballerina. Ho iniziato a cinque anni, la danza è stata una passione travolgente, con cui sono cresciuta, che mi ha insegnato la disciplina, il rispetto delle regole, l’armonia, l’educazione alla musica, il movimento nello spazio. Con me, grazie alla danza – prima classica, poi moderna e contemporanea – è cresciuto il mio corpo, sul mio luogo di elezione che era il palcoscenico. Per anni ho tenuto esibizioni, ho calcato teatri, ho vinto un concorso nazionale di danza dedicato alle studentesse di tutte le scuole superiori di Italia.

E poi cosa è successo?

A 19 anni, dovevo capire cosa fare concretamente del mio futuro. Io avrei voluto portare avanti la carriera, mentre i miei genitori volevano che mi laureassi. Tentai allora di entrare all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, una possibilità che mi avrebbe permesso di portare avanti danza e studio. Partecipai alle audizioni ma per soli due posti non fui ammessa. Mi iscrissi allora a Giurisprudenza per studiare da avvocata, ma non furono anni semplici. Avevo vissuto un grande smacco, avevo visto il mio sogno – anche professionale – dissolversi, ebbi un periodo di forte depressione. Per completare gli ultimi due anni della laurea quinquennale da Udine mi trasferii a Bologna e lì la mia vita cambiò, con nuove conoscenze, una nuova apertura. Nel frattempo, scalpitavo, non riuscivo a stare ferma. Presi uno zaino e viaggiai tre mesi nel Sudest asiatico. Con un’amica ideai poi un progetto contro i pregiudizi nei confronti degli stranieri, viaggiando in autostop per tutta l’Europa, fino alla Svezia. Quindici giorni bellissimi, in cui la parte più difficile fu quella iniziale affrontata in Italia, perché sentivo forti i pregiudizi della gente nei confronti di due donne che viaggiavano sole. 

Fino all’incontro con la moto. Com’è avvenuto? E cosa è scattato dentro di te?

Finito il periodo peggiore del Covid, il mio compagno Amedeo Lovisoni, che è uno storico ed era un viaggiatore in moto ancora prima di conoscermi, mi fece provare una vecchia moto. Forse si era stufato di portarmi dietro in sella… Sono salita, ho stretto il manubrio fortissimo, perché avevo paura. Iniziai ad andare, in prima, nei campi, e lì ho capito che non sarei più scesa. È stato il punto di svolta della mia vita. Il motore sotto di me e l’asfalto che correva sotto ai miei piedi… Furono un’emozione fortissima, in cui ho visto più di quello che c’era effettivamente in quel momento: una vecchia moto che andava a malapena avanti e soprattutto una donna – la sottoscritta – che non la sapeva minimamente guidare… Dopo qualche mese io e Amedeo siamo ripartiti, ancora con la sua moto, per la Turchia, fino ai confini con la Siria e l’Armenia. E alla fine di quell’estate mi sono detta: io qui voglio tornarci, ma lo voglio fare con una moto mia.

Francesca d’Alonzo in Iran

In pochissimo tempo hai costruito un percorso che si è trasformato in un sogno professionale. Quali sono state le tappe?

All’epoca non avevo neanche ancora la patente, stavo ancora prendendo lezioni di guida! Ma ero molto decisa. Mi sono documentata, ho letto molto e ho iniziato a chiedermi perché le donne fossero così poco rappresentate in questo settore. Benché ci fossero tante amanti delle moto, sulle riviste, nei giornali e nei siti specializzati, erano molto poco visibili. Allora ho scritto un progetto, che teneva insieme la moto guidata da una donna e i viaggi, e ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi a realizzarlo, trovandolo in Yamaha Motor Italia. Ricordo quando andai a ritirare la moto alla fine del maggio 2021… Peccato che appena una settimana dopo sia caduta e, avendo imparato a guidare ma non ancora a cadere, rimasi incastrata con un piede e fui costretta a rimanere ferma per un po’. I primi tempi è stata dura. Il punto di svolta è stato quando ho iniziato a ridere dei miei errori, imparando dagli stessi. È una lezione che sicuramente ho mutuato dallo sport, dalla mia carriera nella danza. E allora ho cominciato a raccontare il mio percorso di crescita, rivendicando anche il diritto a non essere perfetta. L’ho fatto sui social, dove all’inizio ero un po’ naif, ma poi ho visto quanto questo modo di raccontare piaceva ed era umano.

I tuoi primi viaggi dove ti hanno portata?

Nell’estate 2021 ho compiuto un percorso di 11mila chilometri dall’Italia alla Georgia andata e ritorno. L’anno seguente ho affrontato il mio primo rally, la Gibraltar Race 2022, due settimane tra Riga e Praga, un percorso ad anello di dodici tappe. Poche settimane dopo sono partita per un lunghissimo viaggio con Amedeo dal Friuli fino in India, per un totale di 17mila chilometri. Quest’anno invece sono stata per la prima volta in moto in Africa, ancora grazie alla Gibraltar Race, per un difficile rally in Marocco. Sei giorni durissimi in cui ho vissuto anche un episodio di disidratazione, perché alla mia terza giornata di gara, in mattinata avevo già finito le scorte di due litri e mezzo d’acqua che pensavo mi sarebbero durate per tutto il giorno. Sono ambienti per cui ci vuole una grande preparazione, mentale e fisica.

E dalla danza alla moto la preparazione fisica non è proprio la stessa…

Sì, anche perché la mia moto pesa quattro volte me. Da quest’anno ho iniziato degli allenamenti specifici, anche di pesistica, per costruirmi una buona massa muscolare. La mia base è quella di una danzatrice, quindi un muscolo reattivo ma esile. Ma sto “rimediando”, con grande dedizione, anche per continuare ad affrontare il mondo delle gare in cui mi ha introdotta Yamaha.

Uno degli ultimi video del canale YouTube su cui Francesca D’Alonzo racconta i suoi viaggi

Alternare gare in contesti estremi a viaggi molto lunghi in località remote. Qual è il messaggio che porti con te?

Sicuramente un messaggio di empowerment femminile, contro gli stereotipi di genere e i pregiudizi, di cui il mondo delle moto e dei motori è ancora molto intriso, dando voce alle donne impegnate nel motorsport. E poi trovo molto importante l’incontro con quei luoghi e quelle popolazioni con cui entro in contatto. I viaggi che compio con Amedeo ci portano ad attraversare luoghi poco conosciuti dagli occhi occidentali, aree in cui la religione e la cultura si prestano a facili generalizzazioni. Quello che invece amo, e penso sia importante da fare, è raccontare la complessità, anche per quel che riguarda la condizione della donna.

A meno di un anno di mezzo dall’apertura, il tuo canale YouTube conta oltre 12.000 iscritti e 700mila visualizzazioni. A questi si aggiungono 178mila follower su Instagram e diverse migliaia su Facebook. Cosa sono i social per te? Ti hanno mai creato dei problemi? 

Quando ho scritto per la prima volta a Yamaha avevo un migliaio di follower su Instagram, non di più. Sono stati i miei viaggi a portarmi seguito e a mettermi in contatto con tante persone. Le avventure in Asia, raccontate grazie ai video girati con le nostre fotocamere GoPro, ma soprattutto i rally, che mi hanno resa un personaggio pubblico, capace di affrontare gare difficili, nonostante la mia giovane esperienza. I social sono senza dubbio uno strumento bellissimo, con tante potenzialità. Ma purtroppo – soprattutto in quanto donna – io sono spesso vittima di attacchi gratuiti ad opera di veri e propri haters. L’8 marzo di quest’anno ho deciso di pubblicare su Instagram una carrellata di commenti e attacchi che mi sono stati rivolti, alcuni dei quali molto pesanti. Commenti che mai sarebbero stati indirizzati a un uomo, anche perché il contesto in cui mi muovo è ancora pesantemente intriso di sessismo.

Viva le belle storie / che ci infondono coraggio / ad essere delle combattenti /ogni giorno / e ad essere indulgenti con noi stesse / quando siamo troppo stanche per farlo. / Le moto non conoscono genere / riconoscono solo chi le ama / e chi se ne prende cura. / E allora perché quando una ragazza condivide la propria passione riceve questi commenti?

Dal Canale instagram “The velvet snake” – 8 marzo 2023

Se dovessi guardare indietro, al tuo passato da danzatrice, e al tuo presente, ora che guidi una moto in fuoristrada, quali sono le assonanze, le emozioni che risuonano?

Penso che forse i sogni che non si realizzano continuano a bruciarci dentro per anni, sono destinati a cambiare forma e possano trasformarsi in altro per rimanere vivi. È come se in qualche modo la danza non avessi mai smesso di viverla, anche sulla moto, nello specifico nel fuoristrada, dove i terreni accidentati e i continui ostacoli richiedono una guida sempre molto attiva, una interpretazione. E poi una parte importante la giocano anche i paesi che ho attraversato in moto e che attraverserò ancora, contesti in cui la condizione della donna è molto marginale. Quando passo con la mia moto desto curiosità e stupore, vedo uno sguardo particolare che molto mi ricorda quello che si soffermava sui miei passi in palcoscenico, quando raccontavo storie in movimento. Ricordo ancora quando nel 2021 raggiunsi il teatro di Aspendos, in Turchia, uno dei teatri meglio conservati dell’antichità, magnifico e imponente. Una ciabatta sì e una no, improvvisai un passo di danza, per poi tornare a indossare il casco e riprendere strade nuove e inesplorate. Ogni volta incrocio sguardi nuovi e stupiti, come quelli delle bambine, a cui spero con il mio passaggio di raccontare una favola nuova.

Francesca D’Alonzo improvvisa un passo di danza al teatro di Aspendos, in Turchia

Quindi lo sguardo va soprattutto al futuro?

L’emozione più grande è quando ragazzine e bambine mi incontrano e mi chiedono se possono salire sulla moto. Io le vedo come mi guardano con gli occhi sgranati e mi rendo conto dell’importanza di ciò che sto facendo, sto raccontando una storia diversa, sta offrendo un modello positivo, sto dicendo che sì, è possibile. Anche per loro.  

Per seguire Francesca D’Alonzo sui social:

IG: The Velvet Snake / FB: The Velvet Snake / YouTube: Francesca D’Alonzo

Gaia Tortolina

“Quando ho dato vita al mio nuovo team l’obiettivo è stato fin da subito creare una squadra con dei valori. Scegliere le componenti prima come persone che come atlete, insegnare loro che esiste un ciclismo internazionale e che lo possono praticare, dando l’opportunità a tutte di farlo, anche a chi in Italia questa possibilità non l’aveva”. Gaia Tortolina ha solo 23 anni, ma le idee molto chiare. Ci parla dal Belgio, dove vive dal 2018 e dove la cultura del ciclismo offre maggiori opportunità, anche e soprattutto alle donne, che in Italia pagano ancora un notevole divario di trattamento, considerazione e visibilità rispetto ai colleghi maschi. Proprio in Belgio nell’autunno scorso ha fondato il Women Cycling Project, una squadra di ciclismo tutta al femminile. Alle ragazze dice: “Difendete sempre la vostra dignità, non fatevi trattare come macchine”.

Di Ilaria Leccardi

Gaia, partiamo dall’inizio, dal tuo avvicinamento al ciclismo che è avvenuto quando eri piccolissima…

Sono nata in un ambiente sportivo e ho iniziato a praticare sport da piccolissima. Mio papà ha giocato a calcio a livello professionistico, poi dopo la mia nascita si è dato al triathlon, coinvolgendo anche mia mamma in questo sport di tenacia e fatica. Li ho sempre visti uscire in allenamento, per me era entusiasmante, era normale volerli emulare. Poi un giorno un amico di mio padre che gestiva una squadra di ciclismo di bambini della zona, la Cicli Tortonese, gli chiese se volevo unirmi a loro. Non avevo ancora l’età per gareggiare, mi allenavo con i maschietti. Non avevo neanche la bici da corsa, ma una piccola mountain bike rosa… È iniziato tutto così, quasi per gioco. E anche se c’erano sport in cui eccellevo più che nel ciclismo, le due ruote sono sempre state il mio amore più grande.

Quando ti sei accorta che non era più un gioco e si iniziava a fare sul serio?

È stato attorno ai 14/15 anni, quando sono approdata alla categoria Juniores, in cui ormai si gareggia a buoni livelli, appena prima del professionismo. Sono sempre stato molto costante. E pur non essendo mai stata un talento eccelso, riuscivo sempre a piazzarmi tra le migliori, una gara dopo l’altra. Sono stata presa in un team di Milano di sole donne. Mi allenavo per lo più da sola, seguita a distanza, e poi mi vedevo con le compagne e il team in occasione delle gare e per dei periodi intensivi di allenamento. Facevamo base in un appartamento dove noi ragazze dormivamo e poi di giorno uscivamo in strada tutte insieme. Il ciclismo – soprattutto su strada – è uno sport particolare, dove l’allenamento non può mai riprodurre pienamente ciò che avviene in gara. Da una parte perché durante la preparazione sei sola, mentre in gara si corre in gruppo ed è quest’ultimo che determina la velocità, nel confronto con le altre partecipanti. Dall’altra perché incidono molti fattori, dal tempo atmosferico alla possibilità di forare o di incappare in una caduta.

Quando è avvenuto il passaggio al professionismo?

Nel 2016, avevo 18 anni. Ho avuto una proposta da una squadra di Asti, di cui sono entrata a fare parte, ma purtroppo non è stata un’esperienza positiva. Volevo crescere, trovare le mie opportunità. Una compagna di squadra belga mi disse: “Vieni da noi, là ci sono tante gare, avrai l’occasione di metterti in mostra”. La mia idea era partire, fare un po’ di esperienza, qualche gara, prendere il ritmo per la stagione e rientrare. E invece… sono ancora qua!

Cos’hai trovato di diverso rispetto al contesto italiano?

In Belgio c’è una grande attenzione all’atleta e una passione verso tutti e tutte coloro che fanno parte del mondo del ciclismo. Sono abituati a vedere ciclisti che arrivano da tutte le parti del mondo per correre da soli ed emergere. Io sono arrivata letteralmente da sola e senza niente: in macchina, con la mia bici e il mio materiale per correre. Eppure nel giro di poco tempo sono riuscita ad affermarmi. Nel mio primo anno, ancora con i colori della squadra italiana, ho preso parte a 30 gare, conquistato un podio e diversi piazzamenti importanti. E così ho trovato almeno due squadre che mi volevano con loro. Nell’anno 2018 sono entrata a far parte del team Equano – Wase Zon. Mi sono trovata molto bene, ho partecipato a 120 gare in due anni, tantissime rispetto a quanto ero abituata in Italia.

Le cicliste del Women Cycling Project

Ed è arrivata anche la prima vittoria da professionista. Che emozione è stata e quali gli elementi che ti hanno consentito di conquistarla?

Un’emozione enorme. Dopo tanti podi, nel settembre del 2019 ho conquistato quella vittoria a Wenduine. La cercavo da tempo, sapevo di avere le potenzialità, ma evidentemente non credevo abbastanza nelle mie capacità. Quel traguardo mi sembrava vicino, ma pensare a una vittoria era una cosa troppo grande. L’aspetto mentale ha giocato tantissimo su di me. Tant’è che dal 2019 ho iniziato a farmi seguire da una mental coach. Abbiamo portato avanti un lavoro importante che ho dovuto metabolizzare e che mi ha permesso di accrescere la mia autostima, arrivare concretamente a credere in me stessa. In quello stesso anno ho conseguito la prima laurea in psicologia, la triennale in Scienze e tecniche psicologiche. Poi è arrivato il Covid e a inizio marzo si è bloccato tutto.

Come hai fatto a ripartire e com’è maturata l’idea di dar vita a una squadra tutta tua?

Purtroppo la pandemia ha reso tutto difficile e per il team di cui facevo parte non è stato più possibile andare avanti, per l’assenza di sponsor. Avevo due scelte: o cercarmi un’altra squadra in Belgio, oppure provare a crearmi qualcosa di mio… Mi sembrava una sfida molto grande, ma su consiglio e su spinta del mio ragazzo che vive nel mondo del ciclismo da anni, ho deciso di provarmi. Così, nell’ottobre 2020, è nato il nostro team, il Women Cyciling Project.

Chi ne fa parte e quali sono stati i passaggi per dar vita a questa nuova realtà?

Abbiamo optato per una squadra giovane, con ragazze di età massima 19/20 anni, oltre a tre cicliste più esperte. Siamo un team internazionale composto da sette italiane, tra cui ovviamente ci sono anch’io, e quattro straniere. Non è stato semplice, perché abbiamo dovuto muoverci per trovare gli sponsor, per coprire le spese principali, in primo luogo l’abbigliamento delle ragazze, caschi, scarpe, indumenti per le varie condizioni atmosferiche… Poi le macchine e i furgoni per spostarci, non abbiamo ancora tutto, ma poco per volta stiamo crescendo. I nostri sponsor principali sono italiani, biciclette Finotti e Molino Filippini. Abbiamo già preso parte alle prime gare in Italia e le nostre junior hanno partecipato a una tappa della Coppa del Mondo. La sede ufficiale della squadra è in Italia, ad Alessandria, ma la staff tecnico è belga.

Tu ripeti spesso che dietro a questo progetto ci sono prima di tutto dei valori. Perché?

Io penso che lo sport, anche quello di alto livello, possa essere veicolo per portare avanti valori e cause importanti. Certo, nell’agonismo sono i risultati che parlano, ma non concepisco uno sport “vuoto” di valori, come purtroppo spesso mi accede di vedere, soprattutto in figure che hanno un’alta visibilità mediatica.

Che i giovani e le giovani diventino campioni o no, per tutti lo sport deve poter veicolare messaggi di giustizia, autostima ed emancipazione. Soprattutto per noi donne.

Quanto è importante la dimensione psicologica?

Moltissimo. Lo vedo anche tra le mie ragazze della squadra. I problemi più grandi non sono negli allenamenti, ma negli ostacoli interiori che si trovano ad affrontare. Le insicurezze. Nel ciclismo gli allenamenti sono tutti abbastanza simili uno all’altro, se ti alleni a un certo livello vuol dire che ormai hai superato determinati step a livello di performance. Ciò che invece cambia è la l’approccio mentale. L’ho vissuto anch’io sulla mia pelle. Quando ho iniziato a godermi lo sport al cento per cento, fuori dalle gabbie mentali, tutto è cambiato.

Perché per una ragazza è ancora difficile vivere il mondo del ciclismo, soprattutto in Italia?

Perché purtroppo viviamo di retaggi assurdi. Nei confronti delle atlete c’è una dose alta di body shaming, attacchi e giudizi sulla loro forma fisica. In Italia è un atteggiamento molto frequente, che invalida molto le atlete. Ti dicono che se non pesi 45 kg non puoi essere una ciclista e questo è terribile. Le ragazze finiscono per preoccuparsi del proprio corpo, più che di come si sentono interiormente. Anche questi sono abusi psicologici… L’ambiente ciclistico in Belgio è diverso da questo punto di vista.

Quale consiglio daresti a una ragazza che si trova a subire un giudizio del genere?

Sono convinta che siamo noi donne a dover evolvere e cambiare il sistema. È una nostra sfida. Quello che dico è che non bisogna rimanere vittime, è necessario uscire da questo schema. Il rischio è di perdere il posto o la visibilità in squadra? È vero, ma meglio che perdere la dignità. Tante volte ho sentito dire alle giovani cicliste che non vogliono essere trattate come macchine. Perfetto, allora dove cercare di comportarvi come persone e lottare per la vostra dignità. Perché questo è importante nello sport, come nella vita.

Veronica Lisi

Video-intervista alla campionessa di canottaggio Veronica Lisi, 33 anni, padovana. Nel 2003 – quando ancora gareggiava nella categoria Ragazzi – ai Mondiali Junior di Atene ha colto il bronzo nel quattro di coppia. Poi una lunga pausa fino al 2018, a parte una fugace ma vincente nuova comparsata nel 2006, quando vinse il titolo italiano in Tipo Regolamentare sul doppio canoe.

Voglia di rimettersi e impegno professionale le hanno consentito di vincere di tre titoli italiani – due di Società e uno di Gran Fondo – sempre in singolo e di tornare in Nazionale dalla porta principale. Tra i temi trattati nell’intervista, lo sport come possibilità di riscatto, rottura degli stereotipi e strumento di integrazione.