Le “partite del fair play”: se in aiuto arrivano le avversarie

Il campo da gioco come luogo di condivisione. Anche se di fronte c’è una squadra avversaria, anche se il quintetto in campo è guidato dalla voglia di vincere e fare canestro. Non c’è gioia più grande di poter dire: “Quella partita la vogliamo giocare! E ti tendiamo la mano per disputarcela insieme”. Dalla Sicilia arriva una storia di amore e sport, di sorellanza e solidarietà, una di quelle storie capaci di abbattere anche le difficoltà quotidiane. Protagoniste due società di pallacanestro – la Basket Lions Leontinoi di Lentini, provincia di Siracusa, e la Sicilgesso Golfobasket di Alcamo, provincia di Trapani – con le loro formazioni femminili Under 14, che nel weekend del 2 e 3 marzo hanno disputato quella che è stata ribattezzata “la partita del Fair Play”.

di Ilaria Leccardi

Tutto nasce da un problema che sono costrette ad affrontare molte società sportive nella nostra penisola: la mancanza di impianti dove allenarsi o disputare le proprie partite di campionato. Proprio come la Basket Lions Leontinoi, fondata nel 2009 da Massimo La Rocca, una vita passata sui campi di pallacanestro prima come giocatore e poi come arbitro, oggi presidente e allenatore della società. Nonostante il grande coinvolgimento del territorio, l’alto numero di tesserati e le molte attività portate avanti a favore dei giovani e delle fasce più deboli della popolazione locale, da anni la società sconta l’impossibilità di godere nella propria città di un palazzetto idoneo alle partite. “Un vero dramma per le nostre squadre – spiega La Rocca – visto che oltre alle partite giocate in trasferta, da molti anni disputiamo anche le partite casalinghe fuori dalla nostra città, ospiti di un palazzetto di Scordia, a circa 20 chilometri da Lentini. Una situazione difficile da gestire per le famiglie e la società stessa”.

Proprio a Scordia qualche settimana fa si doveva disputare la partita di andata della squadra femminile Under 14 contro la formazione di Alcamo. Ma, una volta che le giocatrici erano già arrivate sul luogo del match, la gara è stata sospesa, a causa di un acquazzone che ha reso inagibile l’impianto. I conti erano presto fatti: vittoria a tavolino per Alcamo e tutte a casa. Ma lo sport non è sempre bianco o nero, solo risultato e classifica. Le storie si possono scrivere in modi ancora più belli.

“Di fronte alla sospensione della gara – continua La Rocca – per non perdere a tavolino avremmo dovuto corrispondere alla società ospite il rimborso dei costi di trasferta, cosa per noi impossibile. I dirigenti di Alcamo hanno capito e, oltre a rinunciare a chiederci il rimborso, ci hanno fatto una proposta straordinaria: visto che il 3 marzo sarà in programma la partita di ritorno e voi dovrete venire ad Alcamo, perché non allungare di un giorno la trasferta e disputare le due gare nel nostro palazzetto un giorno dopo l’altro?”.

La lampadina si era accesa e l’organizzazione si è messa subito in moto, coinvolgendo non solo la società sportiva ma anche le famiglie delle giocatrici. “Si trattava comunque di una trasferta di 700 km tra andata e ritorno, più la notte fuori. L’idea, dunque – prosegue La Rocca – è stata quella di immaginare un’esperienza in stile Erasmus, per cui ciascuna delle nostre ragazze è stata abbinata a una ragazza dell’altra squadra, la cui famiglia l’ha ospitata a dormire a casa propria”. La Federazione Basket ha poi messo a disposizione il pullman per la trasferta e la doppia partita è diventata un inno al fair play in campo. “Quella di Alcamo – conclude l’allenatore e presidente – è stata un’esperienza indescrivibile, due giorni di emozioni indimenticabili”.

foto post partita delle due squadre (FIP Sicilia)

“Oggi sono emozionata”, ha affermato il giorno del match la presidente FIP Sicilia Cristina Correnti. “Il campo è stato teatro di bellissime partite di Serie A e vi hanno giocato Cynthia Cooper e Lisa Leslie, grandi campionesse. Ma la partita di oggi non è da meno. Oggi è stata l’esaltazione dei principi etici dello sport. Oggi la Golfobasket e i Basket Lions Leontinoi hanno dimostrato cosa voglia dire far sport, che sul campo siamo avversari, ma la vittoria non è tutto. Se l’avversario ha bisogno, si deve tendere la mano. Con la condivisione avete vinto tutti: ha vinto la bellezza vera e unica dello sport!”

I match, che per la cronaca si sono chiusi con due vittorie per la squadra di Alcamo, hanno sollevato interesse e solidarietà da tutto il mondo sportivo e istituzionale. Prima ancora che si disputassero le partite, la notizia aveva sensibilizzato la Provincia che ha assegnato alla società una palestra di Lentini idonea a giocare le partite e quindi al momento il problema delle continue trasferte anche per i match in casa sembra risolto, nell’attesa che venga siglata una convenzione più prolungata che metta giovani giocatrici e giocatori al sicuro per i prossimi campionati.

“Vivere in continua trasferta ogni gara – conclude La Rocca – è stato difficile, anche perché non per tutti è possibile spostarsi continuamente, le trasferte hanno dei costi, la Sicilia è molto grande.

“Questo episodio ha fatto emergere un problema che riguarda tante realtà del nostro paese, soprattutto negli sport che non sono il calcio: la mancanza di impianti sportivi”.

Sport e società che però danno molto al territorio. Come la Lions Lentinoi che, grazie alla collaborazione con un istituto scolastico di Lentini la cui palestra ospita gli allenamenti, tutte le mattine offre corsi gratuiti di basket agli studenti di quattro scuole della città. Un punto di riferimento per il territorio, anche per i bambini e le famiglie che non possono permettersi di accedere a un’attività sportiva.

Il valore dello sport nasce dal basso, nella quotidianità delle palestre e nella capacità di andare oltre il sano e necessario desiderio di vittoria. A insegnarlo potrebbero bastare gli abbracci tra le giovani giocatrici della Basket Lions Leontinoi e della Golfobasket all’arrivo del pullman ad Alcamo: leali avversarie in campo, diventate amiche fuori, protagoniste di una storia che rimarrà per sempre.  

Commenti sessisti in Rai. Mimma Caligaris: “Quanta strada da fare”

Hanno fatto discutere e indignare tutta Italia le frasi sessiste pronunciate dal giornalista Rai Lorenzo Leonarduzzi, incaricato della telecronaca dei tuffi durante i Mondiali di nuoto, assieme al commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi. Frasi offensive nei confronti delle tuffatrici nella disciplina del sincronizzato, vero e proprio body shaming, commenti scurrili, andati in onda su RaiPlay2, e contro cui è stato presentato un esposto da parte di Usigrai, Ordine dei Giornalisti, CPO dell’FNSI e Associazione GiULiA Giornaliste. Ma il caso che ha fatto scalpore non è purtroppo isolato ed è da contestualizzare in quella che spesso è una narrazione sportiva ancora scorretta e degradante nei confronti delle atlete.

Ne abbiamo parlato con Mimma Caligaris, giornalista sportiva di lungo corso, oggi vicepresidente vicaria Ussi (Unione Stampa Sportiva Italiana), nella giunta esecutiva della FNSI (già presidente della Commissione Pari Opportunità dello stesso sindacato nazionale dei giornalisti), nonché componente del Gender Council della International Federation of Journalists e del Gender and Diversity Expert Group – GENDEG della European Federation of Journalists. Una delle voci più competenti in tema di linguaggio e narrazione sportiva nell’ottica della parità di genere.

di Ilaria Leccardi

“Le olandesi sono grosse. Come la nostra Vittorioso […]. Ma tanto a letto sono tutte uguali”. “Questa (la tuffatrice Harper, NdR) è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. Sono alcune delle espressioni pronunciate durante la diretta. Qual è la gravità di quanto successo ai Mondiali di nuoto? Com’è possibile nel 2023 alla TV pubblica sentire parole e commenti di quel genere nei confronti delle sportive?

La gravità è doppia. Da una parte per il fatto in sé, per il linguaggio utilizzato dal giornalista in diretta, dall’altra perché di fronte alla segnalazione – arrivata da alcuni spettatori tramite una Pec circostanziata inviata alla Rai – il telecronista ha risposto sostenendo che si trattasse solo di battute da bar, pensando di essere fuori onda. Prima di tutto, pensare di essere fuori onda è un’aggravante, e poi il commento dimostra una volta di più quanto siamo ancora indietro, perché c’è chi sostiene che le donne siano oggetti su cui raccontare barzellette, su cui parlare non per raccontare i risultati sportivi, ma per irridere e commentare le loro caratteristiche fisiche, ironizzando pesantemente sull’aspetto fisico, la corporatura, il tipo di abbigliamento.

Ci preoccupa l’approccio sessista e sminuente del ruolo delle donne, purtroppo ancora effettivo su diversi canali, emittenti, testate cartacee e online (non solo nel servizio pubblico, dove esiste comunque una policy di genere da seguire). Per fortuna – visto che il caso è stato sollevato grazie a persone che seguivano la diretta – notiamo anche una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, capace di guardare con sensibilità ai commenti, al racconto, alle parole e all’approccio narrativo dello sport.

Quanta discriminazione ancora c’è nella rappresentazione sportiva tra uomo e donna? E quali sono gli aspetti più critici di questa narrazione che spesso si sofferma su elementi che nulla hanno a che fare con la prestazione sportiva?  

Siamo a un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, i primi in cui ci sarà una effettiva parità di numeri tra uomo-donna, vicina al 50 e 50 come numero di atleti e atlete in gara. Ma c’è ancora una strada lunghissima da fare nel racconto dello sport.

Gli uomini sono citati tre volte più spesso nelle donne nell’ambito sportivo e sociale, che le atlete sono spesso associate a parole e temi come gravidanza, età, matrimonio, aspetto fisico, che per gli uomini la descrizione della corporeità è legata principalmente al concetto di resistenza. Le atlete sono indicate come “ragazze” il doppio delle volte rispetto ai colleghi maschi, spesso delle sportive nei titoli dei giornali si riporta solo il nome, senza il cognome, mentre il gossip e il modo di vestire mettono in secondo piano il risultato sportivo.

Per creare condizioni vere di parità pur nelle differenze, il linguaggio è fondamentale. Facciamo l’esempio del calcio, visto che sono iniziati da poco i Mondiali femminili. Io sono fortemente convinta che sia importante la declinazione al femminile dei ruoli in campo. Ad esempio, chi sta in porta in una squadra femminile dovrebbe essere chiamata “portiera”, che è un vocabolo esistente della lingua italiana. E chi si para dietro alla giustificazione che sia la diretta interessata a voler essere chiamata “portiere”, vuole semplicemente pulirsi la coscienza. Bisognerebbe provare a fare lo sforzo di spiegare che la definizione “portiera” è un’affermazione di identità conquistata con un lungo percorso. Usare il termine maschile significa interiorizzare che il proprio valore è inferiore a quello dell’uomo e che l’unico modo per sentirsi alla pari è utilizzare il termine maschile. A risentirne è l’autostima, con una percezione diffusa di disvalore che condiziona le scelte.

Ma il problema non riguarda solo le parole.

Anche la rappresentazione per immagini è critica. Pensate alle partite di beach volley. Nei tornei maschili le immagini si concentrano principalmente il gesto tecnico, mentre nelle partite femminili, l’inquadratura il più delle volte parte dal fondoschiena delle giocatrici. Una volta mi confrontai con un operatore il quale mi spiegò che era una richiesta esplicita, perché serve a fare più audience, come un titolo sensazionale serve a fare più clic.

Purtroppo, però il giornalismo italiano ricorda anche episodi veri e propri di body shaming, come il caso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando Il Resto del Carlino titolò “Il trio delle cicciottelle”, per raccontare la squadra di tiro con l’arco femminile.

In quel caso il direttore fu sollevato dall’incarico. E quando Lucilla Boari, una delle arciere azzurre, vinse il bronzo olimpico a Tokyo 2021, si ricordò ancora di quell’appellativo. Il body shaming purtroppo nella narrazione sportiva è fortemente presente. Altro caso eclatante, fu quello del telecronista di una tv privata campana che definì il calcio femminile come “un covo di lesbiche”. Dopo i nostri esposti, questo collega venne radiato dall’Ordine dei Giornalisti, ma comunque a questa persona si è continuato a dare spazio in altri modi.

Lucilla Boari, bronzo olimpico a Tokyo nel tiro con l’arco

A livello internazionale qual è la situazione?

Lo sport è un contesto delicato, ma si stanno facendo passi avanti anche a livello istituzionale. Come dimostra il progetto Combating Hate Speech in Sport che mira a fornire assistenza alle autorità pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea, per sviluppare strategie globali di contrasto ai discorsi d’odio nel quadro dei diritti umani.

E i social che ruolo hanno in tutto questo?

Tante volte hanno un ruolo devastante. Tornando all’episodio dei Mondiali di nuoto, ho letto commenti pubblicati da utenti sui social che fanno rabbrividire. Molte persone hanno dato ragione ai commentatori o comunque li hanno giustificati. Ho letto commenti sessisti e sminuenti delle persone ma anche della disciplina in sé, i tuffi sincronizzati. Purtroppo, è difficile ottenere una policy sui social anche a livello internazionale. Sui social media, spesso c’è la sensazione di poter dire tutto ciò che si vuole, di sentirsi giornalisti e giornaliste senza averne gli strumenti. Questo provoca un proliferare di fake news, una produzione di contenuti che non hanno basi deontologiche, che non rispettano i principi della corretta informazione. Ed è molto pericoloso.

Quanto è difficile per una sportiva in quest’ottica far sentire la propria voce, e fare valere il diritto di essere degnamente rappresentata?

Se per lo sport maschile è sistematico occupare spazio, le sportive conquistano le prime pagine solo perché hanno ottenuto un grande risultato. C’è una gerarchizzazione delle notizie che porta lo sport praticato dalle donne relegato alle varie, ai trafiletti, alle ultime pagine dei giornali. Lo scatto culturale deve venire dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, bisogna aumentare lo spazio dedicato allo sport femminile e far sì che questo spazio sia riempito di parole e di immagini giuste.

E nel caso in cui si verifichino episodi gravi di narrazione scorretta è fondamentale il rafforzamento delle reti di monitoraggio e sostegno. In Italia ormai, grazie alla stretta collaborazione tra CPO dell’FNSI, CPO dell’Ordine dei Giornalisti, Usigrai e Associazione GiULiA Giornaliste, ci sono frequenti segnalazioni, è difficile che casi di discriminazione o narrazioni tossiche passino inosservati. Perché nessuna persona deve sentirsi sola di fronte a parole d’odio.

Lo sport deve unire le persone, deve costruire fiducia, spirito di comunità, deve abbattere le barriere. Il racconto scorretto finisce per esacerbare tensioni e rivalità e favorire discriminazioni dei confronti di determinate categorie di persone, generalmente le più fragili.

E le sportive possono avere un ruolo diretto nell’affermare il proprio ruolo, anche a livello sociale? 

Su questo mi piace sempre citare il caso di Lella Lombardi, unica donna a riuscire a conquistare punti in Formula 1, ma anche capace di denunciare in conferenza stampa l’avversione dei colleghi maschi alla sua presenza nel circuito. Una posizione che Lombardi pagò, visto che poi la sua casa automobilistica assegnò la monoposto a un uomo. Eppure, lei non ha mai smesso di battersi, aiutando anche altre giovani e seguire la sua strada nell’ambito dei motori. Oggi di lei si legge qualcosa in più, anche se spesso viene descritta sottolineando il suo taglio di capelli “maschile”. Io prendo sempre ad esempio la sua storia, le sue battaglie, per dire che bisogna continuare a combattere e anche le stesse sportive devono provare a farlo. Nella storia dello sport penso che esista un prima e un dopo Lella Lombardi.

Le atlete vanno raccontate per quello che fanno in campo, in pista, per come hanno costruito la propria storia sportiva. Il mio appello è: scriviamo più storie di sport e scriviamole con le parole giuste.

Riccardo Cucchi: lo sport in voce

“Lo sport non può cambiare il mondo, ma può contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato”. Parola di Riccardo Cucchi, una delle più note voci dello sport italiano: otto Olimpiadi, sette Mondiali di Calcio, tra cui quello vinto dall’Italia in Germania nel 2006, oltre 500 partite raccontate in radiocronaca. Giornalista Rai per quasi 40 anni, nome storico di Tutto il Calcio minuto per minuto, oggi Cucchi è impegnato anche sulla tutela del diritti, grazie a una collaborazione con Amnesty Italia. Lo abbiamo intervistato per dare il via alla seconda edizione di Odiare non è uno sport, affidandoci alle sue parole e alla sua storia di grande narratore di sport, ma – oggi – anche di quotidiano fruitore di social network. 

Di Ilaria Leccardi

Un percorso giornalistico vissuto narrando lo sport con la sola voce. Com’è nata la passione per la Radio e come è riuscito a trasformarla in un lavoro?

Appartengo alla generazione dei nativi radiofonici, una definizione che mi piace usare simpaticamente in contrasto con “nativi digitali”. Era una generazione che ha potuto appassionarsi al calcio esclusivamente grazie alla radio, l’unico mezzo per sapere cosa avveniva sui campi di calcio in diretta. Sono cresciuto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e poi Claudio Ferretti. È stato inevitabile innamorarmi di quel modo di raccontare il calcio e di quelle voci che hanno scritto la storia. Fin da piccolo sognavo di fare questo mestiere e poi la passione si è ampliata quando finalmente sono riuscito a entrare allo stadio per seguire la mia squadra del cuore. Nel 1979 vinsi il concorso in Rai ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che l’azienda decise di preparare al microfono: frequentai corsi di formazione che mi consentirono di esordire in un gruppo di straordinari maestri, imparando accanto a loro, fino a riuscire a prenderne il testimone. Ho vissuto un sogno e sono stato un privilegiato. Ho messo insieme due passioni, trasformandole in lavoro.

Radio mezzo di comunicazione magico. Media che ha saputo sopravvivere al passare del tempo e ad alcuni passaggi storici epocali, l’arrivo dei social network, l’avvento della PayTv, la crisi della carta stampata. Qual è il segreto di questa longevità?

I radiocronisti di oggi usano gli stessi strumenti che usava il loro progenitore, Nicolò Carosio, il primo a raccontare il calcio in radio, negli anni Trenta. Per fare il nostro mestiere servono un microfono, un cronometro, un blocco d’appunti e un binocolo, perché non sempre è possibile avere un monitor anche oggi negli stadi. E soprattutto servono gli occhi per poter vedere. Gli occhi del radiocronista sono le telecamere che vengono usate in tv, con la differenza che la libertà di espressione del radiocronista è direttamente collegata alla sua capacità di sollevare gli occhi dal campo per vedere cosa succedere intorno. E ovviamente alla sua capacità di entrare nell’evento che sta raccontando, sempre consapevole del fatto che chi ascolta non vede.

Riccardo Cucchi, per 35 anni voce di Tutto il Calcio minuto per minuto

Quali sono gli elementi chiave per una buona radiocronaca calcistica?

In passato come oggi, prima di tutto i tempi: nel calcio è molto importante misurare le parole e metterle in rapporto con la velocità del pallone. Mai una di troppo, perché altrimenti il pallone va troppo avanti rispetto al racconto, mai una di meno, perché altrimenti si è in ritardo rispetto al movimento del pallone. E poi la cura della voce. Ai nostri tempi la Rai investiva molto nella preparazione al microfono: l’uso della respirazione, il diaframma, la dizione. Prima di andare al microfono eravamo formati anche in recitazione, basti dire che il mio maestro è stato Arnoldo Foa. Il radiocronista bravo è colui che sa raccontare ciò che vede con terzietà e partecipazione. Se si emoziona davvero e sinceramente, saprà emozionare anche chi ascolta.

È un errore pensare che la radio non abbia immagini: le immagini sono quelle che la voce del radiocronista riesce a costruire nella mente di chi ascolta. Ed è questo il segreto del suo successo ancora oggi.

Ma serve anche molta capacità di far fronte agli imprevisti

Mi è successo più volte di dover staccare gli occhi dal campo e raccontare altro, a volte cronaca nera, episodi violenti. Bisogna aver la capacità di dare notizia di tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi, ed è una delle ragioni per cui ho amato la radio fin da piccolo, la convinzione che la voce e la narrazione fossero uno strumento per aprire finestre a vantaggio di chi non poteva farlo.

Se dovesse selezionare l’episodio più emozionante tra i tantissimi che ha raccontato, quale sceglierebbe?

Ne sceglierei due. Per il calcio, sicuramente la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, in Germania. Ho potuto gridare ai microfoni “Campioni del Mondo”, un privilegio che prima di me hanno avuto soltanto due grandi: Nicolò Carosio per due volte, nel 1934 e nel 1938, ed Enrico Ameri nel 1982. E poi la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul 1988, la mia seconda edizione dei Giochi seguita come giornalista. Bordin entrò da solo nello stadio olimpico dopo una grande rimonta, una vittoria che arrivava a ottant’anni dalla drammatica vicenda di Dorando Pietri, il maratoneta italiano squalificato dopo aver dominato la gara ai Giochi del 1908, perché, stremato, fu sostenuto sul traguardo dai giudici e relegato per questo in fondo alla classifica. Ottant’anni dopo un altro italiano entrava in testa nello Stadio Olimpico e riscattava quella straordinaria storia di epicità sportiva.  

Veniamo ad oggi. Lei da sempre ha dimostrato grande attenzione al tema dei diritti e da alcuni anni presiede la giuria del Premio Sport e Diritti umani promosso da Amnesty Italia e Sport4Society. Quanto è importante valorizzare queste tematiche in relazione allo sport? 

Ho sempre ritenuto importante che lo sport sia in grado inviare messaggi e che non debba mai dimenticare i valori fondanti che ha hanno contribuito al suo sviluppo. Lo sport vive in ogni angolo del pianeta, ha un grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica, ma a volte questo potenziale e questa forza comunicativa non vengono indirizzate nella direzione giusta. Ogni protagonista dello sport, dall’atleta al narratore, deve essere consapevole dell’importanza delle proprie parole e dei propri gesti, per favorire la divulgazione di messaggi. Penso che lo sport non possa di per sé cambiare il mondo, ma possa contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato. La mia collaborazione con Amnesty nasce da questa consapevolezza. Ne avevo sempre seguito l’impegno, le battaglie e i valori, e così una volta in pensione ho pensato di poter dare un mio contributo. Sono presidente della giuria del Premio Sport e Diritti Umani da tre anni.

Chi sono i premiati di quest’anno?

Abbiamo scelto Gary Lineker, grande attaccante inglese, che ha saputo esprimere opinioni importanti a favore dei migranti, di fronte a una politica inglese molto restrittiva, rischiando di essere cacciato dalla BBC dove lavora come commentatore. Uno sportivo straordinario che in oltre 500 partite giocate, non ha mai ricevuto un cartellino giallo né rosso. E poi Natali Shaheen, calciatrice palestinese, molto coraggiosa a promuovere il calcio nel suo contesto di provenienza, dove le donne che fanno sport sono viste con grande criticità e dove forti sono gli effetti dell’occupazione israeliana. Prima è stata capitana della sua Nazionale, poi è stata la prima palestinese a venire a giocare in Europa, in particolare in Italia, in Sardegna, e anche qui sta portando avanti grandi battaglie per la promozione del calcio femminile.     

Lo sport nel corso della storia è stato protagonista e veicolo di analisi, denunce, rivendicazioni politiche e sociali. Pensiamo a Messico ‘68 ovviamente, con il pugno chiuso degli atleti Neri sul podio della 200 metri, ma anche più di recente alla protesta in ginocchio di Colin Kaepernick nel football americano, o la voce anti Trump della capitana della squadra di calcio statunitense Megan Rapinoe. Eppure, poi ci troviamo ad assistere a un Mondiale di calcio in uno dei Paesi dove meno vengono rispettati i diritti umani, come il Qatar. Vede una maggiore consapevolezza negli sportivi oggi?

La consapevolezza sta crescendo nelle ultime generazioni di calciatori. Non è facile per loro parlare, a volte sono costretti al silenzio. Pensiamo al Mondiale in Qatar, dove un giocatore della Germania voleva scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBT, ma è stato censurato dagli organizzatori. In risposta la squadra ha posato per una delle foto prepartita con la mano davanti alla bocca, uno scatto che ha fatto il giro del mondo. Quella foto denuncia la censura del mondo del calcio. Con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro Qatar 2022. I Mondiali dello sfruttamento, ho girato l’Italia per spiegare perché tenere i Mondiali in Qatar era sbagliato. Poi ci sono anche figure che non hanno paura di esporsi, pensiamo a Claudio Marchisio che si è sempre battuto per i diritti degli ultimi, anche attraverso i suoi canali social, dove ha raccolto non pochi attacchi per le sue posizioni.

Una volta terminata la carriera in Rai, lei ha deciso di rivelare quale fosse la sua squadra del cuore, la Lazio. Ha suscitato dissapori?

In realtà le principali reazioni sono state di sorpresa, perché nella mia lunga carriera tutti mi avevano attribuito altre fedi sportive, ma pochi pensavano fossi laziale. E questo mi ha fatto piacere, vuol dire che ho saputo celare la mia passione. Ed è un valore che nel mio mestiere si sta un po’ perdendo. Credo che sia ancora valida la definizione di Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà, deve essere attendibile, suscitare la fiducia dei lettori e degli ascoltatori. Su questo elemento la nostra categoria deve riflettere molto.

Che rapporto ha con i social network? I suoi profili sono molto seguiti

Sono un grande fruitore di social, mi diverto a utilizzarli, soprattutto ora che ho smesso di lavorare. Nei miei ultimi dieci anni in Rai sono stato responsabile dello sport in radio e ho dovuto occuparmi dei social, pur non avendo la formazione adatta. Questo mi ha portato a conoscere meglio il mezzo. Della televisione il filosofo Karl Popper scriveva: in sé non è né buona né cattiva, dipende da come la si usa. Penso che questo si possa ben applicare ai social che sono un grande strumento di comunicazione, ma possono diventare strumento di odio e di assalti nei confronti di chi esprime le proprie opinioni.

La sua posizione sembra molto chiara. Dal suo profilo Twitter leggiamo: “Migliaia di radiocronache e tre libri. Senza mai fare a meno di Puccini e di Wagner. Parlo di partite, non di episodi arbitrali. E di vita. Blocco i maleducati”.

Twitter mi piace molto perché consente una dinamica molto diretta con tutti. È uno strumento che mi ha permesso di raggiungere migliaia di persone anche lontane, di stringere amicizie virtuali o reali con personaggi che non avrei mai potuto incontrare. È una grande opportunità di incontro e scambio, ma purtroppo anche di odio. Succede anche a me di essere colpito da attacchi, soprattutto quando esprimo opinioni, sportive, culturali e politiche. Cerco di rispondere sempre, in alcuni casi funziona e in altri meno, quindi si deve ricorrere inevitabilmente al blocco.

Quanto si discostano i social dalla realtà?

Direi poco, li ritengo una sorta di piazza virtuale. Pensare che quello che accade sui social succeda solo lì è un errore. Sono una cartina tornasole di quello che sta succedendo attorno a noi: la società in cui viviamo è pervasa dall’odio e questo si riflette sui social. Di sicuro però i social facilitano certi tipi di attacchi perché nascondono chi li compie, fanno cadere le barriere che molti di noi utilizzano nelle relazioni interpersonali reali.

Che consiglio darebbe ai fruitori di social, anche quelli più aggressivi?

Di seguire una regola: non attaccare mai direttamente la persona, anche se non condividi le sue idee. Prima confrontati con le sue idee. Invece ciò che succede spesso è che non si apre un dibattito sul tema, ma si passa subito all’attacco personale.        

Oltre a raccontarlo, lei pratica sport?   

Ho praticato tanti sport, calcio, ciclismo, atletica leggera e continuo ancora oggi, vado in bici, in mountain bike, in palestra. Credo che la pratica dello sport sia un diritto, che dovrebbe essere sancita dalle costituzioni.

Ma soprattutto lo sport è una grande possibilità di confronto con sé stessi, sui propri limiti, le proprie capacità, è una crescita costante: conoscere noi stessi per imparare poi a confrontarci con gli altri.

Puoi seguire Riccardo Cucchi sui suoi canali social: Twitter FacebookInstagram

Sport popolare e pandemia. La fase 3 dello sport dilettantistico

Lo sport, come il resto delle attività umane, sta vivendo una fase epocale: per due mesi abbondanti, tra metà maggio e fine luglio dello scorso anno è sostanzialmente sparito, tanto a livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo.

Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che, a partire dall’ambito sportivo, mirano alla lotta contro ogni discriminazione. Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata costantemente e il sistema di aiuti messo in piedi dal governo è risultato insufficiente.
Le disuguaglianze già presenti nella nostra società sono aumentate drasticamente: chi era già in una situazione di difficoltà, ora a stento riesce a sopravvivere. La prima parte del webinar si è focalizzata su come le realtà dello sport di base si sono “reinventate”, senza però perdere di vista la propria vocazione naturale, ossia l’attività sportiva. Quando è stato possibile si è cercato di far rivivere i vuoti urbani, di dare dignità ad impianti sportivi abbandonati per poter praticare sport all’aperto.

Nel frattempo, il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità, spinto dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.

Il 4 febbraio 2021 si è svolto il primo webinar, realizzato da Sport alla Rovescia e Radio Sherwood, all’interno del progetto “Odiare non è uno sport”. Esplicito il titolo: “La fase 3 dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”

All’evento hanno partecipato alcune realtà che nel corso della campagna di contro-narrazione sono state intercettate e intervistate, grazie alle trasmissioni radiofoniche andate in onda ogni mese, ai servizi fotografici e agli storytelling video.

Sono intervenuti l’Asd Quadrato Meticcio di Padova, il St. Ambroeus FC di Milano, la polisportiva San Precario di Padova, l’Atletico No Borders di Fabriano, le Criminal Bullets – Roller Derby di Padova, i Briganti Rugby Librino di Catania e gli RFC Lions di Caserta.Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità.

Nell’ultima parte dell’incontro ci si è concentrati su come sarà la ripartenza. Tante realtà dello sport dilettantistico avranno tante difficoltà nel portare avanti tutti i progetti di contrasto all’odio e integrazione che hanno da sempre caratterizzato il loro percorso. Il fare rete tutti insieme sarà il motore sia per ricominciare con tutte le attività sociali, ma anche per creare vertenza nei confronti delle istituzioni sportive per far ripartire il mondo dello sport in una maniera diversa rispetto a prima.

Ecco un racconto dell’incontro:

Asd Intrecciante di Trento

Nata nel luglio 2018 a Trento, la Asd Intrecciante è un esempio tangibile di inclusione e dialogo interculturale. Intreccia infatti le storie di un gruppo di 30 ragazzi e ragazze provenienti da differenti realtà della città di Trento: operatori del mondo dell’accoglienza, giovani richiedenti asilo ospitati nelle residenze della città, studenti universitari, alcuni rappresentanti del mondo del calcio locale.

L’associazione nasce grazie al progetto “GOAL! Fare rete contro il razzismo”, finanziato da Fondazione Caritro. L’Asd ha così potuto partecipare al campionato amatori di calcio a 11 FIGC nelle stagioni 2018/19 e 2019/20, fino all’arrivo della pandemia. La squadra si è fatta notare per il terzo tempo, realizzato al termine di ogni partita, e per essere una dimostrazione diretta di come lo sport possa rappresentare un potente strumento di incontro e socializzazione fra giovani di differenti background e provenienze.

Per Odiare non è uno sport abbiamo chiesto alla dirigente Malika Mouj di raccontarci la storia della Asd.

Ciò che sono… lo danzo!

“Danza libera tutti”. È questo il motto dell’ Asd Club Arcella, una scuola di Padova, dedicata principalmente allo studio e all’insegnamento della danza moderna, contemporanea, classica e hip hop, che promuove i valori dell’integrazione e dell’accessibilità allo sport.

Da diversi anni Club Arcella è inserita nell’ambito territoriale della danza, grazie a varie competizioni e rassegne. Inoltre, l’associazione è attiva nell’ambito socio-educativo, sia con i centri estivi sia in diverse case famiglia.

Negli ultimi anni sono cresciute anche le attività di quartiere, come la danza di strada, i flash mob a tema, gli spettacoli nelle piazze, allo scopo – spiegano – di “comunicare con i nostri corpi ciò che ormai spesso non è più consentito far ascoltare con la voce”.

Padova Cricket Club, dalla comunità alla storia sportiva

Il Padova Cricket Club è una squadra nata nel 2004 e fondata dalla comunità srilankese radicata a Padova e in altre città del Veneto. Prima della nascita di questa realtà, il cricket veniva praticato principalmente in strada, tradizione che continua tuttora in alcuni quartieri della città.
Nel corso degli anni il Club è diventato un punto di riferimento per altre persone provenienti da sud-est asiatico e ha assunto sempre di più una dimensione internazionale, favorendo processi di integrazione individuale e di gruppo.

Assist, la lunga battaglia per i diritti delle atlete

L’Italia è un Paese per sportive? Dovrebbe essere scontato dire di sì nel 2021, ma purtroppo ancora troppo grande è il divario tra uomini e donne in tutti gli ambiti dello sport italiano. Se il numero di atleti maschi è maggiore, con una differenza che tuttavia si sta assottigliando, il gap è soprattutto nei ruoli dirigenziali e nel trattamento che alle atlete viene riservato dal mondo sportivo rispetto ai colleghi uomini. Compensi ridicoli, montepremi inferiori, assegnazione delle strutture sportive non sempre paritaria, per non parlare della narrazione che ancora oggi evidenzia la difficoltà di raccontare in modo corretto e con i termini giusti l’universo sportivo femminile.

Eppure negli ultimi decenni tanti passi sono stati compiuti. Ed è soprattutto grazie a chi si è battuta perché qualcosa cambiasse. Luisa Rizzitelli è una pallavolista (mai dire “è stata”, perché non si smette mai di essere sportive) che ha giocato come professionista per 14 anni, diventando testimone sulla propria pelle di tutte le discriminazioni che si potevano vivere sul campo e fuori. E ha deciso che non poteva rimanere in silenzio. E così, nel marzo del 2000, assieme a un gruppo di amiche e colleghe, ha fondato Assist – Associazione Nazionale Atlete, che da allora si è battuta in tutti gli ambiti e i livelli sportivi per ribaltare una situazione inaccettabile. Oggi Assist è una realtà consolidata, interpellata nei più importanti tavoli di lavoro a livello nazionale, ed è stata promotrice nelle ultime settimane di una grande novità, la Carta dei valori per lo sport femminile, approvata dal Comune di Bologna. Un documento importante, volto a dettare le linee guida fondamentali per rendere lo sport veramente paritario.

Di Ilaria Leccardi

Rizzitelli, iniziamo proprio da qui. Qual è il valore dei 14 articoli contenuti nella Carta firmata dal Comune di Bologna?

Da tempo avevamo in mente di stilare una Carta che potesse dare indicazioni pratiche alle istituzioni e alle amministrazioni, per come non diventare complici inconsapevoli di alcune discriminazioni. Abbiamo dunque pensato di mettere nero su bianco le azioni che un Comune dovrebbe mettere in pratica e gli aspetti a cui dovrebbe fare attenzione. Per me si tratta di un piccolo atto d’amore nei confronti dell’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale nessuno deve essere discriminato.

Cosa prevede la Carta sul piano pratico?

Luisa Rizzitelli

Mette in campo diversi strumenti per affermare la parità di genere e per arrivare a concretizzare il compito di trattare nella stessa maniera le Associazioni sportive che sono attive in ambito femminile rispetto a quelle che lavorano in ambito maschile. Il Comune si impegna a dotarsi di un sistema di rilevazione dati sulla partecipazione femminile alla pratica sportiva in città (Art. 5). Inoltre, si impegna a redigere bandi per la concessione di contributi e l’assegnazione d’uso di impianti sportivi, avendo cura di valutare, nell’attribuzione del punteggio, anche l’esperienza del soggetto richiedente in tema di antidiscriminazione e attenzione al genere e quindi le azioni concrete messe in pratica dalle singole realtà in questa direzione (Art. 9). Sappiamo che ancora oggi spesso le donne, nella scala di utilizzo degli impianti sportivi, sono le ultime a essere tenute in considerazione. Ne è un esempio il calcio, dove, nell’assegnazione degli stadi e dei campi, le squadre di Serie A femminili vengono messe dopo i pulcini di una qualsiasi squadra maschile… E ancora, il Comune si impegna a non concedere contributi economici o patrocini a organizzatori di eventi privati o pubblici che non abbiano pari condizioni di accesso e montepremi uguali per uomini e donne (Art. 10). Non ci siamo inventate nulla, sono principi semplici, ma concreti, per riuscire a incidere realmente su un tessuto sociale.

Tessuto che comunque si è rivelato molto ricettivo…

Sì, Bologna è una città che da questo punto di vista è molto sensibile. È una delle città dove Assist ha più socie e la cui amministrazione si è rivelata molto interessata e pronta a lavorare con noi. Devo ringraziare per questo l’assessora Susanna Zaccaria [con deleghe a Educazione, Scuola, Pari opportunità e differenze di genere, ndr] e l’assessore allo Sport Matteo Lepore. Abbiamo trovato da subito grande disponibilità e intuizione. L’amministrazione ha individuato nella Carta uno strumento importante da condividere con tutte le Asd della Città Metropolitana.

Ci sono altri Comuni pronti a recepirla sul territorio?

Abbiamo avuto interessamenti dalla città di Trento e da alcune città della Calabria. Stiamo cercando di promuoverla a Roma, a Milano, Torino. Speriamo che siano in tanti ad aderire.

Ma in generale, quanto è ancora discriminante verso le donne il mondo dello sport?

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Purtroppo molto, a livello micro e ai livelli più alti. E questo anche perché è un mondo ancora quasi completamente gestito e diretto da uomini, oltretutto uomini di una certa età. Il ricambio giovanile e di genere nello sport non è ancora avvenuto. Anche se nella vita quotidiana sportiva tra atleti e atlete non si percepisce molta differenza di genere, nella gestione dei fondi e degli spazi, emerge ancora una cultura fortemente patriarcale che penalizza le donne. Ci sono ancora divari di investimenti, differenze di premi, borse di studio, montepremi. Noi da anni ci battiamo affinché i podi di una disciplina in ambito maschile e femminile vengano trattati nella stessa maniera.

Per quel che riguarda la pratica sportiva, i problemi sono differenti?

Diciamo che, se tra atleti e atlete le differenze si sentono poco, tuttavia ci sono ancora alcune dinamiche da scardinare. Come Assist abbiamo lanciato un progetto europeo dal titolo Fair Coaching, mirato ad abbattere i comportamenti machisti e impropri che ancora ci sono nella cultura dell’allenare. Il mito che l’allenatore duro e cattivo sia bravo è una stupidaggine.

Essere autorevole non vuol dire essere autoritario, per questo bisognerebbe lavorare maggiormente per un cambio culturale importante, che metta in risalto altri aspetti al fianco della bravura tecnica, per esempio l’empatia e l’attenzione alla dimensione psicologica dell’atleta.

Per tornare al cambio di prospettiva soprattutto in ambito dirigenziale. Assist negli ultimi mesi è scesa in prima linea per sostenere la candidatura di Antonella Bellutti alla presidenza del CONI. Due volte oro olimpico nel ciclismo su pista e ma anche olimpica di bob, è la prima donna a tentare la scalata al vertice dello sport azzurro. Cosa rappresenta questo percorso?

La candidatura di Antonella Bellutti si sta rivelando un percorso entusiasmante. Lei è una persona coraggiosa, che non ha nessuna resistenza o preoccupazione nel dire ciò che pensa. E la sua proposta va nella stessa direzione in cui da ventuno anni Assist lavora. Per noi è straordinario vedere che una donna del suo calibro, Commendatrice della Repubblica, stimata in tutto il mondo per il suo valore, porta avanti da candidata presidente del CONI tutti quei temi su cui noi come Associazione atlete abbiamo puntato da anni in assoluta solitudine. Abbiamo dovuto combattere, per tanto tempo nessuno ci ha dato credito, abbiamo affrontato l’ostruzionismo, siamo state ridicolizzate. E vedere che oggi i nostri temi sono gli stessi del programma della candidata alla presidenza del CONI è importante.

Tuttavia, alle elezioni in programma il prossimo 13 maggio, non sarà semplice vedersela con il presidente uscente Giovanni Malagò. Quali sono i riscontri che avete rilevato per ora?

Abbiamo ricevuto tantissimi contatti da responsabili di Asd, tecnici, atleti, che chiedono di partecipare al percorso che Antonella sta conducendo. Diciamo che la partecipazione è fortissima. Io credo tuttavia che i grandi elettori (74 in tutto, tra cui 44 presidenti federali tutti uomini! ndr), non saranno chiamati a fare una scelta tra due persone, Bellutti e Malagò, tra le quali c’è una grande stima reciproca, ma tra due modi diversi di gestire lo sport italiano e immaginare il suo futuro.

L’ultimo anno è stato importante per il mondo istituzionale sportivo, principalmente per il dibattito sulla Riforma dello sport. Assist è stata anche protagonista nei lavori delle commissioni parlamentari. Una Riforma – ancora da approvare – che ha toccato vari aspetti, ma che ancora non vi soddisfa. Perché?

La nostra critica va soprattutto nella direzione del mancato riconoscimento dei diritti elementari a chi fa dello sport il proprio lavoro. La Riforma aggiunge delle tipologie di inquadramento lavorativo, autonomo, subordinato, occasionale, ma questo non cambia nulla, perché viene lasciata al datore di lavoro la decisione su come inquadrare l’atleta. È stato un timido tentativo, ma per noi del tutto insufficiente. Pensiamo invece che sia necessario partire dal fatto che il lavoro sportivo esiste, ha una sua dignità e non può subire discriminazioni. Di certo però è necessario che venga dato sostegno alle Asd nel complesso passaggio dell’emersione del lavoro professionistico. Le Associazioni sportive non possono essere lasciate sole. E a chi chiede: dove trovare i soldi? Be’, ad esempio, noi sosteniamo che si debba ridimensionare il ruolo dato ai gruppi sportivi militari, un’anomalia tutta italiana che costa allo Stato 36 milioni di euro. E troppe volte per gli sportivi e le sportive questa è l’unica possibilità per mantenersi, ma ricordiamo che non tutte e tutti debbano volere per forza vestire una divisa. Quei fondi potrebbero invece essere investiti a sostegno delle Asd, dei centri universitari sportivi, dei vivai.

Ci sono stati negli ultimi anni esempi particolarmente positivi in ambito sportivo che vanno nella direzione della parità di genere?

Per lo più iniziative individuali. L’ultima in ordine di tempo è stata la decisione della squadra di ciclismo Trek Segafredo che ha introdotto il minimo salariale per le donne, pari a quello degli uomini. La FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) ha compiuto un grande lavoro per eguagliare i montepremi delle gare di donne e uomini. Da anni possiamo inoltre testimoniare che la Lega Volley Femminile sta cercando di strutturare al meglio possibile le questioni riguardanti i diritti delle atlete. Ma il caso di Carli Lloyd, palleggiatrice della Vbc Casalmaggiore, costretta a rescindere il contratto dopo aver scoperto di essere incinta, ci riporta alla triste realtà. Ci sono contesti sportivi e realtà dove si tenta fare qualche passo in più, ma se questo viene affidato solo a chi rappresenta i datori di lavoro, ossia le società sportive, è ovvio che verrà fatto il loro interesse. Per quel che riguarda nello specifico il diritto a diventare madri, lo Stato ha creato un fondo maternità per le sportive. Una novità positiva, ma si tratta comunque di un palliativo.

Altro aspetto molto delicato in ambito sportivo sono gli episodi di discriminazioni e abusi. Assist come si è mossa in questi anni?

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Abbiamo lanciato campagne contro il linguaggio sessista e lesbofobico, ancora molto diffuso purtroppo. Siamo state inserite nel tavolo antidiscriminazioni dell’Unar, con la stessa dignità delle Federazioni nazionali, e questo ci fa grande onore. E poi, come ultima iniziativa, volta in particolare a contrastare il fenomeno degli abusi e delle molestie, abbiamo lanciato SAVE, acronimo di Sport Abuse and Violence Elimination. Si tratta di un servizio nato in collaborazione con la ong Differenza Donna, da anni attiva nel contrasto alla violenza di genere e gestore del numero verde antiviolenza 1522 del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, con cui conduciamo una campagna di sensibilizzazione e forniamo supporto concreto alle ragazze e alle donne che potrebbero essere vittime di abusi. A partire da questa esperienza, la Regione Lazio ha voluto lanciare una campagna contro gli abusi e le molestie nello sport che prenderà via a marzo 2021, toccando Asd e scuole.

A ventuno anni ormai dalla nascita di Assist, se si guarda indietro cosa vede?

Vedo ancora ciò che mi ha spinto a fondare questa realtà, l’amore infinito che ho per lo sport e per la giustizia. Io sono stata un’atleta professionista nella pallavolo, ho vissuto le stesse cose per cui combatto adesso. Ho dato il via a questa realtà con un gruppo di amiche meravigliose con cui lavoro ancora, a cui poi si sono unite lungo la strada molte altre persone. Vedo ancora discriminazioni in un mondo che amo immensamente. E continuerò a battermi, perché ricordo le lacrime mie e delle mie compagne, quando quelle discriminazioni le subivamo, quando venivamo vendute con il nostro cartellino, come se fossimo al mercato delle vacche. E vorrei un mondo diverso per le ragazze di domani.

Criminal Bullets – Roller Derby Padova

Il roller derby è uno sport di contatto sui pattini a rotelle (quad) in cui due squadre si affrontano su una pista ellittica (track) in una gara di velocità, tecnica e strategia. Nasce come sport prevalentemente femminile ed è regolato dalla WFTDA (Women’s Flat Track Derby Association). Ad oggi, è uno degli sport con crescita più veloce a livello mondiale.

Il roller derby nasce e cresce anche come sport autogestito, autofinanziato e fatto da skaters per skaters. Qui non si conoscono gerarchie, ma soprattutto è l’unico sport dove si può giocare con una squadra femminile, “all genders” o maschile in base al genere cui ci si sente di appartenere e a prescindere dal sesso biologico. Per questa ragione il roller derby promuove per statuto valori come l’inclusione, l’antirazzismo e l’antisessismo e possono partecipare tutte le persone a prescindere da età, corporatura e prestanza fisica.  

Le Criminal Bullets sono la squadra di roller derby che dal 2016 promuove a Padova i valori di questo sport. «Per noi lottare contro il sessismo nello sport è dare l’opportunità a tutt* di praticare un’attività in cui sviluppare coraggio, forza, condivisione e autodeterminazione. Lo sport per noi è uno spazio di libertà, dove poter sovvertire le regole patriarcali dominanti nella società. Un rifugio in cui essere noi stess*, ma anche una palestra dove imparare a portare fuori nuovi modi di agire e pensare. Viviamo ogni giorno lo sport come opportunità di autodeterminazione».

I Maratonabili

Tanti cuori e una spinta, per correre insieme verso il traguardo

Correre e sentire il vento sul viso. Consumare chilometri di asfalto, con il caldo del sole o l’odore della pioggia. E poi i colori, i sorrisi, la fatica allegra, le urla di gioia, gli abbracci. Il traguardo. E non importa se non lo si fa con le proprie gambe, perché la corsa, la maratona – lo sport solitario per eccellenza, dove il corpo deve vedersela prima di tutto con la testa – può trasformarsi in un’esperienza collettiva. Un’esperienza di solidarietà e di inclusione, che diventa accessibile anche a chi non ha la possibilità di correre in autonomia. Ed è possibile grazie ai Maratonabili, una realtà nata da un’idea semplice, ma al tempo stesso geniale. Chi corre con le proprie gambe può essere anche la spinta per chi non ha la possibilità di farlo in autonomia.

Di Ilaria Leccardi

I Maratonabili non si muovono mai in silenzio. Ma lo fanno accompagnandosi da cori, canti, parrucche colorate, con l’urlo di battaglia “Uacca uacca” e quell’allegra fatica che solo lo sport ti permette di vivere. La Onlus nasce nel 2009, grazie a Franco Zomer, osteopata e ultramaratoneta toscano, che assieme a un gruppo di amici si lasciò ispirare dalle imprese di Dick e Rick Hoyt, padre e figlio statunitensi che hanno completato in coppia oltre mille competizioni sportive tra maratone, gare di triathlon e duathlon. Rick era disabile a causa di una paralisi cerebrale infantile e Dick – che prima di iniziare quest’avventura non aveva mai corso in vita sua e ora ha più di 80 anni – lo ha spinto sulla sedia a rotelle durante le gare di corsa o trasportato su una bicicletta o un canotto speciali durante le altre prove. E insieme sono diventati un’icona dello sport statunitense.

Carlotta Agosta è torinese. Ama correre e ha un bimbo, Leo, conosciuto anche come “Sorriso contagioso”. Fa parte dei Maratonabili ormai da cinque anni e nelle sue parole c’è molto delle motivazioni che l’hanno spinta a unirsi a questa realtà.

“Amavo correre e li ho conosciuti durante una mezza maratona. Vedevo un gruppo di ragazzi, molto rumorosi e colorati e ho scoperto così di cosa si trattava. Ho iniziato a partecipare alle iniziative del gruppo invitata da un amico, prima spingendo altri ragazzi, in primis il mio amico Fabietto, ora con l’obiettivo – appena si potrà – di spingere anche il mio piccolo Leo. Avrebbe dovuto debuttare come Maratonabile nel 2020 in una gara a marzo, ma purtroppo a causa dell’emergenza sanitaria abbiamo dovuto rimandare. Speriamo che il 2021 sia più clemente da questo punto di vista”.

Ma cosa vuol dire correre spingendo un’altra persona sulla sedia a rotelle? E farlo per 42 km? Perché i Maratonibili nascono proprio per affrontare la maratona, anche se poi nel calendario annuale prendendo parte anche a competizioni più brevi. Prima di tutto bisogna avere gli strumenti giusti: delle sedie speciali che possono arrivare a costare fino a 4.000 euro, del cui acquisto di occupa l’Associazione. Sono ammortizzate e ottimizzate per la corsa, da una parte per essere il più possibile confortevoli per chi le utilizza, dall’altra per rendere più agevole il compito di chi invece deve spingere. Poi vuol dire correre in team, collaborando e stando sempre vicini. Un team composto dalla persona in sedia a rotelle, da una “maglia nera” – runner esperto, con tanti chilometri nelle gambe – a cui viene affidato il ragazzo e che deve iniziare la corsa ma soprattutto tagliare il traguardo spingendo la carrozzina, e almeno due “maglie bianche”, sempre runner dell’Associazione che proteggono la persona trasportata e danno il cambio alla maglia nera nella spinta durante la gara. 

“Non è semplice correre spingendo un’altra persona, anche perché – spiega Carlotta – la corsa è un movimento che coinvolge molto le braccia. E qui invece le mani e la braccia sono salde per la spinta. Ma la forza viene da dentro. E vi assicuro che non facciamo passeggiate, le nostre performance toccano circa i 6 minuti al km! Siamo persone che vivono in diverse zone d’Italia. Ovviamente in Toscana, dove l’esperienza è nata, il gruppo è molto forte, ma anche in Piemonte e in Nord Italia siamo già tanti e tante. Ognuno con la sua storia di corsa e di asfalto consumato sotto le suole. Io personalmente mi alleno alla NeXt di Torino, grazie a cui ho preparato la mia prima maratona, proprio nella mia città. Un’impresa affrontata quella volta in solitaria e dedicata a Leo.

Carlotta Agosta con il marito e il figlio Leo

La NeXt, realtà sportiva torinese di running, ha creato un vero e proprio connubio con i Maratonabili e per inizio marzo 2021 ha organizzato un evento benefico a loro favore, la 4X Virtual Marathon, una maratona virtuale a cui potranno partecipare squadre miste da 4 persone in cui ciascuno dovrà correre in autonomia, tra il 5 e il 7 marzo, una tappa da 10,5 km.

“Io sono una delle poche mamme che corre con il proprio figlio, anche se Leo deve ancora debuttare in una gara ufficiale”.

Generalmente le famiglie affidano i propri figli ai runner che li conducono per tanti chilometri di corsa. Questo significa grande fiducia, anche perché alcuni dei ragazzi hanno disabilità complesse, ma soprattutto significa consapevolezza che il proprio figlio o la propria figlia potranno vivere un’esperienza indimenticabile. 

“Una delle prime protagoniste in sedia a rotelle delle corse con i Maratonabili – continua Carlotta – è stata Margherita Mugnai, tra le fondatrici dell’Associazione. Proprio a Torino alla fine di una gara fu lei a darmi la forza di arrivare al traguardo; anche se le gambe che correvano sull’asfalto erano le mie, era Margherita a spingermi in realtà. Come scrive nel libro che racconta la sua storia, Io sono ancora qua: “Mi sento tremare le gambe come se la fatica l’avessi fatta io”.

Ma nel 2020, in cui tutto si è fermato, non è stato semplice. “Chi fa parte di questa Associazione, sia i runner che i ragazzi e le loro famiglie, è unito da un grande affetto. Siamo una vera squadra. Abbiamo cercato di condurre comunque attività a distanza, coinvolgendo i ragazzi. E quindi abbiamo inventato dei giochi, delle situazioni a cui potessero partecipare mantenendo il legame che la corsa ha creato e rafforzato. Anche perché – inutile nasconderlo – chi ha un figlio con una disabilità ha sentito molto la difficoltà della chiusura dovuta al lockdown”.

Dalla corsa sono nate tante altre opportunità, il confronto, il fatto di sentirsi meno soli con i propri problemi quotidiani.

Ci sono dei requisiti per unirsi ai Maratonabili? “Per chi vuole diventare un cosiddetto spingitore, bisogna ovviamente avere una passione per la corsa. Per diventare maglia nera – spiega ancora Carlotta – devi essere un runner esperto, nelle nostre fila ci sono diversi ultramaratoneti. Per la maglia bianca basta avere un po’ di voglia di faticare e di farsi coinvolgere in questo percorso”. La motivazione più grande? “Il sorriso dei ragazzi durante le gare, la loro felicità al traguardo. Sono impagabili”.