“Non finisce lì”. Dopo le partite, le sfide proseguono sui social

È arrivato dalla Costa d’Avorio quando aveva 19 anni, scappando dalla guerra. Ora Abdul Ouatara affianca la società di calcio Alba Borgo Roma, a Verona, nell’allenamento dei ragazzini adolescenti, insegnando loro non solo il rispetto delle regole tecniche dello sport, ma anche quello tra compagni di squadra e verso gli avversari.
“Sono arrivato in Italia sei anni fa e all’inizio vivevo a Padova, dove giocavo a calcio”, racconta. “Da tre anni sono con l’Alba come assistente allenatore. Il cellulare durante gli allenamenti si spegne, ma fuori è un’altra storia”.

di Progettomondo

Abdul allena insieme a Massimo Giarola, responsabile del settore giovanile. La percezione dei due, rispetto alle dinamiche tra avversari, è che spesso “non finisce lì”. Dopo le partite prendono talvolta il sopravvento messaggi pieni di disprezzo e intolleranza, ingiustificabili. Sempre. E ancor più quando la sfida è tra adolescenti di squadre rionali, di quartiere.

“Quando mi è capitato di essere insultato giocando ho sempre reagito cercando di dimostrare la mia bravura con il pallone”, fa presente Abdul. “Oggi però i giovani sono condizionati dai social, che li rendono ancora più consapevoli di quali siano i lati fragili da colpire in maniera voluta, tagliente, puntando direttamente a ferire la persona insultata. La connotazione razziale è il tasto più facile su cui ‘premere’, andando a cercare una differenza su cui si può fare leva per offendere e fare male, indugiando sul colore della pelle o su accento percepito come straniero”.

Abdul Ouatara e Massimo Giarola

L’invidia e la competizione Abdul e Massimo la vedono spesso, non solo tra i ragazzini, anzi, soprattutto tra gli adulti, i genitori e i parenti che li seguono.

“Percepiamo una sorta di codice occulto, per cui un ragazzo italiano, secondo la sua famiglia, dovrebbe avere più ‘diritti’ dei coetanei che hanno origini straniere”, dicono. “Ci sono elementi subdoli, battute, che fanno percepire un pensiero discriminante, non positivo, che talvolta viene poi replicato dai figli. A un bambino o ragazzino italiano ogni gesto sopra le righe viene giustificato come una ‘monellata’. Nei confronti di chi ha un background migratorio, invece, parte il processo alla cultura diversa, all’incapacità di adeguarsi al contesto, come se ogni atteggiamento infantile o adolescenziale dovesse fare i conti con il Paese di provenienza”.

Il contesto in cui si trova l’Alba è tra quelli a più alto tasso di migranti a Verona. La multiculturalità è viva, vivace. Ma nell’estremo sud della città, dove si trova appunto il quartiere Borgo Roma, l’integrazione non è ancora così scontata. “La mancanza di accettazione di chi è considerato ‘diverso’ la si vede già nei bambini, ma le problematiche sorgono solitamente verso i 13 o i 14 anni. Non sempre gli insulti e le provocazioni sono a sfondo razziale, a volte sono frutto di un approccio semplicemente scorretto verso la pratica sportiva”, fa notare Giarola.

“Abbiamo vissuto l’episodio di un nostro giocatore minacciato a seguito di un partita persa dalla squadra avversaria. Lo abbiamo visto cupo e preoccupato e ci hai poi confidato di avere ricevuto messaggi intimidatori e minacce su Instagram, per il solo fatto che aveva portato a casa la vittoria”.

“Capisco che nell’eccitazione di una partita possa scappare qualche parolaccia, qualche parola urlata con una certa enfasi”, aggiunge Abdul. “Ma i ragazzini emulano i comportamenti e il linguaggio dei grandi e talvolta il contesto dilettantistico porta a vivere situazioni persino peggiori di quelle che si vedono negli stadi, sia verso gli arbitri, che nei confronti degli avversari in campo. E i giocatori, per quanto minorenni, rispondono alle provocazioni se non sono allenati a non farlo”.

ScorciDiSara: dalla sofferenza alla condivisione via social

Una vita giovane, tanti sport provati, almeno un’esperienza molto negativa di odio vissuto e subito in palestra, che ha portato all’abbandono dell’attività sportiva, determinando disturbi alimentari. Oggi l’utilizzo dei social per raccontare, dialogare su temi delicati, offrire uno spazio di connessione e condivisione. Lei è Sara Bartolini, ha 22 anni e per Odiare non è uno sport ci ha raccontato la sua esperienza con il profilo Instagram ScorciDiSara.

di Gaia Del Bosco (COMI ong)

Sara, raccontaci qualcosa di te.

Ho 22 anni e l’obiettivo della mia vita è trovare l’armonia tra i diversi ingredienti della mia persona. Studio, esco, lavoricchio, mi alleno, ballo, animo…il tutto quanto basta.

Come nasce ScorciDiSara e perché?

È un profilo che ho aperto un paio di anni fa, parallelo al mio personale. Inizialmente l’ho immaginato per condividere scorci della mia vita, in particolare i miei allenamenti e le mie preparazioni in cucina. Volevo farlo in uno spazio dedicato, per non costringere chi mi segue sul mio profilo personale a “sorbirsi” questo tipo di contenuti. Post dopo post, e storia dopo storia, i contenuti hanno iniziato a variare dal solito “cosa mangio” o “come mi alleno” a “ho letto questo libro e volevo parlarvene”, “oggi con la mia nutrizionista abbiamo parlato di questo argomento e voglio condividerlo”, “oggi è la giornata nazionale per la sensibilizzazione ai DCA, parliamone” e così via. Sono temi importanti, su cui penso che i social possano aiutarci a sensibilizzare. Ho fatto un tentativo anche su TikTok, ma poi ho abbandonato, perché è un social più complesso, che necessita di tanta costanza nelle pubblicazioni.

Nella tua storia di giovane ragazza ti porti il peso di un’esperienza sportiva che ha segnato negativamente la tua adolescenza. Ce ne vuoi parlare?

Nei miei 22 anni ho cambiato almeno sei sport, anche perché per andare avanti bisognava eccellere, o almeno questo è quello che volevano farmi credere gli allenatori. Il caso più eclatante è stato nella pallavolo: ho iniziato a giocare in terza media, in un periodo delicato della vita di tutti, l’inizio dell’adolescenza, dove la terapia mi ha poi svelato lo stabilirsi delle radici del mio disturbo alimentare. Per i primi due anni di pallavolo, l’allenamento è stato un ambiente confortevole: compagne divertenti, allenatrice appassionata e gentile, poco agonismo e tanta spensieratezza. Poi all’improvviso tutto è cambiato… All’inizio del terzo anno (seconda superiore per me) ci venne comunicato che alcune di noi, teoricamente le più talentuose, avrebbero formato una squadra di elite per partecipare a un campionato di livello più alto. Dopo qualche mese, anche io venni chiamata a prendere parte alla nuova squadra, il che significava più allenamenti, più partite, ma soprattutto compagne e allenatori diversi. L’invito a questo “scatto di carriera” mi ha fatto sentire apprezzata e, nonostante qualche dubbio da parte dei miei genitori dato il maggiore impegno richiesto (al tempo erano loro che mi accompagnavano ad allenamenti e partite), ho accettato: la mia più grande sliding door.

Cosa è successo?

Qualcosa è andato storto… Non ero un talento nato e questo costituiva un intralcio per la missione del mio allenatore: trovare in ognuna di noi la nuova Paola Egonu. La sua ricerca disperata lo portava a usare un’arma letale, proprio quella dell’hate speech e delle punizioni fisiche in seguito agli errori. Chi ha fatto pallavolo conosce il trauma dei tuffi: lanci del corpo verso terra che sono spesso utilizzati come punizione dopo un errore in allenamento.

Quell’uomo, le sue parole e il suo trattamento mi hanno portata a odiare lui, ma soprattutto a odiare me stessa. Ho creduto che le mia capacità nella pallavolo fossero la misura del mio valore nella vita. Questo mi ha portata a una profonda auto-svalutazione e hanno creato il terreno fertile che le radici del mio disturbo alimentare andavano cercando. Ho abbandonato quella situazione appena ho realizzato quanti danni stava causando nella mia vita, le cui cicatrici oggi, quasi dieci anni dopo, sono ancora lì.

Il post pubblicato da Sara il 15 marzo in occasione della Giornata nazionale del fiocchetto lilla, dedicata ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione

L’odio ha diverse forme e, contrariamente a come spesso si pensa, può venire proprio dagli allenatori e dalle figure di riferimento. Credi che sia un problema di “persone” o di “sistema”? Cioè, è una sfortuna incontrare allenatori e allenatrici poco sensibili, o fa parte del “sistema sport”?

È un problema di persone sbagliate nel sistema sbagliato. Ritengo che chi si comporta in questo modo lo faccia per propria natura e non perché condizionato dal sistema, ma è il sistema a legittimare queste azioni. Nel nostro secolo non è una novità che rivolgersi con parole d’odio o imporre una punizione fisica agli atleti sia sbagliato, ma nel mondo dello sport è ancora giustificato dall’idea che possa essere formativo. È proprio da qui che nasce la rilevanza della vostra iniziativa, con la speranza che questi sforzi portino a una disconferma di credenze ormai superate, e alla standardizzazione di nuovi metodi di relazionarsi, più umani.

Sui social ci sono moltissimi profili che si propongono come healthy. Quanti di questi lo sono realmente secondo te?

Il mondo dei profili healthy, com’è facile immaginare, è un’arma a doppio taglio. Il cuore del problema risiede nel fatto che in ambito alimentare tutto è giusto e tutto è sbagliato, sta alla singola persona capire come prendere quell’informazione e cosa farne. Il più classico degli esempi: i video “cosa mangio in un giorno”. Questi dividono l’audience tra chi è profondamente contrario e chi li ama, ma, come per tutte le cose, la verità sta nel mezzo. Il video in cui si mostra ciò che si mangia non ha nulla di intrinsecamente sbagliato: non vuole imporre a nessuno cosa mangiare, non vuole ispirare confronti riguardo le porzioni, non vuole recapitare il messaggio del tipo “se mangi così sarai come me” (tipiche accuse che vengono mosse contro questo format). Ciò che si mostra nel video è un dato oggettivo, che ognuno, sulla base delle proprie credenze personali, elabora in un determinato modo. Per me, Sara Bartolini, questi video sono una fonte di ispirazione per piatti nuovi da preparare, o sfamano la curiosità di scoprire cosa mangiano le persone dall’altra parte nel mondo. Tuttavia per un’altra persona con una consapevolezza e un vissuto diverso dal mio possono essere motivo di sofferenza. Ad esempio, per un’adolescente convinta di mangiare troppo e che pensa che tutti mangino meno di lei, vedere sui social un contenuto del genere potrebbe alimentare questa credenza.

I profili healty non sono dannosi di per sé, ma veicolano messaggi che se recapitati a un o una utente vulnerabile possono creare danni. Forse la soluzione potrebbe essere l’uso di un disclaimer in cui si spiega la neutralità del contenuto, con l’obiettivo di smorzare il potenziale tossico.

Cosa potresti consigliare a chi dovesse trovarsi in una situazione come quella che hai vissuto tu con il tuo allenatore?

Consiglio di sfogarsi innanzitutto con i compagni e le compagne di allenamento, ci sarà chi potrà capirvi meglio perché probabilmente subisce ciò che subite voi. L’importante è capire che quelle parole non hanno fondamento, non dovete dare loro il potere di danneggiarvi. E per concludere: guardatevi attorno e nel caso cambiate squadra o palestra… sicuramente ci sarà uno spazio dove potrete apprezzare voi stessi e le vostre capacità, senza dover rendere conto a qualcuno che tenta di abbattervi.

Le “partite del fair play”: se in aiuto arrivano le avversarie

Il campo da gioco come luogo di condivisione. Anche se di fronte c’è una squadra avversaria, anche se il quintetto in campo è guidato dalla voglia di vincere e fare canestro. Non c’è gioia più grande di poter dire: “Quella partita la vogliamo giocare! E ti tendiamo la mano per disputarcela insieme”. Dalla Sicilia arriva una storia di amore e sport, di sorellanza e solidarietà, una di quelle storie capaci di abbattere anche le difficoltà quotidiane. Protagoniste due società di pallacanestro – la Basket Lions Leontinoi di Lentini, provincia di Siracusa, e la Sicilgesso Golfobasket di Alcamo, provincia di Trapani – con le loro formazioni femminili Under 14, che nel weekend del 2 e 3 marzo hanno disputato quella che è stata ribattezzata “la partita del Fair Play”.

di Ilaria Leccardi

Tutto nasce da un problema che sono costrette ad affrontare molte società sportive nella nostra penisola: la mancanza di impianti dove allenarsi o disputare le proprie partite di campionato. Proprio come la Basket Lions Leontinoi, fondata nel 2009 da Massimo La Rocca, una vita passata sui campi di pallacanestro prima come giocatore e poi come arbitro, oggi presidente e allenatore della società. Nonostante il grande coinvolgimento del territorio, l’alto numero di tesserati e le molte attività portate avanti a favore dei giovani e delle fasce più deboli della popolazione locale, da anni la società sconta l’impossibilità di godere nella propria città di un palazzetto idoneo alle partite. “Un vero dramma per le nostre squadre – spiega La Rocca – visto che oltre alle partite giocate in trasferta, da molti anni disputiamo anche le partite casalinghe fuori dalla nostra città, ospiti di un palazzetto di Scordia, a circa 20 chilometri da Lentini. Una situazione difficile da gestire per le famiglie e la società stessa”.

Proprio a Scordia qualche settimana fa si doveva disputare la partita di andata della squadra femminile Under 14 contro la formazione di Alcamo. Ma, una volta che le giocatrici erano già arrivate sul luogo del match, la gara è stata sospesa, a causa di un acquazzone che ha reso inagibile l’impianto. I conti erano presto fatti: vittoria a tavolino per Alcamo e tutte a casa. Ma lo sport non è sempre bianco o nero, solo risultato e classifica. Le storie si possono scrivere in modi ancora più belli.

“Di fronte alla sospensione della gara – continua La Rocca – per non perdere a tavolino avremmo dovuto corrispondere alla società ospite il rimborso dei costi di trasferta, cosa per noi impossibile. I dirigenti di Alcamo hanno capito e, oltre a rinunciare a chiederci il rimborso, ci hanno fatto una proposta straordinaria: visto che il 3 marzo sarà in programma la partita di ritorno e voi dovrete venire ad Alcamo, perché non allungare di un giorno la trasferta e disputare le due gare nel nostro palazzetto un giorno dopo l’altro?”.

La lampadina si era accesa e l’organizzazione si è messa subito in moto, coinvolgendo non solo la società sportiva ma anche le famiglie delle giocatrici. “Si trattava comunque di una trasferta di 700 km tra andata e ritorno, più la notte fuori. L’idea, dunque – prosegue La Rocca – è stata quella di immaginare un’esperienza in stile Erasmus, per cui ciascuna delle nostre ragazze è stata abbinata a una ragazza dell’altra squadra, la cui famiglia l’ha ospitata a dormire a casa propria”. La Federazione Basket ha poi messo a disposizione il pullman per la trasferta e la doppia partita è diventata un inno al fair play in campo. “Quella di Alcamo – conclude l’allenatore e presidente – è stata un’esperienza indescrivibile, due giorni di emozioni indimenticabili”.

foto post partita delle due squadre (FIP Sicilia)

“Oggi sono emozionata”, ha affermato il giorno del match la presidente FIP Sicilia Cristina Correnti. “Il campo è stato teatro di bellissime partite di Serie A e vi hanno giocato Cynthia Cooper e Lisa Leslie, grandi campionesse. Ma la partita di oggi non è da meno. Oggi è stata l’esaltazione dei principi etici dello sport. Oggi la Golfobasket e i Basket Lions Leontinoi hanno dimostrato cosa voglia dire far sport, che sul campo siamo avversari, ma la vittoria non è tutto. Se l’avversario ha bisogno, si deve tendere la mano. Con la condivisione avete vinto tutti: ha vinto la bellezza vera e unica dello sport!”

I match, che per la cronaca si sono chiusi con due vittorie per la squadra di Alcamo, hanno sollevato interesse e solidarietà da tutto il mondo sportivo e istituzionale. Prima ancora che si disputassero le partite, la notizia aveva sensibilizzato la Provincia che ha assegnato alla società una palestra di Lentini idonea a giocare le partite e quindi al momento il problema delle continue trasferte anche per i match in casa sembra risolto, nell’attesa che venga siglata una convenzione più prolungata che metta giovani giocatrici e giocatori al sicuro per i prossimi campionati.

“Vivere in continua trasferta ogni gara – conclude La Rocca – è stato difficile, anche perché non per tutti è possibile spostarsi continuamente, le trasferte hanno dei costi, la Sicilia è molto grande.

“Questo episodio ha fatto emergere un problema che riguarda tante realtà del nostro paese, soprattutto negli sport che non sono il calcio: la mancanza di impianti sportivi”.

Sport e società che però danno molto al territorio. Come la Lions Lentinoi che, grazie alla collaborazione con un istituto scolastico di Lentini la cui palestra ospita gli allenamenti, tutte le mattine offre corsi gratuiti di basket agli studenti di quattro scuole della città. Un punto di riferimento per il territorio, anche per i bambini e le famiglie che non possono permettersi di accedere a un’attività sportiva.

Il valore dello sport nasce dal basso, nella quotidianità delle palestre e nella capacità di andare oltre il sano e necessario desiderio di vittoria. A insegnarlo potrebbero bastare gli abbracci tra le giovani giocatrici della Basket Lions Leontinoi e della Golfobasket all’arrivo del pullman ad Alcamo: leali avversarie in campo, diventate amiche fuori, protagoniste di una storia che rimarrà per sempre.  

Le donne nel calcio? Danno ancora troppo fastidio

Perché la presenza delle donne nel calcio dà ancora così fastidio, scatena commenti sessisti e rende i social cassa di risonanza e ring di scontro a suono di insulti? E perché una donna nel calcio fa notizia, genera titoli e flusso di commenti sui social quasi mai per una sua prestazione sportiva?

di Ilaria Leccardi

Ce lo racconta – purtroppo bene – l’episodio che ha visto coinvolta Guadalupe Porras, guardalinee spagnola, componente della terna arbitrale impegnata nella partita di Liga spagnola maschile tra Betis Siviglia e Athletic Bilbao, giocata domenica 25 febbraio. Con la partita sull’1 o 0 per il Betis, muovendosi rapidamente sulla linea laterale è stata colpita in pieno al volto da un cameraman con steadycam che ha varcato in modo maldestro la soglia del campo, entrando nella sua zona di azione. Uno scontro violento, fortuito, che ha provocato una profonda ferita al volto di Porras, costretta a lasciare il campo in una maschera di sangue.

La notizia ha fatto il giro del web, con foto e articoli pubblicati da tutte le principali testate sportive e non. L’aspetto sconcertante è che ai post – in Italia su tante pagine social, in particolare su quella del più letto quotidiano sportivo, la Gazzetta dello Sport, ma anche in Spagna sui profili dello sportivo Marca – hanno fatto seguito una marea di commenti, molti dei quali di evidente stampo sessista. “Succede quando le donne, invece di occuparsi di moda o trucco, si inventano guardalinee”, oppure “mille motivi per stare in cucina”, o ancora “tornino a fare il loro mestiere”, con tanto di cuoricini a raccogliere consenso da altri utenti (si vedano i comenti riportati dall’account Instagram dell’avvocata e attivista Cathy La Torre). Ma il web non è stato a guardare. Prima che le rispettive testate cancellassero i peggiori commenti, un’altra miriade di utenti è intervenuta, principalmente in due modalità: chi chiedendo un intervento di moderazione da parte dei gestori dei profili social, indignandosi per la lentezza nella cancellazione, chi insultando a sua volta gli autori dei post sessisti, generando un flusso di commenti a catena ricchi di hate speech, in particolar modo in forma di linguaggio verbale e aggressività verbale.

Qui di seguito alcuni screenshot che riprendono i commenti sulla pagina Instagram della Gazzetta dello Sport, alla notizia dell’infortunio sul campo della guardalinee Porras:

Dopo aver lavorato su Facebook e Twitter (X), il team di ricercatori dell’Università di Torino impegnati per Odiare non è uno sport, sta analizzando i flussi di post e commenti su Instagram e TikTok, per approfondire e comprendere le modalità di fruizione di questi social rispetto alle notizie sportive. Dalla seconda edizione del Barometro dell’Odio nello sport, presentata a ottobre scorso, è emerso come l’hate speech online in ambito sportivo sia purtroppo un fenomeno in crescita: si manifesta per lo più sotto forma di aggressività verbale e ha maggiore incidenza nei commenti social riguardanti il calcio, sport che domina quasi totalmente il flusso dell’informazione sportiva italiana.

Il calcio raccontato, evidenzia il Barometro, è soprattutto maschile, così come l’informazione sportiva in generale. Le atlete compaiono poco nei flussi di notizie sui social, se non per episodi clamorosi o che poco riguardano la prestazione sportiva. Un caso su tutti: il grande volume di hate speech registrato nei confronti della stella della pallavolo azzurra Paola Egonu, non dopo una vittoria o una sconfitta in partita, ma a seguito dell’annuncio di volersi allontanare dalla Nazionale a causa dei commenti razzisti ricevuti nel “mondo reale”. Notizia che la rese target di commenti d’odio online soprattutto sotto forma di discriminazione. Interessante notare come altre donne che scatenano importanti flussi di commenti e di odio sui social siano le compagne dei calciatori, in particolare – si legge nel Barometro – la cantante Shakira, ex compagna di Gerard Piqué, e Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi. Questo a testimonianza che a fare a più notizia nel mondo sportivo italiano sono ancora le “mogli di” che non le sportive stesse.

L’hate speech purtroppo si manifesta spesso nei confronti delle donne quando il loro ruolo e la loro visibilità è legata al mondo del calcio o di uno sport connotato nell’immaginario comune come “prettamente maschile”. Ce lo aveva raccontato anche la motociclista Francesca D’Alonzo, alias The Velvet Snake, ex ballerina che compie imprese in modo fuoristrada in tutto il mondo: seguitissima sui social, ancora viene presa di mira da haters che la bombardano di commenti sessisti.

L’episodio che ha riguardato la guardalinee spagnola rende chiaro come sia ancora necessario fare un lavoro di educazione e sensibilizzazione sull’utilizzo dei social, in particolar modo sui giovani. Insegna che il web è ormai molto attento a rispondere al linguaggio d’odio, soprattutto su certe tematiche, anche se purtroppo spesso i commenti di risposta si manifestano a loro volta in forma di aggressività verbale. E al tempo stesso evidenzia quanto è importante che chi detiene il potere di informare e di immettere sui social notizie, tanto più se si tratta di un organo di stampa autorevole, abbia anche la prontezza di intervenire sui commenti che contengono forme di hate speech in grado di autoalimentarsi uno con l’altro, diventare vere e proprie catene di discriminazione online.

Commenti sessisti in Rai. Mimma Caligaris: “Quanta strada da fare”

Hanno fatto discutere e indignare tutta Italia le frasi sessiste pronunciate dal giornalista Rai Lorenzo Leonarduzzi, incaricato della telecronaca dei tuffi durante i Mondiali di nuoto, assieme al commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi. Frasi offensive nei confronti delle tuffatrici nella disciplina del sincronizzato, vero e proprio body shaming, commenti scurrili, andati in onda su RaiPlay2, e contro cui è stato presentato un esposto da parte di Usigrai, Ordine dei Giornalisti, CPO dell’FNSI e Associazione GiULiA Giornaliste. Ma il caso che ha fatto scalpore non è purtroppo isolato ed è da contestualizzare in quella che spesso è una narrazione sportiva ancora scorretta e degradante nei confronti delle atlete.

Ne abbiamo parlato con Mimma Caligaris, giornalista sportiva di lungo corso, oggi vicepresidente vicaria Ussi (Unione Stampa Sportiva Italiana), nella giunta esecutiva della FNSI (già presidente della Commissione Pari Opportunità dello stesso sindacato nazionale dei giornalisti), nonché componente del Gender Council della International Federation of Journalists e del Gender and Diversity Expert Group – GENDEG della European Federation of Journalists. Una delle voci più competenti in tema di linguaggio e narrazione sportiva nell’ottica della parità di genere.

di Ilaria Leccardi

“Le olandesi sono grosse. Come la nostra Vittorioso […]. Ma tanto a letto sono tutte uguali”. “Questa (la tuffatrice Harper, NdR) è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. Sono alcune delle espressioni pronunciate durante la diretta. Qual è la gravità di quanto successo ai Mondiali di nuoto? Com’è possibile nel 2023 alla TV pubblica sentire parole e commenti di quel genere nei confronti delle sportive?

La gravità è doppia. Da una parte per il fatto in sé, per il linguaggio utilizzato dal giornalista in diretta, dall’altra perché di fronte alla segnalazione – arrivata da alcuni spettatori tramite una Pec circostanziata inviata alla Rai – il telecronista ha risposto sostenendo che si trattasse solo di battute da bar, pensando di essere fuori onda. Prima di tutto, pensare di essere fuori onda è un’aggravante, e poi il commento dimostra una volta di più quanto siamo ancora indietro, perché c’è chi sostiene che le donne siano oggetti su cui raccontare barzellette, su cui parlare non per raccontare i risultati sportivi, ma per irridere e commentare le loro caratteristiche fisiche, ironizzando pesantemente sull’aspetto fisico, la corporatura, il tipo di abbigliamento.

Ci preoccupa l’approccio sessista e sminuente del ruolo delle donne, purtroppo ancora effettivo su diversi canali, emittenti, testate cartacee e online (non solo nel servizio pubblico, dove esiste comunque una policy di genere da seguire). Per fortuna – visto che il caso è stato sollevato grazie a persone che seguivano la diretta – notiamo anche una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, capace di guardare con sensibilità ai commenti, al racconto, alle parole e all’approccio narrativo dello sport.

Quanta discriminazione ancora c’è nella rappresentazione sportiva tra uomo e donna? E quali sono gli aspetti più critici di questa narrazione che spesso si sofferma su elementi che nulla hanno a che fare con la prestazione sportiva?  

Siamo a un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, i primi in cui ci sarà una effettiva parità di numeri tra uomo-donna, vicina al 50 e 50 come numero di atleti e atlete in gara. Ma c’è ancora una strada lunghissima da fare nel racconto dello sport.

Gli uomini sono citati tre volte più spesso nelle donne nell’ambito sportivo e sociale, che le atlete sono spesso associate a parole e temi come gravidanza, età, matrimonio, aspetto fisico, che per gli uomini la descrizione della corporeità è legata principalmente al concetto di resistenza. Le atlete sono indicate come “ragazze” il doppio delle volte rispetto ai colleghi maschi, spesso delle sportive nei titoli dei giornali si riporta solo il nome, senza il cognome, mentre il gossip e il modo di vestire mettono in secondo piano il risultato sportivo.

Per creare condizioni vere di parità pur nelle differenze, il linguaggio è fondamentale. Facciamo l’esempio del calcio, visto che sono iniziati da poco i Mondiali femminili. Io sono fortemente convinta che sia importante la declinazione al femminile dei ruoli in campo. Ad esempio, chi sta in porta in una squadra femminile dovrebbe essere chiamata “portiera”, che è un vocabolo esistente della lingua italiana. E chi si para dietro alla giustificazione che sia la diretta interessata a voler essere chiamata “portiere”, vuole semplicemente pulirsi la coscienza. Bisognerebbe provare a fare lo sforzo di spiegare che la definizione “portiera” è un’affermazione di identità conquistata con un lungo percorso. Usare il termine maschile significa interiorizzare che il proprio valore è inferiore a quello dell’uomo e che l’unico modo per sentirsi alla pari è utilizzare il termine maschile. A risentirne è l’autostima, con una percezione diffusa di disvalore che condiziona le scelte.

Ma il problema non riguarda solo le parole.

Anche la rappresentazione per immagini è critica. Pensate alle partite di beach volley. Nei tornei maschili le immagini si concentrano principalmente il gesto tecnico, mentre nelle partite femminili, l’inquadratura il più delle volte parte dal fondoschiena delle giocatrici. Una volta mi confrontai con un operatore il quale mi spiegò che era una richiesta esplicita, perché serve a fare più audience, come un titolo sensazionale serve a fare più clic.

Purtroppo, però il giornalismo italiano ricorda anche episodi veri e propri di body shaming, come il caso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando Il Resto del Carlino titolò “Il trio delle cicciottelle”, per raccontare la squadra di tiro con l’arco femminile.

In quel caso il direttore fu sollevato dall’incarico. E quando Lucilla Boari, una delle arciere azzurre, vinse il bronzo olimpico a Tokyo 2021, si ricordò ancora di quell’appellativo. Il body shaming purtroppo nella narrazione sportiva è fortemente presente. Altro caso eclatante, fu quello del telecronista di una tv privata campana che definì il calcio femminile come “un covo di lesbiche”. Dopo i nostri esposti, questo collega venne radiato dall’Ordine dei Giornalisti, ma comunque a questa persona si è continuato a dare spazio in altri modi.

Lucilla Boari, bronzo olimpico a Tokyo nel tiro con l’arco

A livello internazionale qual è la situazione?

Lo sport è un contesto delicato, ma si stanno facendo passi avanti anche a livello istituzionale. Come dimostra il progetto Combating Hate Speech in Sport che mira a fornire assistenza alle autorità pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea, per sviluppare strategie globali di contrasto ai discorsi d’odio nel quadro dei diritti umani.

E i social che ruolo hanno in tutto questo?

Tante volte hanno un ruolo devastante. Tornando all’episodio dei Mondiali di nuoto, ho letto commenti pubblicati da utenti sui social che fanno rabbrividire. Molte persone hanno dato ragione ai commentatori o comunque li hanno giustificati. Ho letto commenti sessisti e sminuenti delle persone ma anche della disciplina in sé, i tuffi sincronizzati. Purtroppo, è difficile ottenere una policy sui social anche a livello internazionale. Sui social media, spesso c’è la sensazione di poter dire tutto ciò che si vuole, di sentirsi giornalisti e giornaliste senza averne gli strumenti. Questo provoca un proliferare di fake news, una produzione di contenuti che non hanno basi deontologiche, che non rispettano i principi della corretta informazione. Ed è molto pericoloso.

Quanto è difficile per una sportiva in quest’ottica far sentire la propria voce, e fare valere il diritto di essere degnamente rappresentata?

Se per lo sport maschile è sistematico occupare spazio, le sportive conquistano le prime pagine solo perché hanno ottenuto un grande risultato. C’è una gerarchizzazione delle notizie che porta lo sport praticato dalle donne relegato alle varie, ai trafiletti, alle ultime pagine dei giornali. Lo scatto culturale deve venire dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, bisogna aumentare lo spazio dedicato allo sport femminile e far sì che questo spazio sia riempito di parole e di immagini giuste.

E nel caso in cui si verifichino episodi gravi di narrazione scorretta è fondamentale il rafforzamento delle reti di monitoraggio e sostegno. In Italia ormai, grazie alla stretta collaborazione tra CPO dell’FNSI, CPO dell’Ordine dei Giornalisti, Usigrai e Associazione GiULiA Giornaliste, ci sono frequenti segnalazioni, è difficile che casi di discriminazione o narrazioni tossiche passino inosservati. Perché nessuna persona deve sentirsi sola di fronte a parole d’odio.

Lo sport deve unire le persone, deve costruire fiducia, spirito di comunità, deve abbattere le barriere. Il racconto scorretto finisce per esacerbare tensioni e rivalità e favorire discriminazioni dei confronti di determinate categorie di persone, generalmente le più fragili.

E le sportive possono avere un ruolo diretto nell’affermare il proprio ruolo, anche a livello sociale? 

Su questo mi piace sempre citare il caso di Lella Lombardi, unica donna a riuscire a conquistare punti in Formula 1, ma anche capace di denunciare in conferenza stampa l’avversione dei colleghi maschi alla sua presenza nel circuito. Una posizione che Lombardi pagò, visto che poi la sua casa automobilistica assegnò la monoposto a un uomo. Eppure, lei non ha mai smesso di battersi, aiutando anche altre giovani e seguire la sua strada nell’ambito dei motori. Oggi di lei si legge qualcosa in più, anche se spesso viene descritta sottolineando il suo taglio di capelli “maschile”. Io prendo sempre ad esempio la sua storia, le sue battaglie, per dire che bisogna continuare a combattere e anche le stesse sportive devono provare a farlo. Nella storia dello sport penso che esista un prima e un dopo Lella Lombardi.

Le atlete vanno raccontate per quello che fanno in campo, in pista, per come hanno costruito la propria storia sportiva. Il mio appello è: scriviamo più storie di sport e scriviamole con le parole giuste.

Riccardo Cucchi: lo sport in voce

“Lo sport non può cambiare il mondo, ma può contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato”. Parola di Riccardo Cucchi, una delle più note voci dello sport italiano: otto Olimpiadi, sette Mondiali di Calcio, tra cui quello vinto dall’Italia in Germania nel 2006, oltre 500 partite raccontate in radiocronaca. Giornalista Rai per quasi 40 anni, nome storico di Tutto il Calcio minuto per minuto, oggi Cucchi è impegnato anche sulla tutela del diritti, grazie a una collaborazione con Amnesty Italia. Lo abbiamo intervistato per dare il via alla seconda edizione di Odiare non è uno sport, affidandoci alle sue parole e alla sua storia di grande narratore di sport, ma – oggi – anche di quotidiano fruitore di social network. 

Di Ilaria Leccardi

Un percorso giornalistico vissuto narrando lo sport con la sola voce. Com’è nata la passione per la Radio e come è riuscito a trasformarla in un lavoro?

Appartengo alla generazione dei nativi radiofonici, una definizione che mi piace usare simpaticamente in contrasto con “nativi digitali”. Era una generazione che ha potuto appassionarsi al calcio esclusivamente grazie alla radio, l’unico mezzo per sapere cosa avveniva sui campi di calcio in diretta. Sono cresciuto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e poi Claudio Ferretti. È stato inevitabile innamorarmi di quel modo di raccontare il calcio e di quelle voci che hanno scritto la storia. Fin da piccolo sognavo di fare questo mestiere e poi la passione si è ampliata quando finalmente sono riuscito a entrare allo stadio per seguire la mia squadra del cuore. Nel 1979 vinsi il concorso in Rai ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che l’azienda decise di preparare al microfono: frequentai corsi di formazione che mi consentirono di esordire in un gruppo di straordinari maestri, imparando accanto a loro, fino a riuscire a prenderne il testimone. Ho vissuto un sogno e sono stato un privilegiato. Ho messo insieme due passioni, trasformandole in lavoro.

Radio mezzo di comunicazione magico. Media che ha saputo sopravvivere al passare del tempo e ad alcuni passaggi storici epocali, l’arrivo dei social network, l’avvento della PayTv, la crisi della carta stampata. Qual è il segreto di questa longevità?

I radiocronisti di oggi usano gli stessi strumenti che usava il loro progenitore, Nicolò Carosio, il primo a raccontare il calcio in radio, negli anni Trenta. Per fare il nostro mestiere servono un microfono, un cronometro, un blocco d’appunti e un binocolo, perché non sempre è possibile avere un monitor anche oggi negli stadi. E soprattutto servono gli occhi per poter vedere. Gli occhi del radiocronista sono le telecamere che vengono usate in tv, con la differenza che la libertà di espressione del radiocronista è direttamente collegata alla sua capacità di sollevare gli occhi dal campo per vedere cosa succedere intorno. E ovviamente alla sua capacità di entrare nell’evento che sta raccontando, sempre consapevole del fatto che chi ascolta non vede.

Riccardo Cucchi, per 35 anni voce di Tutto il Calcio minuto per minuto

Quali sono gli elementi chiave per una buona radiocronaca calcistica?

In passato come oggi, prima di tutto i tempi: nel calcio è molto importante misurare le parole e metterle in rapporto con la velocità del pallone. Mai una di troppo, perché altrimenti il pallone va troppo avanti rispetto al racconto, mai una di meno, perché altrimenti si è in ritardo rispetto al movimento del pallone. E poi la cura della voce. Ai nostri tempi la Rai investiva molto nella preparazione al microfono: l’uso della respirazione, il diaframma, la dizione. Prima di andare al microfono eravamo formati anche in recitazione, basti dire che il mio maestro è stato Arnoldo Foa. Il radiocronista bravo è colui che sa raccontare ciò che vede con terzietà e partecipazione. Se si emoziona davvero e sinceramente, saprà emozionare anche chi ascolta.

È un errore pensare che la radio non abbia immagini: le immagini sono quelle che la voce del radiocronista riesce a costruire nella mente di chi ascolta. Ed è questo il segreto del suo successo ancora oggi.

Ma serve anche molta capacità di far fronte agli imprevisti

Mi è successo più volte di dover staccare gli occhi dal campo e raccontare altro, a volte cronaca nera, episodi violenti. Bisogna aver la capacità di dare notizia di tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi, ed è una delle ragioni per cui ho amato la radio fin da piccolo, la convinzione che la voce e la narrazione fossero uno strumento per aprire finestre a vantaggio di chi non poteva farlo.

Se dovesse selezionare l’episodio più emozionante tra i tantissimi che ha raccontato, quale sceglierebbe?

Ne sceglierei due. Per il calcio, sicuramente la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, in Germania. Ho potuto gridare ai microfoni “Campioni del Mondo”, un privilegio che prima di me hanno avuto soltanto due grandi: Nicolò Carosio per due volte, nel 1934 e nel 1938, ed Enrico Ameri nel 1982. E poi la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul 1988, la mia seconda edizione dei Giochi seguita come giornalista. Bordin entrò da solo nello stadio olimpico dopo una grande rimonta, una vittoria che arrivava a ottant’anni dalla drammatica vicenda di Dorando Pietri, il maratoneta italiano squalificato dopo aver dominato la gara ai Giochi del 1908, perché, stremato, fu sostenuto sul traguardo dai giudici e relegato per questo in fondo alla classifica. Ottant’anni dopo un altro italiano entrava in testa nello Stadio Olimpico e riscattava quella straordinaria storia di epicità sportiva.  

Veniamo ad oggi. Lei da sempre ha dimostrato grande attenzione al tema dei diritti e da alcuni anni presiede la giuria del Premio Sport e Diritti umani promosso da Amnesty Italia e Sport4Society. Quanto è importante valorizzare queste tematiche in relazione allo sport? 

Ho sempre ritenuto importante che lo sport sia in grado inviare messaggi e che non debba mai dimenticare i valori fondanti che ha hanno contribuito al suo sviluppo. Lo sport vive in ogni angolo del pianeta, ha un grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica, ma a volte questo potenziale e questa forza comunicativa non vengono indirizzate nella direzione giusta. Ogni protagonista dello sport, dall’atleta al narratore, deve essere consapevole dell’importanza delle proprie parole e dei propri gesti, per favorire la divulgazione di messaggi. Penso che lo sport non possa di per sé cambiare il mondo, ma possa contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato. La mia collaborazione con Amnesty nasce da questa consapevolezza. Ne avevo sempre seguito l’impegno, le battaglie e i valori, e così una volta in pensione ho pensato di poter dare un mio contributo. Sono presidente della giuria del Premio Sport e Diritti Umani da tre anni.

Chi sono i premiati di quest’anno?

Abbiamo scelto Gary Lineker, grande attaccante inglese, che ha saputo esprimere opinioni importanti a favore dei migranti, di fronte a una politica inglese molto restrittiva, rischiando di essere cacciato dalla BBC dove lavora come commentatore. Uno sportivo straordinario che in oltre 500 partite giocate, non ha mai ricevuto un cartellino giallo né rosso. E poi Natali Shaheen, calciatrice palestinese, molto coraggiosa a promuovere il calcio nel suo contesto di provenienza, dove le donne che fanno sport sono viste con grande criticità e dove forti sono gli effetti dell’occupazione israeliana. Prima è stata capitana della sua Nazionale, poi è stata la prima palestinese a venire a giocare in Europa, in particolare in Italia, in Sardegna, e anche qui sta portando avanti grandi battaglie per la promozione del calcio femminile.     

Lo sport nel corso della storia è stato protagonista e veicolo di analisi, denunce, rivendicazioni politiche e sociali. Pensiamo a Messico ‘68 ovviamente, con il pugno chiuso degli atleti Neri sul podio della 200 metri, ma anche più di recente alla protesta in ginocchio di Colin Kaepernick nel football americano, o la voce anti Trump della capitana della squadra di calcio statunitense Megan Rapinoe. Eppure, poi ci troviamo ad assistere a un Mondiale di calcio in uno dei Paesi dove meno vengono rispettati i diritti umani, come il Qatar. Vede una maggiore consapevolezza negli sportivi oggi?

La consapevolezza sta crescendo nelle ultime generazioni di calciatori. Non è facile per loro parlare, a volte sono costretti al silenzio. Pensiamo al Mondiale in Qatar, dove un giocatore della Germania voleva scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBT, ma è stato censurato dagli organizzatori. In risposta la squadra ha posato per una delle foto prepartita con la mano davanti alla bocca, uno scatto che ha fatto il giro del mondo. Quella foto denuncia la censura del mondo del calcio. Con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro Qatar 2022. I Mondiali dello sfruttamento, ho girato l’Italia per spiegare perché tenere i Mondiali in Qatar era sbagliato. Poi ci sono anche figure che non hanno paura di esporsi, pensiamo a Claudio Marchisio che si è sempre battuto per i diritti degli ultimi, anche attraverso i suoi canali social, dove ha raccolto non pochi attacchi per le sue posizioni.

Una volta terminata la carriera in Rai, lei ha deciso di rivelare quale fosse la sua squadra del cuore, la Lazio. Ha suscitato dissapori?

In realtà le principali reazioni sono state di sorpresa, perché nella mia lunga carriera tutti mi avevano attribuito altre fedi sportive, ma pochi pensavano fossi laziale. E questo mi ha fatto piacere, vuol dire che ho saputo celare la mia passione. Ed è un valore che nel mio mestiere si sta un po’ perdendo. Credo che sia ancora valida la definizione di Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà, deve essere attendibile, suscitare la fiducia dei lettori e degli ascoltatori. Su questo elemento la nostra categoria deve riflettere molto.

Che rapporto ha con i social network? I suoi profili sono molto seguiti

Sono un grande fruitore di social, mi diverto a utilizzarli, soprattutto ora che ho smesso di lavorare. Nei miei ultimi dieci anni in Rai sono stato responsabile dello sport in radio e ho dovuto occuparmi dei social, pur non avendo la formazione adatta. Questo mi ha portato a conoscere meglio il mezzo. Della televisione il filosofo Karl Popper scriveva: in sé non è né buona né cattiva, dipende da come la si usa. Penso che questo si possa ben applicare ai social che sono un grande strumento di comunicazione, ma possono diventare strumento di odio e di assalti nei confronti di chi esprime le proprie opinioni.

La sua posizione sembra molto chiara. Dal suo profilo Twitter leggiamo: “Migliaia di radiocronache e tre libri. Senza mai fare a meno di Puccini e di Wagner. Parlo di partite, non di episodi arbitrali. E di vita. Blocco i maleducati”.

Twitter mi piace molto perché consente una dinamica molto diretta con tutti. È uno strumento che mi ha permesso di raggiungere migliaia di persone anche lontane, di stringere amicizie virtuali o reali con personaggi che non avrei mai potuto incontrare. È una grande opportunità di incontro e scambio, ma purtroppo anche di odio. Succede anche a me di essere colpito da attacchi, soprattutto quando esprimo opinioni, sportive, culturali e politiche. Cerco di rispondere sempre, in alcuni casi funziona e in altri meno, quindi si deve ricorrere inevitabilmente al blocco.

Quanto si discostano i social dalla realtà?

Direi poco, li ritengo una sorta di piazza virtuale. Pensare che quello che accade sui social succeda solo lì è un errore. Sono una cartina tornasole di quello che sta succedendo attorno a noi: la società in cui viviamo è pervasa dall’odio e questo si riflette sui social. Di sicuro però i social facilitano certi tipi di attacchi perché nascondono chi li compie, fanno cadere le barriere che molti di noi utilizzano nelle relazioni interpersonali reali.

Che consiglio darebbe ai fruitori di social, anche quelli più aggressivi?

Di seguire una regola: non attaccare mai direttamente la persona, anche se non condividi le sue idee. Prima confrontati con le sue idee. Invece ciò che succede spesso è che non si apre un dibattito sul tema, ma si passa subito all’attacco personale.        

Oltre a raccontarlo, lei pratica sport?   

Ho praticato tanti sport, calcio, ciclismo, atletica leggera e continuo ancora oggi, vado in bici, in mountain bike, in palestra. Credo che la pratica dello sport sia un diritto, che dovrebbe essere sancita dalle costituzioni.

Ma soprattutto lo sport è una grande possibilità di confronto con sé stessi, sui propri limiti, le proprie capacità, è una crescita costante: conoscere noi stessi per imparare poi a confrontarci con gli altri.

Puoi seguire Riccardo Cucchi sui suoi canali social: Twitter FacebookInstagram

Sport popolare e pandemia. La fase 3 dello sport dilettantistico

Lo sport, come il resto delle attività umane, sta vivendo una fase epocale: per due mesi abbondanti, tra metà maggio e fine luglio dello scorso anno è sostanzialmente sparito, tanto a livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo.

Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che, a partire dall’ambito sportivo, mirano alla lotta contro ogni discriminazione. Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata costantemente e il sistema di aiuti messo in piedi dal governo è risultato insufficiente.
Le disuguaglianze già presenti nella nostra società sono aumentate drasticamente: chi era già in una situazione di difficoltà, ora a stento riesce a sopravvivere. La prima parte del webinar si è focalizzata su come le realtà dello sport di base si sono “reinventate”, senza però perdere di vista la propria vocazione naturale, ossia l’attività sportiva. Quando è stato possibile si è cercato di far rivivere i vuoti urbani, di dare dignità ad impianti sportivi abbandonati per poter praticare sport all’aperto.

Nel frattempo, il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità, spinto dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.

Il 4 febbraio 2021 si è svolto il primo webinar, realizzato da Sport alla Rovescia e Radio Sherwood, all’interno del progetto “Odiare non è uno sport”. Esplicito il titolo: “La fase 3 dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”

All’evento hanno partecipato alcune realtà che nel corso della campagna di contro-narrazione sono state intercettate e intervistate, grazie alle trasmissioni radiofoniche andate in onda ogni mese, ai servizi fotografici e agli storytelling video.

Sono intervenuti l’Asd Quadrato Meticcio di Padova, il St. Ambroeus FC di Milano, la polisportiva San Precario di Padova, l’Atletico No Borders di Fabriano, le Criminal Bullets – Roller Derby di Padova, i Briganti Rugby Librino di Catania e gli RFC Lions di Caserta.Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità.

Nell’ultima parte dell’incontro ci si è concentrati su come sarà la ripartenza. Tante realtà dello sport dilettantistico avranno tante difficoltà nel portare avanti tutti i progetti di contrasto all’odio e integrazione che hanno da sempre caratterizzato il loro percorso. Il fare rete tutti insieme sarà il motore sia per ricominciare con tutte le attività sociali, ma anche per creare vertenza nei confronti delle istituzioni sportive per far ripartire il mondo dello sport in una maniera diversa rispetto a prima.

Ecco un racconto dell’incontro:

Asd Intrecciante di Trento

Nata nel luglio 2018 a Trento, la Asd Intrecciante è un esempio tangibile di inclusione e dialogo interculturale. Intreccia infatti le storie di un gruppo di 30 ragazzi e ragazze provenienti da differenti realtà della città di Trento: operatori del mondo dell’accoglienza, giovani richiedenti asilo ospitati nelle residenze della città, studenti universitari, alcuni rappresentanti del mondo del calcio locale.

L’associazione nasce grazie al progetto “GOAL! Fare rete contro il razzismo”, finanziato da Fondazione Caritro. L’Asd ha così potuto partecipare al campionato amatori di calcio a 11 FIGC nelle stagioni 2018/19 e 2019/20, fino all’arrivo della pandemia. La squadra si è fatta notare per il terzo tempo, realizzato al termine di ogni partita, e per essere una dimostrazione diretta di come lo sport possa rappresentare un potente strumento di incontro e socializzazione fra giovani di differenti background e provenienze.

Per Odiare non è uno sport abbiamo chiesto alla dirigente Malika Mouj di raccontarci la storia della Asd.

Ciò che sono… lo danzo!

“Danza libera tutti”. È questo il motto dell’ Asd Club Arcella, una scuola di Padova, dedicata principalmente allo studio e all’insegnamento della danza moderna, contemporanea, classica e hip hop, che promuove i valori dell’integrazione e dell’accessibilità allo sport.

Da diversi anni Club Arcella è inserita nell’ambito territoriale della danza, grazie a varie competizioni e rassegne. Inoltre, l’associazione è attiva nell’ambito socio-educativo, sia con i centri estivi sia in diverse case famiglia.

Negli ultimi anni sono cresciute anche le attività di quartiere, come la danza di strada, i flash mob a tema, gli spettacoli nelle piazze, allo scopo – spiegano – di “comunicare con i nostri corpi ciò che ormai spesso non è più consentito far ascoltare con la voce”.

Padova Cricket Club, dalla comunità alla storia sportiva

Il Padova Cricket Club è una squadra nata nel 2004 e fondata dalla comunità srilankese radicata a Padova e in altre città del Veneto. Prima della nascita di questa realtà, il cricket veniva praticato principalmente in strada, tradizione che continua tuttora in alcuni quartieri della città.
Nel corso degli anni il Club è diventato un punto di riferimento per altre persone provenienti da sud-est asiatico e ha assunto sempre di più una dimensione internazionale, favorendo processi di integrazione individuale e di gruppo.