Sport popolare e pandemia. La fase 3 dello sport dilettantistico

Lo sport, come il resto delle attività umane, sta vivendo una fase epocale: per due mesi abbondanti, tra metà maggio e fine luglio dello scorso anno è sostanzialmente sparito, tanto a livello professionistico quanto a quello dilettantistico e di base. Ancora oggi lo sport di base e dilettantistico è fermo.

Con gli stadi chiusi l’unico serbatoio in cui riversare l’odio è rimasto l’ambiente social. Di contro, con il blocco dello sport di base e dilettantistico, è ancora fermo quel mondo che porta avanti percorsi educazione e socializzazione che, a partire dall’ambito sportivo, mirano alla lotta contro ogni discriminazione. Dall’inizio della pandemia la situazione economica e sociale è peggiorata costantemente e il sistema di aiuti messo in piedi dal governo è risultato insufficiente.
Le disuguaglianze già presenti nella nostra società sono aumentate drasticamente: chi era già in una situazione di difficoltà, ora a stento riesce a sopravvivere. La prima parte del webinar si è focalizzata su come le realtà dello sport di base si sono “reinventate”, senza però perdere di vista la propria vocazione naturale, ossia l’attività sportiva. Quando è stato possibile si è cercato di far rivivere i vuoti urbani, di dare dignità ad impianti sportivi abbandonati per poter praticare sport all’aperto.

Nel frattempo, il mondo dello sport popolare e indipendente si è messo al servizio delle comunità, spinto dall’urgenza e dalle necessità di singoli e famiglie: una scelta che ha portato fuori dai campi da gioco la necessità di combattere le discriminazioni amplificate dalla pandemia.

Il 4 febbraio 2021 si è svolto il primo webinar, realizzato da Sport alla Rovescia e Radio Sherwood, all’interno del progetto “Odiare non è uno sport”. Esplicito il titolo: “La fase 3 dello sport dilettantistico: quale futuro per i processi di integrazione?”

All’evento hanno partecipato alcune realtà che nel corso della campagna di contro-narrazione sono state intercettate e intervistate, grazie alle trasmissioni radiofoniche andate in onda ogni mese, ai servizi fotografici e agli storytelling video.

Sono intervenuti l’Asd Quadrato Meticcio di Padova, il St. Ambroeus FC di Milano, la polisportiva San Precario di Padova, l’Atletico No Borders di Fabriano, le Criminal Bullets – Roller Derby di Padova, i Briganti Rugby Librino di Catania e gli RFC Lions di Caserta.Contrastare l’odio, nei social network come nello sport, implica una presa di responsabilità, che parte in primis dalla conoscenza del fenomeno e prosegue con una imprescindibile educazione al rispetto delle diversità.

Nell’ultima parte dell’incontro ci si è concentrati su come sarà la ripartenza. Tante realtà dello sport dilettantistico avranno tante difficoltà nel portare avanti tutti i progetti di contrasto all’odio e integrazione che hanno da sempre caratterizzato il loro percorso. Il fare rete tutti insieme sarà il motore sia per ricominciare con tutte le attività sociali, ma anche per creare vertenza nei confronti delle istituzioni sportive per far ripartire il mondo dello sport in una maniera diversa rispetto a prima.

Ecco un racconto dell’incontro:

Asd Intrecciante di Trento

Nata nel luglio 2018 a Trento, la Asd Intrecciante è un esempio tangibile di inclusione e dialogo interculturale. Intreccia infatti le storie di un gruppo di 30 ragazzi e ragazze provenienti da differenti realtà della città di Trento: operatori del mondo dell’accoglienza, giovani richiedenti asilo ospitati nelle residenze della città, studenti universitari, alcuni rappresentanti del mondo del calcio locale.

L’associazione nasce grazie al progetto “GOAL! Fare rete contro il razzismo”, finanziato da Fondazione Caritro. L’Asd ha così potuto partecipare al campionato amatori di calcio a 11 FIGC nelle stagioni 2018/19 e 2019/20, fino all’arrivo della pandemia. La squadra si è fatta notare per il terzo tempo, realizzato al termine di ogni partita, e per essere una dimostrazione diretta di come lo sport possa rappresentare un potente strumento di incontro e socializzazione fra giovani di differenti background e provenienze.

Per Odiare non è uno sport abbiamo chiesto alla dirigente Malika Mouj di raccontarci la storia della Asd.

Ciò che sono… lo danzo!

“Danza libera tutti”. È questo il motto dell’ Asd Club Arcella, una scuola di Padova, dedicata principalmente allo studio e all’insegnamento della danza moderna, contemporanea, classica e hip hop, che promuove i valori dell’integrazione e dell’accessibilità allo sport.

Da diversi anni Club Arcella è inserita nell’ambito territoriale della danza, grazie a varie competizioni e rassegne. Inoltre, l’associazione è attiva nell’ambito socio-educativo, sia con i centri estivi sia in diverse case famiglia.

Negli ultimi anni sono cresciute anche le attività di quartiere, come la danza di strada, i flash mob a tema, gli spettacoli nelle piazze, allo scopo – spiegano – di “comunicare con i nostri corpi ciò che ormai spesso non è più consentito far ascoltare con la voce”.

Padova Cricket Club, dalla comunità alla storia sportiva

Il Padova Cricket Club è una squadra nata nel 2004 e fondata dalla comunità srilankese radicata a Padova e in altre città del Veneto. Prima della nascita di questa realtà, il cricket veniva praticato principalmente in strada, tradizione che continua tuttora in alcuni quartieri della città.
Nel corso degli anni il Club è diventato un punto di riferimento per altre persone provenienti da sud-est asiatico e ha assunto sempre di più una dimensione internazionale, favorendo processi di integrazione individuale e di gruppo.

Assist, la lunga battaglia per i diritti delle atlete

L’Italia è un Paese per sportive? Dovrebbe essere scontato dire di sì nel 2021, ma purtroppo ancora troppo grande è il divario tra uomini e donne in tutti gli ambiti dello sport italiano. Se il numero di atleti maschi è maggiore, con una differenza che tuttavia si sta assottigliando, il gap è soprattutto nei ruoli dirigenziali e nel trattamento che alle atlete viene riservato dal mondo sportivo rispetto ai colleghi uomini. Compensi ridicoli, montepremi inferiori, assegnazione delle strutture sportive non sempre paritaria, per non parlare della narrazione che ancora oggi evidenzia la difficoltà di raccontare in modo corretto e con i termini giusti l’universo sportivo femminile.

Eppure negli ultimi decenni tanti passi sono stati compiuti. Ed è soprattutto grazie a chi si è battuta perché qualcosa cambiasse. Luisa Rizzitelli è una pallavolista (mai dire “è stata”, perché non si smette mai di essere sportive) che ha giocato come professionista per 14 anni, diventando testimone sulla propria pelle di tutte le discriminazioni che si potevano vivere sul campo e fuori. E ha deciso che non poteva rimanere in silenzio. E così, nel marzo del 2000, assieme a un gruppo di amiche e colleghe, ha fondato Assist – Associazione Nazionale Atlete, che da allora si è battuta in tutti gli ambiti e i livelli sportivi per ribaltare una situazione inaccettabile. Oggi Assist è una realtà consolidata, interpellata nei più importanti tavoli di lavoro a livello nazionale, ed è stata promotrice nelle ultime settimane di una grande novità, la Carta dei valori per lo sport femminile, approvata dal Comune di Bologna. Un documento importante, volto a dettare le linee guida fondamentali per rendere lo sport veramente paritario.

Di Ilaria Leccardi

Rizzitelli, iniziamo proprio da qui. Qual è il valore dei 14 articoli contenuti nella Carta firmata dal Comune di Bologna?

Da tempo avevamo in mente di stilare una Carta che potesse dare indicazioni pratiche alle istituzioni e alle amministrazioni, per come non diventare complici inconsapevoli di alcune discriminazioni. Abbiamo dunque pensato di mettere nero su bianco le azioni che un Comune dovrebbe mettere in pratica e gli aspetti a cui dovrebbe fare attenzione. Per me si tratta di un piccolo atto d’amore nei confronti dell’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale nessuno deve essere discriminato.

Cosa prevede la Carta sul piano pratico?

Luisa Rizzitelli

Mette in campo diversi strumenti per affermare la parità di genere e per arrivare a concretizzare il compito di trattare nella stessa maniera le Associazioni sportive che sono attive in ambito femminile rispetto a quelle che lavorano in ambito maschile. Il Comune si impegna a dotarsi di un sistema di rilevazione dati sulla partecipazione femminile alla pratica sportiva in città (Art. 5). Inoltre, si impegna a redigere bandi per la concessione di contributi e l’assegnazione d’uso di impianti sportivi, avendo cura di valutare, nell’attribuzione del punteggio, anche l’esperienza del soggetto richiedente in tema di antidiscriminazione e attenzione al genere e quindi le azioni concrete messe in pratica dalle singole realtà in questa direzione (Art. 9). Sappiamo che ancora oggi spesso le donne, nella scala di utilizzo degli impianti sportivi, sono le ultime a essere tenute in considerazione. Ne è un esempio il calcio, dove, nell’assegnazione degli stadi e dei campi, le squadre di Serie A femminili vengono messe dopo i pulcini di una qualsiasi squadra maschile… E ancora, il Comune si impegna a non concedere contributi economici o patrocini a organizzatori di eventi privati o pubblici che non abbiano pari condizioni di accesso e montepremi uguali per uomini e donne (Art. 10). Non ci siamo inventate nulla, sono principi semplici, ma concreti, per riuscire a incidere realmente su un tessuto sociale.

Tessuto che comunque si è rivelato molto ricettivo…

Sì, Bologna è una città che da questo punto di vista è molto sensibile. È una delle città dove Assist ha più socie e la cui amministrazione si è rivelata molto interessata e pronta a lavorare con noi. Devo ringraziare per questo l’assessora Susanna Zaccaria [con deleghe a Educazione, Scuola, Pari opportunità e differenze di genere, ndr] e l’assessore allo Sport Matteo Lepore. Abbiamo trovato da subito grande disponibilità e intuizione. L’amministrazione ha individuato nella Carta uno strumento importante da condividere con tutte le Asd della Città Metropolitana.

Ci sono altri Comuni pronti a recepirla sul territorio?

Abbiamo avuto interessamenti dalla città di Trento e da alcune città della Calabria. Stiamo cercando di promuoverla a Roma, a Milano, Torino. Speriamo che siano in tanti ad aderire.

Ma in generale, quanto è ancora discriminante verso le donne il mondo dello sport?

Immagine Pixabay

Purtroppo molto, a livello micro e ai livelli più alti. E questo anche perché è un mondo ancora quasi completamente gestito e diretto da uomini, oltretutto uomini di una certa età. Il ricambio giovanile e di genere nello sport non è ancora avvenuto. Anche se nella vita quotidiana sportiva tra atleti e atlete non si percepisce molta differenza di genere, nella gestione dei fondi e degli spazi, emerge ancora una cultura fortemente patriarcale che penalizza le donne. Ci sono ancora divari di investimenti, differenze di premi, borse di studio, montepremi. Noi da anni ci battiamo affinché i podi di una disciplina in ambito maschile e femminile vengano trattati nella stessa maniera.

Per quel che riguarda la pratica sportiva, i problemi sono differenti?

Diciamo che, se tra atleti e atlete le differenze si sentono poco, tuttavia ci sono ancora alcune dinamiche da scardinare. Come Assist abbiamo lanciato un progetto europeo dal titolo Fair Coaching, mirato ad abbattere i comportamenti machisti e impropri che ancora ci sono nella cultura dell’allenare. Il mito che l’allenatore duro e cattivo sia bravo è una stupidaggine.

Essere autorevole non vuol dire essere autoritario, per questo bisognerebbe lavorare maggiormente per un cambio culturale importante, che metta in risalto altri aspetti al fianco della bravura tecnica, per esempio l’empatia e l’attenzione alla dimensione psicologica dell’atleta.

Per tornare al cambio di prospettiva soprattutto in ambito dirigenziale. Assist negli ultimi mesi è scesa in prima linea per sostenere la candidatura di Antonella Bellutti alla presidenza del CONI. Due volte oro olimpico nel ciclismo su pista e ma anche olimpica di bob, è la prima donna a tentare la scalata al vertice dello sport azzurro. Cosa rappresenta questo percorso?

La candidatura di Antonella Bellutti si sta rivelando un percorso entusiasmante. Lei è una persona coraggiosa, che non ha nessuna resistenza o preoccupazione nel dire ciò che pensa. E la sua proposta va nella stessa direzione in cui da ventuno anni Assist lavora. Per noi è straordinario vedere che una donna del suo calibro, Commendatrice della Repubblica, stimata in tutto il mondo per il suo valore, porta avanti da candidata presidente del CONI tutti quei temi su cui noi come Associazione atlete abbiamo puntato da anni in assoluta solitudine. Abbiamo dovuto combattere, per tanto tempo nessuno ci ha dato credito, abbiamo affrontato l’ostruzionismo, siamo state ridicolizzate. E vedere che oggi i nostri temi sono gli stessi del programma della candidata alla presidenza del CONI è importante.

Tuttavia, alle elezioni in programma il prossimo 13 maggio, non sarà semplice vedersela con il presidente uscente Giovanni Malagò. Quali sono i riscontri che avete rilevato per ora?

Abbiamo ricevuto tantissimi contatti da responsabili di Asd, tecnici, atleti, che chiedono di partecipare al percorso che Antonella sta conducendo. Diciamo che la partecipazione è fortissima. Io credo tuttavia che i grandi elettori (74 in tutto, tra cui 44 presidenti federali tutti uomini! ndr), non saranno chiamati a fare una scelta tra due persone, Bellutti e Malagò, tra le quali c’è una grande stima reciproca, ma tra due modi diversi di gestire lo sport italiano e immaginare il suo futuro.

L’ultimo anno è stato importante per il mondo istituzionale sportivo, principalmente per il dibattito sulla Riforma dello sport. Assist è stata anche protagonista nei lavori delle commissioni parlamentari. Una Riforma – ancora da approvare – che ha toccato vari aspetti, ma che ancora non vi soddisfa. Perché?

La nostra critica va soprattutto nella direzione del mancato riconoscimento dei diritti elementari a chi fa dello sport il proprio lavoro. La Riforma aggiunge delle tipologie di inquadramento lavorativo, autonomo, subordinato, occasionale, ma questo non cambia nulla, perché viene lasciata al datore di lavoro la decisione su come inquadrare l’atleta. È stato un timido tentativo, ma per noi del tutto insufficiente. Pensiamo invece che sia necessario partire dal fatto che il lavoro sportivo esiste, ha una sua dignità e non può subire discriminazioni. Di certo però è necessario che venga dato sostegno alle Asd nel complesso passaggio dell’emersione del lavoro professionistico. Le Associazioni sportive non possono essere lasciate sole. E a chi chiede: dove trovare i soldi? Be’, ad esempio, noi sosteniamo che si debba ridimensionare il ruolo dato ai gruppi sportivi militari, un’anomalia tutta italiana che costa allo Stato 36 milioni di euro. E troppe volte per gli sportivi e le sportive questa è l’unica possibilità per mantenersi, ma ricordiamo che non tutte e tutti debbano volere per forza vestire una divisa. Quei fondi potrebbero invece essere investiti a sostegno delle Asd, dei centri universitari sportivi, dei vivai.

Ci sono stati negli ultimi anni esempi particolarmente positivi in ambito sportivo che vanno nella direzione della parità di genere?

Per lo più iniziative individuali. L’ultima in ordine di tempo è stata la decisione della squadra di ciclismo Trek Segafredo che ha introdotto il minimo salariale per le donne, pari a quello degli uomini. La FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) ha compiuto un grande lavoro per eguagliare i montepremi delle gare di donne e uomini. Da anni possiamo inoltre testimoniare che la Lega Volley Femminile sta cercando di strutturare al meglio possibile le questioni riguardanti i diritti delle atlete. Ma il caso di Carli Lloyd, palleggiatrice della Vbc Casalmaggiore, costretta a rescindere il contratto dopo aver scoperto di essere incinta, ci riporta alla triste realtà. Ci sono contesti sportivi e realtà dove si tenta fare qualche passo in più, ma se questo viene affidato solo a chi rappresenta i datori di lavoro, ossia le società sportive, è ovvio che verrà fatto il loro interesse. Per quel che riguarda nello specifico il diritto a diventare madri, lo Stato ha creato un fondo maternità per le sportive. Una novità positiva, ma si tratta comunque di un palliativo.

Altro aspetto molto delicato in ambito sportivo sono gli episodi di discriminazioni e abusi. Assist come si è mossa in questi anni?

Foto Pixabay

Abbiamo lanciato campagne contro il linguaggio sessista e lesbofobico, ancora molto diffuso purtroppo. Siamo state inserite nel tavolo antidiscriminazioni dell’Unar, con la stessa dignità delle Federazioni nazionali, e questo ci fa grande onore. E poi, come ultima iniziativa, volta in particolare a contrastare il fenomeno degli abusi e delle molestie, abbiamo lanciato SAVE, acronimo di Sport Abuse and Violence Elimination. Si tratta di un servizio nato in collaborazione con la ong Differenza Donna, da anni attiva nel contrasto alla violenza di genere e gestore del numero verde antiviolenza 1522 del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, con cui conduciamo una campagna di sensibilizzazione e forniamo supporto concreto alle ragazze e alle donne che potrebbero essere vittime di abusi. A partire da questa esperienza, la Regione Lazio ha voluto lanciare una campagna contro gli abusi e le molestie nello sport che prenderà via a marzo 2021, toccando Asd e scuole.

A ventuno anni ormai dalla nascita di Assist, se si guarda indietro cosa vede?

Vedo ancora ciò che mi ha spinto a fondare questa realtà, l’amore infinito che ho per lo sport e per la giustizia. Io sono stata un’atleta professionista nella pallavolo, ho vissuto le stesse cose per cui combatto adesso. Ho dato il via a questa realtà con un gruppo di amiche meravigliose con cui lavoro ancora, a cui poi si sono unite lungo la strada molte altre persone. Vedo ancora discriminazioni in un mondo che amo immensamente. E continuerò a battermi, perché ricordo le lacrime mie e delle mie compagne, quando quelle discriminazioni le subivamo, quando venivamo vendute con il nostro cartellino, come se fossimo al mercato delle vacche. E vorrei un mondo diverso per le ragazze di domani.

Criminal Bullets – Roller Derby Padova

Il roller derby è uno sport di contatto sui pattini a rotelle (quad) in cui due squadre si affrontano su una pista ellittica (track) in una gara di velocità, tecnica e strategia. Nasce come sport prevalentemente femminile ed è regolato dalla WFTDA (Women’s Flat Track Derby Association). Ad oggi, è uno degli sport con crescita più veloce a livello mondiale.

Il roller derby nasce e cresce anche come sport autogestito, autofinanziato e fatto da skaters per skaters. Qui non si conoscono gerarchie, ma soprattutto è l’unico sport dove si può giocare con una squadra femminile, “all genders” o maschile in base al genere cui ci si sente di appartenere e a prescindere dal sesso biologico. Per questa ragione il roller derby promuove per statuto valori come l’inclusione, l’antirazzismo e l’antisessismo e possono partecipare tutte le persone a prescindere da età, corporatura e prestanza fisica.  

Le Criminal Bullets sono la squadra di roller derby che dal 2016 promuove a Padova i valori di questo sport. «Per noi lottare contro il sessismo nello sport è dare l’opportunità a tutt* di praticare un’attività in cui sviluppare coraggio, forza, condivisione e autodeterminazione. Lo sport per noi è uno spazio di libertà, dove poter sovvertire le regole patriarcali dominanti nella società. Un rifugio in cui essere noi stess*, ma anche una palestra dove imparare a portare fuori nuovi modi di agire e pensare. Viviamo ogni giorno lo sport come opportunità di autodeterminazione».

I Maratonabili

Tanti cuori e una spinta, per correre insieme verso il traguardo

Correre e sentire il vento sul viso. Consumare chilometri di asfalto, con il caldo del sole o l’odore della pioggia. E poi i colori, i sorrisi, la fatica allegra, le urla di gioia, gli abbracci. Il traguardo. E non importa se non lo si fa con le proprie gambe, perché la corsa, la maratona – lo sport solitario per eccellenza, dove il corpo deve vedersela prima di tutto con la testa – può trasformarsi in un’esperienza collettiva. Un’esperienza di solidarietà e di inclusione, che diventa accessibile anche a chi non ha la possibilità di correre in autonomia. Ed è possibile grazie ai Maratonabili, una realtà nata da un’idea semplice, ma al tempo stesso geniale. Chi corre con le proprie gambe può essere anche la spinta per chi non ha la possibilità di farlo in autonomia.

Di Ilaria Leccardi

I Maratonabili non si muovono mai in silenzio. Ma lo fanno accompagnandosi da cori, canti, parrucche colorate, con l’urlo di battaglia “Uacca uacca” e quell’allegra fatica che solo lo sport ti permette di vivere. La Onlus nasce nel 2009, grazie a Franco Zomer, osteopata e ultramaratoneta toscano, che assieme a un gruppo di amici si lasciò ispirare dalle imprese di Dick e Rick Hoyt, padre e figlio statunitensi che hanno completato in coppia oltre mille competizioni sportive tra maratone, gare di triathlon e duathlon. Rick era disabile a causa di una paralisi cerebrale infantile e Dick – che prima di iniziare quest’avventura non aveva mai corso in vita sua e ora ha più di 80 anni – lo ha spinto sulla sedia a rotelle durante le gare di corsa o trasportato su una bicicletta o un canotto speciali durante le altre prove. E insieme sono diventati un’icona dello sport statunitense.

Carlotta Agosta è torinese. Ama correre e ha un bimbo, Leo, conosciuto anche come “Sorriso contagioso”. Fa parte dei Maratonabili ormai da cinque anni e nelle sue parole c’è molto delle motivazioni che l’hanno spinta a unirsi a questa realtà.

“Amavo correre e li ho conosciuti durante una mezza maratona. Vedevo un gruppo di ragazzi, molto rumorosi e colorati e ho scoperto così di cosa si trattava. Ho iniziato a partecipare alle iniziative del gruppo invitata da un amico, prima spingendo altri ragazzi, in primis il mio amico Fabietto, ora con l’obiettivo – appena si potrà – di spingere anche il mio piccolo Leo. Avrebbe dovuto debuttare come Maratonabile nel 2020 in una gara a marzo, ma purtroppo a causa dell’emergenza sanitaria abbiamo dovuto rimandare. Speriamo che il 2021 sia più clemente da questo punto di vista”.

Ma cosa vuol dire correre spingendo un’altra persona sulla sedia a rotelle? E farlo per 42 km? Perché i Maratonibili nascono proprio per affrontare la maratona, anche se poi nel calendario annuale prendendo parte anche a competizioni più brevi. Prima di tutto bisogna avere gli strumenti giusti: delle sedie speciali che possono arrivare a costare fino a 4.000 euro, del cui acquisto di occupa l’Associazione. Sono ammortizzate e ottimizzate per la corsa, da una parte per essere il più possibile confortevoli per chi le utilizza, dall’altra per rendere più agevole il compito di chi invece deve spingere. Poi vuol dire correre in team, collaborando e stando sempre vicini. Un team composto dalla persona in sedia a rotelle, da una “maglia nera” – runner esperto, con tanti chilometri nelle gambe – a cui viene affidato il ragazzo e che deve iniziare la corsa ma soprattutto tagliare il traguardo spingendo la carrozzina, e almeno due “maglie bianche”, sempre runner dell’Associazione che proteggono la persona trasportata e danno il cambio alla maglia nera nella spinta durante la gara. 

“Non è semplice correre spingendo un’altra persona, anche perché – spiega Carlotta – la corsa è un movimento che coinvolge molto le braccia. E qui invece le mani e la braccia sono salde per la spinta. Ma la forza viene da dentro. E vi assicuro che non facciamo passeggiate, le nostre performance toccano circa i 6 minuti al km! Siamo persone che vivono in diverse zone d’Italia. Ovviamente in Toscana, dove l’esperienza è nata, il gruppo è molto forte, ma anche in Piemonte e in Nord Italia siamo già tanti e tante. Ognuno con la sua storia di corsa e di asfalto consumato sotto le suole. Io personalmente mi alleno alla NeXt di Torino, grazie a cui ho preparato la mia prima maratona, proprio nella mia città. Un’impresa affrontata quella volta in solitaria e dedicata a Leo.

Carlotta Agosta con il marito e il figlio Leo

La NeXt, realtà sportiva torinese di running, ha creato un vero e proprio connubio con i Maratonabili e per inizio marzo 2021 ha organizzato un evento benefico a loro favore, la 4X Virtual Marathon, una maratona virtuale a cui potranno partecipare squadre miste da 4 persone in cui ciascuno dovrà correre in autonomia, tra il 5 e il 7 marzo, una tappa da 10,5 km.

“Io sono una delle poche mamme che corre con il proprio figlio, anche se Leo deve ancora debuttare in una gara ufficiale”.

Generalmente le famiglie affidano i propri figli ai runner che li conducono per tanti chilometri di corsa. Questo significa grande fiducia, anche perché alcuni dei ragazzi hanno disabilità complesse, ma soprattutto significa consapevolezza che il proprio figlio o la propria figlia potranno vivere un’esperienza indimenticabile. 

“Una delle prime protagoniste in sedia a rotelle delle corse con i Maratonabili – continua Carlotta – è stata Margherita Mugnai, tra le fondatrici dell’Associazione. Proprio a Torino alla fine di una gara fu lei a darmi la forza di arrivare al traguardo; anche se le gambe che correvano sull’asfalto erano le mie, era Margherita a spingermi in realtà. Come scrive nel libro che racconta la sua storia, Io sono ancora qua: “Mi sento tremare le gambe come se la fatica l’avessi fatta io”.

Ma nel 2020, in cui tutto si è fermato, non è stato semplice. “Chi fa parte di questa Associazione, sia i runner che i ragazzi e le loro famiglie, è unito da un grande affetto. Siamo una vera squadra. Abbiamo cercato di condurre comunque attività a distanza, coinvolgendo i ragazzi. E quindi abbiamo inventato dei giochi, delle situazioni a cui potessero partecipare mantenendo il legame che la corsa ha creato e rafforzato. Anche perché – inutile nasconderlo – chi ha un figlio con una disabilità ha sentito molto la difficoltà della chiusura dovuta al lockdown”.

Dalla corsa sono nate tante altre opportunità, il confronto, il fatto di sentirsi meno soli con i propri problemi quotidiani.

Ci sono dei requisiti per unirsi ai Maratonabili? “Per chi vuole diventare un cosiddetto spingitore, bisogna ovviamente avere una passione per la corsa. Per diventare maglia nera – spiega ancora Carlotta – devi essere un runner esperto, nelle nostre fila ci sono diversi ultramaratoneti. Per la maglia bianca basta avere un po’ di voglia di faticare e di farsi coinvolgere in questo percorso”. La motivazione più grande? “Il sorriso dei ragazzi durante le gare, la loro felicità al traguardo. Sono impagabili”.   

Nicolò Toscano, rugby senza barriere

Atleta padovano classe 1990 Nicolò Toscano ha iniziato a praticare il rugby in carrozzina nel 2011 (anno dell’introduzione in Italia dello sport) a seguito di un infortunio sul lavoro. Dal 2016 è presidente della società Padova Rugby Onlus con la quale ha vinto nel 2017, nel 2018 e nel 2019 il “Campionato Italiano di rugby in carrozzina”. Dal 2012 è vice-capitano della Nazionale Italiana di Wheelchair rugby con la quale ha partecipato a ben 3 Europei ottenendo come miglior piazzamento un settimo posto ad Anversa (Belgio) nel 2013. Oltre al rugby, Nicolò pratica regolarmente, sin dal 2013, anche il basket in carrozzina nella società CUS Padova. Nel novembre 2017 è stato eletto “Rappresentante Atleti” in giunta Cip Veneto per il quadriennio 2017/2020.

Attualmente pratica regolarmente sia il rugby che il basket, convive con Francesca e ha deciso di rimettersi in gioco, tornando sui libri, Nicolò è infatti iscritto alla facoltà di Educazione Professionale dell’Università di Padova.

Guarda la video intervista di Nicolò

Non affossiamo lo sport di base

Lo sport italiano sta vivendo una delle sue stagioni più difficili. Soprattutto quello di base. Sì, perché dall’inizio dell’emergenza Covid-19, per quanto tutto il Paese abbia subito ripercussioni difficili da affrontare, uno degli ambiti maggiormente colpiti è stato proprio quello in cui operano le Associazioni sportive dilettantistiche. Realtà che vivono grazie alle rette (spesso popolari) pagate dagli iscritti, che fanno affidamento su personale preparato ma non inquadrato contrattualmente, che si confrontano con il problema degli impianti: se privati, con affitti alti e utenze da pagare a fronte di entrate praticamente nulle, se pubblici, comunque off-limits, in quanto per lo più palestre scolastiche inaccessibili in questa fase a personale esterno.

Ne abbiamo parlato con Andrea Bruni, responsabile nazionale CSEN Progetti. Lo CSEN, ente di promozione sportiva, è tra i partner del progetto Odiare non è uno sport e da sempre è impegnato nella promozione dello sport di base e dello sport integrato.

di Ilaria Leccardi

Andrea, come sta vivendo lo sport di base la situazione attuale e le decisioni prese dal governo in seguito all’emergenza Covid-19?

Sembra che nella gestione della situazione sanitaria non ci sia stata attenzione all’importanza che l’attività sportiva ha nella vita delle persone. E in Italia questo è prima di tutto un problema culturale. Invece sappiamo che alcune attività possono essere portate avanti in sicurezza, senza rischi di contagio, nel pieno rispetto delle regole sanitarie. Sia in piscina sia in palestra, ma anche negli sport di contatto. A partire da marzo le associazioni sportive hanno compiuto sforzi notevoli, spesso con costi importanti, per adeguarsi alle disposizioni. Ma tutto questo non è stato sufficiente.

La chiusura è stata un errore?

Dobbiamo dividere tra le imprese sportive commerciali e le Asd, Associazioni sportive dilettantistiche, sono due approcci molto differenti. Per come è stato affrontato il problema, si sarebbe potuto fare più attenzione alle specifiche situazioni e non chiudere tutte le attività in modo uniforme. Sarebbe stato necessario puntare sulla responsabilità individuale con adeguati controlli. Ricordiamoci che le attività sportive di base non sono solo movimento fisico finalizzato al benessere individuale.

Pensiamo ad esempio allo sport integrato, su cui noi come CSEN abbiamo fortemente investito negli ultimi anni e che permette la condivisione, anche sociale, tra persone disabili e non disabili. Ma questa situazione chiude tutto, anche le possibilità rivolte alle persone socialmente più fragili.

Come hanno risposto alla situazione le associazioni affiliate allo CSEN?

Hanno cercato di portare avanti delle attività online. Dal punto di vista meramente sportivo lo puoi fare, ma manca tutta la dimensione psicofisica, di relazione sociale. Un’esigenza reale che non si recupera in alcun modo. Anche tra le fasce di ragazzi più giovani, la mancanza di confronto su questo piano rischia di far crescere delle difficoltà sociali che andranno affrontate. In l’Italia siamo culturalmente più adeguati nella gestione delle emergenze che nella programmazione delle soluzioni e in queste occasioni il nostro limite emerge con chiarezza.

Su cosa si sarebbe potuto puntare per mantenere viva anche in una situazione fortemente critica una qualche forma di attività in presenza?

C’è chi ha proposto soluzioni innovative, senza ricevere ancora troppo ascolto. Ma continuiamo ad insistere per esempio puntando su spazi esterni alle aule scolastiche come i cortili, i parchi, le sedi del terzo settore, gli spazi urbani, le biblioteche, dove poter svolgere attività scolastiche in ambiente esterno anche su argomenti che favoriscono la crescita delle soft skill e delle competenze trasversali. In questo percorso gli Enti del terzo settore potrebbero essere un forte alleato. 

Sono in molti a dire che questa situazione avrà ripercussioni drammatiche a livello di relazioni.

Diciamo che se a marzo-aprile poteva esserci l’elemento di novità e quindi lo stare in casa e trovare soluzioni via web poteva essere positivo, ed era comunque una fase in cui prevaleva psicologicamente la necessità di non uscire per garantire la sicurezza, ora il rischio è che si incorra in una depressione collettiva, un senso di demotivazione generalizzato. Se si era già in una condizione di marginalità, si rischia un aggravamento. Se si viveva in una situazione di povertà educativa, questa diventerà ancora più drammatica.

Potrebbe tuttavia essere un buon momento per tornare a ragionare su alcuni temi chiave dell’universo sportivo?

Sì. Anche perché proprio quest’anno si discute della Riforma dello Sport proposta dal governo. Purtroppo la dialettica per ora si è arenata sulle governance delle presidenze federali. Un potere che parla di se stesso. Ed è un peccato, perché i temi da affrontare sarebbero tanti, tutti molti più interessanti e aderenti alla realtà. Non ultimo l’hate speech, al centro del progetto Odiare non è uno sport, o tutti gli argomenti sociali che stanno dentro alla tematica sportiva più generale, come la violenza, le forme di aggregazione sociale…

Si deve lavorare con una politica chiara per sostenere lo sport in quanto attività educativa e sociale. Non è scontato e non si può pensare di lasciare l’iniziativa al singolo tecnico.

Sembra prevalere uno sguardo attento ai vertici…

Sì, anche in merito alla pratica sportiva. In Italia l’attenzione va sempre molto all’élite, quasi che fare sport a livello amatoriale non sia importante. Come se lo sport non di eccellenza fosse una perdita di tempo. Ma sappiamo che non è così e se le persone stanno bene, fisicamente e mentalmente, è anche perché riescono a seguire una preparazione sportiva completa e continuativa. In Italia ci sono 14 enti di promozione sportiva che sono attivi e a cui deve essere garantito di poter continuare a operare. Sia in termini di agonismo, per consentire a giovani e meno giovani di accedere ai rispettivi circuiti di gare, sia nella pratica sportiva quotidiana finalizzata al benessere individuale. Se si guarda alla curva dell’attività sportiva e motoria in Italia si nota un calo incredibile tra gli adolescenti, perché manca la motivazione se non si fanno le gare. L’idea dominante è che o diventi un’eccellenza o perdi tempo.

E che riconoscimento ha chi ogni giorno lavora nelle palestre?

Quella dell’operatore sportivo è uno delle poche categorie a non avere un contratto di lavoro nazionale. Ora, grazie alla possibilità di richiedere il bonus, Sport e Salute [la società di servizi a cui è affidato il compito di occuparsi dello sviluppo dello sport in Italia, ndr] sa potenzialmente quanti sono i tecnici sportivi nel nostro Paese e a loro andrebbe garantita la possibilità di godere di un contratto stabile. Questo, tuttavia, comporterebbe per le piccole associazioni sportive un aumento dei costi e si tratta di un problema che va affrontato a livello nazionale. La piccola Asd, per poter garantire degli inquadramenti corretti, deve essere sostenuta, altrimenti si aggiusta una falla nel sistema ma se ne crea un’altra.

Sappiamo che a settembre, anche prima della chiusura forzata, molte Asd hanno dovuto confrontarsi con un calo delle iscrizioni. Un po’ per paura, un po’ per soldi, le famiglie hanno anticipato il governo nella decisione di non iscrivere i propri figli all’attività sportiva. E molte realtà rischiano la chiusura per l’impossibilità di far fronte ai costi, soprattutto degli impianti. Quando si potrà fare una valutazione concreta sulle ripercussioni di questa annata?

Sul livello dei tesseramenti ad oggi abbiamo delle cifre che non danno dei riscontri reali, perché molte persone si sono iscritte a inizio anno, ma non è detto che abbiano poi mantenuto una frequenza nelle rispettive realtà. La valutazione sarà da fare nel primo trimestre del 2021. Le associazioni sportive per poter lavorare devono essere inserite nell’albo nazionale gestito dal Coni e se il prossimo anno ci saranno meno richieste di affiliazione dovremo purtroppo constatare che alcune avranno chiuso.

St Ambroeus e il calcio senza confini

La St. Ambroeus FC, squadra di calcio milanese nata nel 2018 dalla fusione di varie società, è stata la prima squadra interamente composta da rifugiati e richiedenti asilo a esordire in un campionato FIGC, Federazione Italiana Gioco Calcio, aggirando l’annoso problema legato ai tesseramenti per i quali, stando ai regolamenti federali, è necessario avere permesso di soggiorno in corso di validità oppure l’appuntamento per il rinnovo.

Attualmente la squadra milita in Terza Categoria Milano Girone D in Lombardia ed ha al suo interno calciatori di 14 nazionalità diverse. Un progetto non solo di integrazione, ma di vero e proprio meticciato, che ambisce a modificare le rigide regole della burocrazia sportiva italiana, che ancora impediscono a tanti e tante di non praticare lo sport a livello agonistico.

Nel video l’intervista a Muhamad (calciatore), Jacopo e Camilla (dirigenti) della St. Ambroeus FC e Tommaso, esponente di Armata Pirata, gruppo di supporters della squadra.