Valentina Petrillo

“Sogno un futuro in cui nessuno debba più sentire storie come la mia. Sogno un futuro in cui non ci siano più bambini, bambine, adolescenti, costretti e costrette a nascondersi, ad avere paura, a non potersi esprimere per quello che sono: in famiglia, nella società, nelle attività di tutti i giorni. E nello sport, sì, anche nello sport”.

Valentina Petrillo è una campionessa paralimpica che gareggia sulle distanze dei 200 e 400 metri nella categoria T12, riservata alle persone ipovedenti. Dall’età di 14 anni soffre della sindrome di Stargardt, che preclude fortemente la vista. Ma Valentina è anche una persona che sta scrivendo la storia dello sport italiano e internazionale. È infatti la prima ad aver affrontato la transizione di genere a correre nella categoria a cui si sente di appartenere: le donne.

Di Ilaria Leccardi

Il 2021 sarà un anno fondamentale per lo sport. Dopo il rinvio causa Covid dei Giochi di Tokyo, il mondo è in attesa di capire se sarà possibile disputare l’evento. E nel frattempo tutti i campioni che puntano a quel traguardo sono in lotta con se stessi o gli avversari per conquistare il pass. Valentina è in forma, finalmente. Il corpo risponde bene agli allenamenti e le gambe girano forte. Nel meeting di Ancona del 31 gennaio ha fatto siglare il record italiano paralimpico femminile sui 400 metri. “Dal punto di vista sportivo è un momento importante, questa era la seconda uscita stagionale. Una settimana prima, ai Campionati paralimpici, avevo vinto ma con un tempo più alto. Qui, oltre all’oro, sono riuscita a segnare il nuovo primato italiano assoluto sulla distanza, con il tempo di 1’02.88. Sono molto felice. Ho dato il via a una fase importante che potrebbe darmi molte soddisfazioni. E questo, a due anni dall’inizio della terapia ormonale”. La strada per Tokyo è ancora lunga: la prossima tappa fondamentale sarà il weekend del 15/17 aprile, quando a Jesolo si terrà il Meeting internazionale paralimpico, prima occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e quindi ritenuti validi per i pass a cinque cerchi.

“Per molti il 2020 è stato un anno terribile. A me, nonostante tutto, ha permesso di prepararmi al meglio e ha consentito al mio corpo di abituarsi alla terapia ormonale che è tutto fuorché una passeggiata”, prosegue.

Valentina corre perché è nata per farlo. E corre fin dal giorno in cui, ad appena sette anni, vede Pietro Mennea volare sui 200 metri ai Giochi di Mosca. Ma Valentina per troppi anni è costretta a vivere una vita che non è la sua.

Io sono il classico esempio di una persona che per timore dello stigma sociale si è tenuta tutto dentro. L’impatto della società, di cosa avrebbe potuto comportare essere veramente me stessa, ha inciso molto sul mio percorso di vita.

foto FISPES – Mantovani

“Ho provato a lottare per rimanere nel posto assegnatomi dalla società, che inscatola i bambini maschi con un fiocco azzurro. L’ho fatto fino a quando sono esplosa. Per 44 anni non ho avuto strumenti, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. Sono nata nella Napoli degli anni Settanta, dove i femminielli erano considerati la “feccia” della società. Con una cugina più grande di me che, dove aver dichiarato di essere trans, venne cacciata di casa dal padre e non fece una bella fine. Avevo paura e mi sono nascosta”.

Poi però arriva il momento in cui Valentina non può far altro che essere se stessa. Prima di iniziare il percorso di transizione, aveva già vinto 11 titoli italiani paralimpici maschili nella sua categoria di disabilità. Lo sport è sempre stato importante, ma a un certo punto la scelta di iniziare la transizione diventa prioritaria. “Sentivo che per essere me stessa dovevo arrivare a realizzarmi in quanto donna, a prescindere dallo sport. Se poi fossi riuscita a coronare il sogno anche in ambito sportivo, sarebbe stato fantastico”.

Un ruolo centrale nel suo percorso lo ha il Gruppo Trans di Bologna che da anni segue e affianca le persone nei percorsi di transizione. “Fino al giorno in cui non ho varcato la soglia dell’Associazione, grazie al consiglio di un’amica, e ho visto quella che poi sarebbe diventata una delle persone di riferimento per me, Milena, non potevo immaginare la normalità della situazione. Nel mio immaginario le persone trans erano sempre e solo associate a contesti degradati, di strada. Invece davanti a me vidi una ragazza in scarpe da ginnastica e jeans. Le chiesi se potevo toccarle la mano e capire se fosse reale. La guardai e dissi: ‘Sei la persona che ho sempre saputo di essere, ma che non avevo mai incontrato’. A quel punto avevo capito chi fossi”.

Il percorso di transizione per Valentina inizia quasi subito dopo quell’incontro. Cosa non scontata, visto che prima di avere l’ok da parte dei medici è necessario una lunga valutazione, anche psicologica. “Per me è stata abbastanza rapida, perché era chiara la mia determinazione. Io ero dell’idea che, a prescindere dalla terapia, avrei comunque iniziato a vivere da donna, nei contesti privati e in quelli pubblici”.

L’impatto sul corpo delle persone che affrontano il percorso di transizione non è semplice. Valentina in un mese ingrassa di 10 chili e dopo tre mesi non riesce a correre. È fisicamente spossata, la sua temperatura corporea si abbassa di 2 gradi. La muscolatura fa molta più fatica a recuperare. Le prime gare le affronta dopo sei mesi, ancora nella categoria maschile, e il calo delle prestazioni in pista è evidente. Ma non si arrende, soprattutto con l’obiettivo di gareggiare finalmente nel genere che le appartiene.

I momenti più difficili, ricorda, sono due. I primi mesi del 2018, “quando iniziavo a uscire di casa vestita da donna, ma negli ambiti sociali come il lavoro vivevo ancora da uomo. E per me era terribile, una sorta di sdoppiamento di personalità, in cui sentivo che Valentina chiamava, ma non potevo sempre rispondere”. L’altro è stato nel 2019, poco dopo l’inizio del percorso di transizione, quando le Federazioni sportive le dicono che il suo sogno di gareggiare con le donne è irrealizzabile.

foto FISPES – Mantovani

Poi qualcosa cambia. Da una parte l’Uisp e il Gruppo Trans intervengono per sollecitare un passo in avanti, poi – nel giugno 2019 – l’incontro con Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. “Gli mandai una mail e lui mi convocò. Fu un incontro bellissimo, in cui parlammo di tutto tranne che di sport. ‘Valentina- mi disse – io ti vedo come vedevo me stesso dopo l’incidente che provocò la mia disabilità. Ti capisco’. Non so bene cosa sia successo, ma so che a un certo punto la FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, mi aprì le porte”.

L’11 settembre 2019 Valentina Petrillo diventa la prima persona trans a correre nella categoria del genere di appartenenza. E poi, a ottobre, si aprono le porte anche della Fidal, nei campionati Master ad Arezzo.

Fin dall’inizio Valentina si pone il dubbio se sia giusto o meno gareggiare con le altre donne. Ma la risposta, la più semplice possibile, arriva dalla dottoressa Joanna Harper, medico statunitense che da anni approfondisce il tema dalle persone sportive che affrontano la transizione. Lei ricorda a Valentina che esistono regole internazionali da questo punto di vista e che rispetto al passato i diritti delle persone trans sono stati finalmente affermati. Fino al 2003, infatti, non era nemmeno pensabile che una persona trans potesse gareggiare con il genere a cui si sentiva di appartenere. Poi un passo avanti è stato fatto con le prime linee guida, in vigore dal 2003 al 2015, secondo cui i requisiti erano: l’operazione per il cambio di sesso, il riconoscimento legale del proprio cambio di genere e almeno due anni di terapia ormonale. Dal 2015, invece (anche per andare incontro a quelle persone che vivono in Paesi dove il cambio di sesso non è consentito), l’unico requisito è dettato dal livello di testosterone nel sangue: 5 nanomoli. Un livello basso, rispetto al quale – tra l’altro – Valentina è ben sotto.

“Capii che era stato lo stesso CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, ha indicare cosa potevo fare. Non ero un’eretica, chiedevo solo che le regole venissero applicate, anche se fossi stata la prima. E così, dopo qualche chiusura iniziale, il sogno si è avverato. La cosa più straordinaria, forse, è che sia successo proprio in Italia, un Paese dove su certe aperture non siamo certo all’avanguardia. Ma ben venga!”.

foto FISPES – Mantovani

Tuttavia, al di là di quello che le Federazioni hanno permesso, non tutti o tutte hanno accolto bene l’arrivo di Valentina nelle gare femminili. “Sui social – ci spiega – ho imparato a non leggere più i commenti. Solo il primo giorno in cui mi sono esposta come donna ho risposto a una persona che mi attaccava, ma poi, anche su consiglio dei miei collaboratori, ho deciso di lasciar perdere. Nel mondo reale, ho avuto un’ottima accoglienza nell’ambiente paralimpico, dove le persone sono più abituate ad avere a che fare con la diversità, e dove mi conoscevano già bene perché avevo vinto molto prima di iniziare la transizione. Nel mondo sportivo dei cosiddetti normodotati, invece, l’accoglienza non è stata calorosa. So che c’è chi si è lamentata della mia presenza e addirittura c’è chi ha detto che boicotterà eventuali gare a cui mi presenterò”.

Purtroppo lo sport è un ambiente molto sessista, dove – anche necessariamente – vige la divisione agonistica tra maschi e femmine. Ecco perché farsi accettare può essere ancora più dura che nella vita di tutti i giorni. Io stessa penso che delle perplessità siano legittime. Ma noi abbiamo il dovere di fare informazione. Ci sono stati studi di anni per arrivare a stilare le linee guida del CIO e io le sto semplicemente rispettando”.

Sulla storia di Valentina sta venendo prodotto anche un documentario 5 Nanomoli, prodotto da Ethnos e Gruppo Trans, in collaborazione con Uisp e Arcigay. “La visibilità che ho acquisito in seguito alla decisione che ho preso per la mia vita mi fa piacere, anche se ho sofferto molto negli ultimi mesi per l’invadenza e l’intromissione nella vita privata. Molte domande fuori luogo, molte morbosità che mi hanno infastidita. Io penso sempre alla mia amica, la campionessa paralimpica Martina Caironi: qualche giornalista farebbe mai a lei le stesse domande che pongono a me? Credo proprio di no… Eppure sono consapevole che tutto questo servirà. A me da giovane sono mancati gli esempi positivi. Se a 14 anni avessi visto in televisione una Valentina Petrillo che faceva sport, avrei pensato: caspita, ma allora è possibile! E non mi sarei stata nascosta per così tanto tempo. Non posso dire di avere avuto una brutta vita, anzi. Ma sicuramente non era la mia. Cresciamo in una società in cui non è possibile vedere altre strade che quelle imposte dai ruoli che ci pongono alla nascita. E se quei ruoli non li rispettiamo siamo fuori dai canoni, siamo persone sbagliate”.

Nel futuro c’è Tokyo, ma soprattutto un grande sogno: “Io vorrei che Valentina non fosse più il caso a cui guardare con curiosità, ma che dalla mia storia venisse fuori la normalità. Perché ogni persona che viene al mondo deve potersi esprimere e deve poter vivere per quella che è. E non dobbiamo rimanere in silenzio. Lo dico anche pensando a quanto sia stato simile il percorso che ho affrontato per accettare la mia disabilità, l’ipovedenza. Per anni ho parlato ai ragazzi dell’importanza di accettare e rispondere alla malattia, ora lo voglio fare per contribuire a rendere il nostro mondo più vero, sincero e libero. Solo così potrà essere un mondo più felice”.

Amicacci Giulianova: il canestro dell’inclusione

Uscire dall’emarginazione, combattere l’indifferenza, fare della propria difficoltà un punto di forza per sperimentare nuove forme di inclusione e autodeterminazione. La palla da basket in mano, un canestro in alto ad aspettarla. Un sogno che si è realizzato, attraverso un percorso di crescita collettiva, che ha portato un cittadina abruzzese ai vertici sportivi europei.

È la storia dell’Amicacci Giulianova, una Polisportiva che ha al centro della propria attività il basket in carrozzina, una disciplina sportiva basata sull’inclusione, in cui non esiste spazio per alcuna forma di discriminazione, in cui nelle squadre di club le donne possono giocare con gli uomini e in cui il regolamento è pensato ad hoc per accogliere persone con disabilità differenti, tutte in campo con l’obiettivo di fare canestro.

L’Amicacci è la società sportiva a cui appartiene Beatrice Ion, la giocatrice azzurra di origine romena salita alle cronache per il vergognoso attacco razzista subito vicino a casa, in un villaggio di Tor San Lorenzo, ad Ardea, alle porte di Roma, dove vive con la famiglia. Un episodio inqualificabile. Dopo aver lamentato l’occupazione costante del proprio posto auto disabili riservato vicino a casa, il padre di lei è stato aggredito fisicamente ed è finito in ospedale con uno zigomo rotto, e la ragazza è stata insultata in quanto disabile e straniera. Tutto il mondo sportivo e non solo si è stretto attorno a Beatrice e alla sua famiglia. Ma questo episodio, così come le assurde code polemiche alimentate via social a cui la stessa Beatrice ha risposto, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per sensibilizzare la cittadinanza contro ogni forma di discriminazione, favorendo invece percorsi di inclusione. Ed è un lavoro lungo, proprio come raccontano la storia dell’Amicacci e del movimento del basket in carrozzina. Ne abbiamo parlato con Ozcan Gemi, ex giocatore e allenatore della squadra e di Beatrice, di origine turca, che dal 2002 fa parte della realtà abruzzese.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dagli inizi. Come è nata l’Amicacci e perché proprio il basket in carrozzina?

La società è nata nel 1982, grazie all’attenzione di un gruppo di genitori – tra cui Giuseppe Marchionni, Edoardo D’Angelo, Ronald Costantini – che, accompagnando i figli costantemente in centri di medicina e fisioterapia per problematiche legate a diverse patologie, sono venuti a conoscenza del mondo sportivo paralimpico. E hanno capito che la disabilità non poteva essere un freno alla vita ma che, anzi, i ragazzi avevano bisogno di svolgere un’attività fisica come possibilità di riabilitazione e socialità. Il primo torneo venne organizzato nel 1984 e all’epoca la cittadinanza ancora non sembrava pronta a comprendere l’importanza di un percorso di questo tipo. Ma poco per volta, con l’impegno costante di tanti volontari e famiglie, il sogno è diventato realtà. Negli anni ’90 addirittura Giulianova è divenuta il centro di un torneo internazionale estivo, organizzato all’aperto, che ha permesso un avvicinamento di tutta la città a questo straordinario sport.

Presto è arrivato l’alto livello, com’è stata la scalata ai vertici?

Dagli anni ’90 l’Amicacci si è iscritta al campionato nazionale. Dopo alcune stagioni in A2, 2007 siamo stati promossi nella massima serie e da allora non siamo più retrocessi, confermandoci sempre ai vertici del campionato italiano. Il risultato migliore a livello nazionale è stato il secondo posto nel 2018, quando siamo sconfitti in finale playoff.

Avete però un nome anche a livello europeo.

Attualmente siamo la nona squadra nel ranking continentale su circa 300 formazioni. Negli anni passati abbiamo ottenuto importanti risultati come la vittoria della Challenge Cup nel 2011 e della André Vergauwen Cup nel 2012, il secondo più importante torneo europeo. Nel 2018 siamo arrivati ai quarti di finale di Champions.

Siete un’eccellenza, ma vivete ancora degli sforzi dei volontari. Quanto è importante il lavoro con i giovani e l’attività rivolta allo sport di base?

Anche se i nostri campionati prevedono grandi investimenti, sia per le trasferte sia per il mercato dei giocatori che ormai ha un respiro internazionale (nell’ultima stagione su 12 giocatori in rosa, ben 5 erano stranieri), il sostegno dei volontari è fondamentale. Anche perché abbiamo una finalità sociale molto spiccata e lavoriamo per promuovere lo sport di base e tra i giovani. Da alcuni anni ormai portiamo avanti il progetto Amicuccioli, ossia una squadra giovanile di basket in carrozzina, che partecipa al campionato nazionale. E poi abbiamo avviato il progetto Èsportabile: incontriamo le scuole mostrando loro un documentario che racconta la storia di tre ragazzi con disabilità differenti, e alimentando il dibattito e il confronto sul tema. Vogliamo sensibilizzare, far conoscere quali sono gli aspetti della vita di un ragazzo disabile a chi non vive tutti i giorni questa condizione.

Quali sono le caratteristiche principali del basket in carrozzina?

Innanzitutto bisogna ricordare che è uno dei principali sport paralimpici, uno sport molto completo, si gioca su campi regolamentari di basket, con la stessa palla e il canestro posto alla stessa altezza della pallacanestro classica. La carrozzina è personale, realizzata su misura con le ruote inclinate per dare maggior stabilità (insieme alle rotelle anti-ribaltamento poste sul retro) e per difendere il giocatore durante i contrasti che sono frequenti nel corso delle partite.

E qual è il criterio per comporre le squadre? Visto che le disabilità, e di conseguenza la mobilità dei giocatori, possono essere differenti…

Ad ogni giocatore, in base alla propria disabilità, viene assegnato un punteggio. Il totale della squadra non deve superare 14,5 punti. Questo porta le formazioni a essere composte da persone con disabilità più e meno gravi. Più la disabilità è importante più il punteggio del singolo giocatore è basso. L’inclusività del nostro sport si basa proprio su questo. Un meccanismo che consente alle ragazze di giocare con i ragazzi, perché anche in questo caso si può andare a compensare il punteggio portato dalla giocatrice (che ha un abbattimento di 1,5 punti) con quello degli altri componenti della squadra. Stesso discorso per i normodotati senza alcuna disabilità, che nel minibasket e nel campionato di serie B possono essere inseriti in squadra, portando con sé un punteggio più alto.

Cos’ha comportato per la vostra realtà e il movimento italiano del basket in carrozzina l’emergenza COVID19?

L’annullamento di tutti i campionati… Lo scudetto quest’anno non sarà assegnato. E anche la “dispersione” dei giocatori, molti dei quali nel nostro caso non sono originari di Giulianova, ma vengono da altre città italiane o dall’estero, e sono tornati a casa. Quindi ora non ci stiamo allenando come gruppo. Per l’attività di base è stato altrettanto difficile, perché per molti mesi non si è potuti tornare in palestra.

Raccontaci qualcosa di Beatrice Ion. Quanto vi ha colpito il terribile episodio di cui è stata vittima?

Beatrice è una giocatrice dell’Amicacci da due anni. L’ho conosciuta durante un campo di minibasket che organizziamo ogni anno, a cui partecipano bimbi e ragazzi di diverse età per una settimana di sport e divertimento. Lei giocava al Santa Lucia di Roma ed era già molto brava. Due anni fa le ho proposto di venire a giocare nella nostra squadra e ha accettato, si è trasferita in zona e si è iscritta all’università di Teramo.

Quello che è successo a Beatrice è inaccettabile e indescrivibile ed è lo specchio di quanto razzismo e scarsa cultura del rispetto ci sia nella nostra società.

L’abbiamo sentita particolarmente sconvolta, soprattutto per l’aggressione fisica subita dal padre.

Beatrice Ion in una fotografia di Daniele Capone

Al di là dell’episodio singolo, quanto lavoro c’è ancora da fare per stimolare una cultura del rispetto e dell’attenzione alle persone con disabilità?

Molto. Diciamo che la società sta crescendo, ma ancora bisogna lavorare. Ad esempio nella nostra regione, l’Abruzzo, abbiamo grandi differenze tra la zona costiera dove le città sono a misura di tutti, mentre nell’interno non è ancora così. E lo vediamo girando per le strade tutti i giorni, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ma non è un’attenzione che si deve avere solo nei confronti delle persone con disabilità, ma verso tutti, gli anziani, una madre o un padre che spingono un passeggino. Spesso noi andiamo nelle scuole per incontrare i ragazzi, grazie al nostro progetto di sensibilizzazione, e portiamo un bagaglio di esperienza. Spieghiamo l’importanza degli scivoli e dei parcheggi per disabili, soprattutto per garantire l’autonomia alle persone. Certe cose non sono scontate. Faccio un esempio: a me non serve che il posto auto riservato sia davanti all’ingresso del luogo dove devo andare, ma mi serve che abbia dello spazio attorno per aprire completamente la portiera della mia macchina, appoggiare la carrozzina per terra, uscire dall’auto, sedermi sulla carrozzina e muovermi in autonomia. Sono cose a cui una persona che non vive queste difficoltà a volte non arriva neanche a pensare.

Chi vive la disabilità quotidianamente non ha bisogno di essere compatito, ma di essere rispettato e tenuto in considerazione. Una società attenta ai diritti dei più deboli non può che essere una società avanzata e che lavora per il benessere di tutti.

Assunta Legnante

Nulla come lo sport ti fa crescere e conoscere le tue potenzialità

Se è vero che dopo la pioggia e la tempesta torna sempre il sereno, se è vero che anche nelle notti più buie arrivano le stelle a illuminare una porzione di cielo, è anche vero che ci sono luoghi – e persone – in cui la luce non manca mai. Anzi, la si vede brillare a distanza. E quella luce non fa che trasmettere calore. Assunta Legnante è un’icona dello sport azzurro. Tra le migliori interpreti del getto del peso a livello internazionale per tante stagioni, un oro e un argento europei, un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo, una decina di anni fa ha dovuto fare i conti con un problema che si portava dietro dalla nascita, un glaucoma che l’ha condotta alla cecità totale. Ed è così che un giorno è arrivato il buio? No, perché Assunta è una di quelle persone in cui la luce non si spegne, anzi brilla di continuo, e che ha proseguito sulla sua strada affrontando la realtà, senza rimorsi, e con un sogno che l’ha guidata oltre il limite. Oggi è due volte campionessa paralimpica, primatista e pluricampionessa mondiale, capitana delle spedizioni azzurre, amatissima dai fan sul campo e sui social. Un esempio per tutto il mondo dello sport italiano, ma non solo.

di Ilaria Leccardi

Partiamo guardando al passato. Com’è nato in Assunta Legnante l’amore per l’atletica e una disciplina così particolare come il getto del peso?

All’atletica mi sono avvicinata 15enne, a scuola, grazie ai vecchi Giochi della Gioventù, un bellissimo veicolo per avvicinare i ragazzi al mondo sportivo. Fino ad allora praticavo la pallavolo: ero già molto alta, avevo un bel futuro davanti, ma nella mia zona, Napoli, non c’erano squadre di buon livello che mi potessero offrire un futuro brillante. A scuola iniziai a sperimentare diverse discipline, corsa, salti, fino a quando mi misero in mano un peso e i professori notarono che ero portata. Nel giro di poco tempo feci molti progressi e trovai una società di Napoli dove allenarmi in maniera continuativa. L’atletica mi aveva aperto le porte di un futuro straordinario.

Forza, esplosività. Tu sei alta quasi un metro e 90 e hai una notevole potenza fisica. Ma il getto del peso prevede soprattutto una grande tecnica…

La maggior parte delle persone pensa che la mia disciplina si riduca al prendere in mano una palla di ferro e lanciarla più forte possibile. Ma non è così, è tutto un equilibrio di forza, velocità, agilità, si lancia molto anche di gambe, serve tecnica. Un errore nel gesto può portarti a perdere mezzo metro sulla lunghezza del lancio.

Assunta Legnante doppio oro ai Mondiali di Dubai 2019 – foto Marco Mantovani/FISPES

Questione di attimi e concentrazione. E poi quell’urlo una volta che il peso si stacca dalla mano. Lo capisci subito quando un lancio è andato bene?

Io sì… L’urlo del lancio ha due sensi. Il primo è liberatorio, perché il gesto lo si compie in apnea, senza respirare, quindi liberi l’aria appena finisci. L’altro è perché quando ti rendi conto che il lancio è uscito bene e hai sentito tutte le sensazioni buone, esplodi di gioia.

La tua carriera è stata fin da subito un crescendo. Medaglie, record italiani, Giochi Olimpici. Poi cos’è successo?

Ho gareggiato per tanti anni con i normodotati, ho vinto medaglie agli Europei indoor, ai Giochi del Mediterraneo, ho avuto una carriera importante. Ma il sogno è sempre stato quello Olimpico. Nel 2004, nonostante avessi strappato il pass per Atene, il medico oculista del CONI mi fermò a causa di un problema oculare congenito, per cui – mi disse – rischiavo di rimanere cieca. Quattro anni dopo, però, fui io a non volermi fermare. Sapevo che il problema persisteva e continuare a quei livelli avrebbe comportato un rischio ancora maggiore. Ma decisi di affrontarlo, pur di vivere l’esperienza a cinque cerchi. Diciamo che sono andata incontro al buio di mia spontanea volontà. Volevo arrivare a quella gara, altrimenti non mi sarei sentita un’atleta realizzata. Ci sono riuscita e dopo due anni ho smesso, perché poi la malattia si è fatta sentire concretamente. Nel 2009 ho affrontato il mio ultimo anno da atleta normodotata, vincendo l’altro l’argento ai Giochi del Mediterraneo di Pescara, e il campo visivo iniziava a restringersi, me ne accorgevo nelle cose di tutti i giorni. Anche quando dovevo riprendere il peso dopo il lancio, facevo fatica a trovare l’attrezzo. Poi i problemi sono aumentati. Mi è caduta la retina, ho affrontato visite e interventi e con il passare del tempo la vista si è spenta.

Come hai vissuto questa situazione?

In realtà devo ancora realizzare, anche se sono passati diversi anni. Non ne ho avuto il tempo. Ho avuto la certezza di essere diventata cieca totale a marzo 2012. Ma dopo appena un mese ci fu chi nell’ambiente dell’atletica mi propose: Assunta, cosa ne dici di partecipare alle Paralimpiadi di Londra? E io: Siete pazzi? Non conoscevo nulla del mondo paralimpico e per me era impossibile immaginare che una persona non vedente potesse partecipare a una gara di getto del peso. Conoscevo i casi di persone amputate che correvano, o di chi si faceva accompagnare dalla guida, ma poco di più. Allora ne parlai con Nadia Checchini, tecnica che ancora oggi mi fa da guida in Nazionale, le feci una domanda per avere le prime informazioni. E poi, la mia seconda domanda è stata: quant’è il record del mondo? Un mese dopo, il 13 maggio, ho disputato la mia prima gara paralimpica a Torino, il campionato italiano, con l’obiettivo di realizzare la misura per ottenere il pass per Londra: feci 13,22 metri, pass e record del mondo superato di oltre 2 metri. Da allora non ho fatto altro che continuare ad allenarmi. Purtroppo quell’anno, a giugno, mancò mia madre, e poi poco dopo partii per le Paralimpiadi… E fu subito oro. La mia vita non si è mai fermata.

Cosa è cambiato dal punto di vista sportivo e delle sensazioni in pedana di gara?

Per me nulla, se non nel momento in cui mi accompagnano in pedana. Il momento del lancio è pura concentrazione. Sono sola con me stessa e le mie sensazioni.

E nella vita di tutti i giorni?

Sono sempre stata abituata a essere autonoma. Andai via di casa a 18 anni, trasferendomi ad Ascoli Piceno per allenarmi, subito dopo il diploma. Ho viaggiato tanto grazie all’atletica, ho conosciuto l’Italia e il mondo. E ho voluto anche in questa situazione mantenere la mia autonomia. Certo, però, ci sono cose che da sola non riesco più a fare come prima: la spesa da sola, una passeggiata. E allora sapete cosa faccio?

Uso la scusa di non avere né un bastone né un cane guida per coinvolgere altre persone, per creare momenti di socialità, per portare coloro che la vista ce l’hanno a vivere la mia vita, a comprendere le difficoltà di una persona non vedente.

Hai quasi 42 anni, hai ancora voglia di allenarti e puntare in alto?

Il mio obiettivo immediato ora è Tokyo 2020. Le difficoltà della vita agonistica di alto livello ci sono, l’età avanza, i dolori aumentano. Lo sport fa bene, ma quando si gareggia ad alti livelli per anni, allenandosi 12 o 13 volte a settimana, i problemini emergono per forza, la schiena, le articolazioni. Il sogno? Diciamo che nella mia vita non sono mai stata in America… e festeggiare i 50 anni a Los Angeles 2028 potrebbe essere un bel traguardo ambizioso, ma non impossibile. Fino a quando arrivi sul gradino più alto del podio gli stimoli ci sono.

Quanto è aumentata in questi anni l’attenzione al mondo paralimpico?

L’attenzione c’è quando arrivano le medaglie. I tifosi si riconoscono nei propri campioni, ne condividono la storia, i successi fanno appassionare tante persone. E il movimento italiano paralimpico è molto cresciuto, cercando di avvicinarsi sempre di più allo sport olimpico, con una maggiore professionalità e ciclicità negli allenamenti.

Tu però non ti accontenti mai e sei tornata anche a gareggiare nel circuito non paralimpico.

Sì, ogni anno faccio le mie due o tre gare con le normodotate e le mie soddisfazioni me le tolgo… E poi ho allargato un po’ le attività in ambito paralimpico. Dal 2012 gareggio anche nel lancio del disco, benché rispetto al peso sia una disciplina differente. Per me ormai lanciare il peso è un gesto meccanico, per cui il mio cervello ha un automatismo assodato. Imparare a lanciare il disco non vedendo è stato molto difficile.

Eppure anche qui ti sei tolta delle soddisfazioni perché agli ultimi Mondiali di Dubai oltre all’oro nel peso è arrivato quello nel lancio del disco con record europeo. Con una mascherina particolare…

Sì, dopo aver usato per un periodo la mascherina di Diabolik, ho deciso di far scegliere sui social ai miei tifosi la nuova mascherina per i Mondiali… E loro hanno scelto quella dell’Uomo Tigre!

Questa è l’anima buona dei social. Se spesso rischiano di diventare terreno di astio e aggressività, possono anche essere un veicolo positivo di coinvolgimento.

Assolutamente sì. Io con i social ho un ottimo rapporto. Non sono una fissata, ma gestisco il mio profilo e ho una grande risposta dai miei fan che cerco di coinvolgere il più possibile. Per una persona che mi segue vedermi vincere due medaglie mondiali indossando una mascherina che lei stessa ha contribuito a scegliere penso sia una bella soddisfazione. È un modo per sentirsi vicini, fare parte di una comunità, contribuire con un piccolo gesto di sostegno a un successo sportivo in cui tutti si possono riconoscere.

Hai mai vissuto invece episodi spiacevoli?

In realtà no, né sui social né quando ero ragazzina e – lo dico ora con certezza – per fortuna allora Facebook e i telefonini ancora non c’erano. Sono sempre stata una ragazza isolata, un po’ sulle mie. Ed è grazie allo sport che sono fiorita e ho imparato ad aprirmi.

Cosa può insegnare lo sport da questo punto di vista?

Io consiglio a tutti i ragazzi di fare attività sportiva, non per puntare a una vittoria o a una medaglia, perché lo sport ti fa crescere. Io quando ero piccola avevo vergogna di tutto, vivevo le interrogazioni tremando, non avevo sicurezza in me stessa.

Lo sport ti permette di conoscere gli altri e confrontarti con loro, con il mondo, sentire gli accenti delle diverse regioni italiane. Se ti va bene inizi a viaggiare e spostarti, entri in contatto con qualcosa al di fuori della tua stretta cerchia. E questo ti aiuta a rafforzare la tua autostima, ti fa riconoscere nell’altro. Ti dà la possibilità di conoscere i tuoi mezzi e le tue potenzialità, di metterle in marcia. E se non stiamo bene con noi stessi non possiamo pensare di stare bene con gli altri.

Se dovesse leggere questa intervista un ragazzo e una ragazza che ha subito episodi di bullismo, che consiglio daresti?

Prima di tutto di non restare in silenzio e, se ci riesce, di parlarne con i genitori, con i professori se la cosa è successa a scuola, o anche solo con un amico. La forza va trovata in sé, ma anche nell’aiuto degli altri. La cattiverie vanno fatte scivolare addosso anche se, il più delle volte, non è semplice. Purtroppo chi commette atti di bullismo è perché spesso si porta dietro qualche ferita che poi riversa sugli altri. Dovremmo tutti tornare a parlarci, trovare un equilibrio nelle nostre capacità e cercare di inseguire i nostri sogni.