Le donne nel calcio? Danno ancora troppo fastidio

Perché la presenza delle donne nel calcio dà ancora così fastidio, scatena commenti sessisti e rende i social cassa di risonanza e ring di scontro a suono di insulti? E perché una donna nel calcio fa notizia, genera titoli e flusso di commenti sui social quasi mai per una sua prestazione sportiva?

di Ilaria Leccardi

Ce lo racconta – purtroppo bene – l’episodio che ha visto coinvolta Guadalupe Porras, guardalinee spagnola, componente della terna arbitrale impegnata nella partita di Liga spagnola maschile tra Betis Siviglia e Athletic Bilbao, giocata domenica 25 febbraio. Con la partita sull’1 o 0 per il Betis, muovendosi rapidamente sulla linea laterale è stata colpita in pieno al volto da un cameraman con steadycam che ha varcato in modo maldestro la soglia del campo, entrando nella sua zona di azione. Uno scontro violento, fortuito, che ha provocato una profonda ferita al volto di Porras, costretta a lasciare il campo in una maschera di sangue.

La notizia ha fatto il giro del web, con foto e articoli pubblicati da tutte le principali testate sportive e non. L’aspetto sconcertante è che ai post – in Italia su tante pagine social, in particolare su quella del più letto quotidiano sportivo, la Gazzetta dello Sport, ma anche in Spagna sui profili dello sportivo Marca – hanno fatto seguito una marea di commenti, molti dei quali di evidente stampo sessista. “Succede quando le donne, invece di occuparsi di moda o trucco, si inventano guardalinee”, oppure “mille motivi per stare in cucina”, o ancora “tornino a fare il loro mestiere”, con tanto di cuoricini a raccogliere consenso da altri utenti (si vedano i comenti riportati dall’account Instagram dell’avvocata e attivista Cathy La Torre). Ma il web non è stato a guardare. Prima che le rispettive testate cancellassero i peggiori commenti, un’altra miriade di utenti è intervenuta, principalmente in due modalità: chi chiedendo un intervento di moderazione da parte dei gestori dei profili social, indignandosi per la lentezza nella cancellazione, chi insultando a sua volta gli autori dei post sessisti, generando un flusso di commenti a catena ricchi di hate speech, in particolar modo in forma di linguaggio verbale e aggressività verbale.

Qui di seguito alcuni screenshot che riprendono i commenti sulla pagina Instagram della Gazzetta dello Sport, alla notizia dell’infortunio sul campo della guardalinee Porras:

Dopo aver lavorato su Facebook e Twitter (X), il team di ricercatori dell’Università di Torino impegnati per Odiare non è uno sport, sta analizzando i flussi di post e commenti su Instagram e TikTok, per approfondire e comprendere le modalità di fruizione di questi social rispetto alle notizie sportive. Dalla seconda edizione del Barometro dell’Odio nello sport, presentata a ottobre scorso, è emerso come l’hate speech online in ambito sportivo sia purtroppo un fenomeno in crescita: si manifesta per lo più sotto forma di aggressività verbale e ha maggiore incidenza nei commenti social riguardanti il calcio, sport che domina quasi totalmente il flusso dell’informazione sportiva italiana.

Il calcio raccontato, evidenzia il Barometro, è soprattutto maschile, così come l’informazione sportiva in generale. Le atlete compaiono poco nei flussi di notizie sui social, se non per episodi clamorosi o che poco riguardano la prestazione sportiva. Un caso su tutti: il grande volume di hate speech registrato nei confronti della stella della pallavolo azzurra Paola Egonu, non dopo una vittoria o una sconfitta in partita, ma a seguito dell’annuncio di volersi allontanare dalla Nazionale a causa dei commenti razzisti ricevuti nel “mondo reale”. Notizia che la rese target di commenti d’odio online soprattutto sotto forma di discriminazione. Interessante notare come altre donne che scatenano importanti flussi di commenti e di odio sui social siano le compagne dei calciatori, in particolare – si legge nel Barometro – la cantante Shakira, ex compagna di Gerard Piqué, e Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi. Questo a testimonianza che a fare a più notizia nel mondo sportivo italiano sono ancora le “mogli di” che non le sportive stesse.

L’hate speech purtroppo si manifesta spesso nei confronti delle donne quando il loro ruolo e la loro visibilità è legata al mondo del calcio o di uno sport connotato nell’immaginario comune come “prettamente maschile”. Ce lo aveva raccontato anche la motociclista Francesca D’Alonzo, alias The Velvet Snake, ex ballerina che compie imprese in modo fuoristrada in tutto il mondo: seguitissima sui social, ancora viene presa di mira da haters che la bombardano di commenti sessisti.

L’episodio che ha riguardato la guardalinee spagnola rende chiaro come sia ancora necessario fare un lavoro di educazione e sensibilizzazione sull’utilizzo dei social, in particolar modo sui giovani. Insegna che il web è ormai molto attento a rispondere al linguaggio d’odio, soprattutto su certe tematiche, anche se purtroppo spesso i commenti di risposta si manifestano a loro volta in forma di aggressività verbale. E al tempo stesso evidenzia quanto è importante che chi detiene il potere di informare e di immettere sui social notizie, tanto più se si tratta di un organo di stampa autorevole, abbia anche la prontezza di intervenire sui commenti che contengono forme di hate speech in grado di autoalimentarsi uno con l’altro, diventare vere e proprie catene di discriminazione online.

Damiano Tommasi: Bisogna dare importanza alle relazioni

Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.

Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.

di Progettomondo

Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?

In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.

I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?

Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.

Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatore professionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?

Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzo contro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.

Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?

Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.

Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?

Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.

Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.

Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?

Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.

Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.

Unità Didattiche: nelle scuole per contrastare l’odio online

Offrire strumenti di approfondimento per riconoscere e contrastare l’hate speech online. Ma anche proporre nuove modalità di condivisione, con un approccio non frontale, ricco di esempi che permetta alle nuove generazioni di “allenarsi” alla gentilezza nella comunicazione online. Odiare non è uno sport ha tra i suoi principali obiettivi quello di entrare in contatto diretto con i ragazzi, anche nei contesti scolastici. Ecco perché nell’ambito del progetto nasce l’Unità didattica di apprendimento (UDA), un percorso didattico per le scuole secondarie dedicato al riconoscimento e al contrasto dell’hate speech, accessibile a formatori e docenti gratuitamente dalla piattaforma di ImpactSkills. Ma come nasce l’UDA? Quali sono i principali obiettivi e come è stata fino ad ora applicata nei contesti scolastici? Ne abbiamo parlato con Maria Lipone, formatrice che da anni lavora con CVCS e che ha coordinato i lavori di realizzazione e stesura dell’UDA, conducendo già numerosi incontri nelle scuole.

di Ilaria Leccardi

Maria Lipone

Dottoressa Lipone, come prende vita questo percorso didattico e chi vi ha contribuito?

È stato un lavoro corale che ha visto coinvolte le ong e diversi dei soggetti partner del progetto, nelle sette regioni italiane dove si svolge Odiare non è uno sport. Un lavoro stimolante e complesso, concentrato tra i mesi di marzo e giugno, in cui ogni realtà ha portato proprie specificità e competenze. Nella versione definitiva dell’UDA abbiamo cercato di prevedere un’alternanza di momenti formativi, sperimentazione pratica, lavoro individuale o di gruppo, stimoli visivi e video per i ragazzi.

Come si compone il percorso?

Comprende tre incontri da due ore ciascuno, con una parte pratica e una parte teorica, declinati in una versione per le scuole secondarie di primo grado e una per le scuole secondarie di secondo grado. Il primo incontro è dedicato alla conoscenza reciproca e all’introduzione del fenomeno hate speech, con l’approfondimento di concetti quali la piramide dell’odio, gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni; il secondo incontro è dedicato al riconoscimento del linguaggio d’odio, anche a partire dall’analisi di casi ripresi dai social e dalle app di chat utilizzate dai giovani; il terzo si concentra sulla sperimentazione di modalità comunicative diverse, per contrastare concretamente l’hate speech.

Gli insegnanti possono condurre le attività in maniera autonoma oppure è necessaria la presenza di un formatore o una formatrice esterna?

Il percorso e i materiali sono pensati per essere replicabili in maniera autonoma dagli insegnanti. Tuttavia, l’esperienza fatta finora ci dice che spesso viene richiesta la nostra presenza come formatori poiché non tutti i docenti sono abituati a condurre attività con una modalità che non sia quella classica frontale e che preveda ad esempio una destrutturazione dell’impostazione classica dell’aula e la partecipazione in forma laboratoriale degli studenti. E poi, anche perché le tematiche sono molto delicate e promuovono la condivisione di esperienze a volte dolorose che non è sempre facile raccogliere, accogliere e contenere. La presenza di una figura di mediazione può essere utile in queste situazioni.

Come sono state le esperienze con i ragazzi finora?

In questi primi mesi di anno scolastico ho condotto incontri in quattro classi del biennio superiore e in quattro terze medie nella regione del CVCS, ossia il Friuli-Venezia Giulia. Mentre le altre ong hanno lavorato nelle rispettive regioni. Sono state tutte esperienze molto positive, che hanno evidenziato la necessità di percorsi di questo tipo. I ragazzi ne hanno davvero bisogno. Da una parte perché il digitale è una sfera che li coinvolge molto, nella quale si sviluppano dinamiche che spesso definiscono le loro relazioni personali, ma su cui non hanno possibilità di condivisione. A volte gli adulti danno per scontato che i giovani abbiano delle competenze rispetto ai social solo perché sono capaci di usare un dispositivo digitale. Ma non è così. E questo porta a compiere errori, anche ingenui, ma potenzialmente pericolosi.

Il digitale può essere da una parte lo specchio dall’altra il moltiplicatore di dinamiche che avvengono nella vita reale.

Spesso i ragazzi hanno un accesso precoce a contenuti che non hanno ancora la capacità di elaborare. E accedendovi hanno a che fare con stili comunicativi o estetici che possono condizionare il loro agire nella vita reale. Certi social comportano un bombardamento di stimoli che finiscono con il far perdere all’utente il contatto con la realtà, con la quale si fa fatica a fare i conti. Penso che l’iper connessione sia più una conseguenza che non una causa del malessere e del disagio vissuto dai giovani. Quello dei social è un luogo dove i ragazzi – che hanno bisogno di relazioni ed esperienze che spesso non riescono a vivere nella vita reale – possono soddisfare molti dei loro bisogni. Ma non per questo è un luogo sicuro e soprattutto all’interno di questo universo i ragazzi non sperimentano passaggi di crescita fondamentali.

In che modo l’Unità Didattica è declinata sul tema sport?

Si fa riferimento all’ambito sportivo nel momento in cui diversi esempi di discorsi d’odio sono ripresi da quel mondo, raccontando come ci sono campioni anche molto noti che hanno subito hate speech e discriminazioni. Inoltre, tra le attività di “rottura del ghiaccio” io chiedo spesso chi nella classe pratica uno sport. Con dispiacere ho notato che non sono tanti, anche perché il covid negli ultimi anni ha portato molti giovani ad abbandonare l’attività sportiva. Più frequente è trovare ragazzi che tifano, per lo più una squadra di calcio, e quindi il discorso sport – e di conseguenza l’attenzione all’hate speech – si riesce ad allargare a questo ambito. Ho notato inoltre che nelle scuole secondarie di secondo grado hanno sempre più appeal l’allenamento in palestra e il body building, anche questo in conseguenza di quanto i giovani vedono sui social. Un’attività però spesso vissuta in maniera solitaria e non condivisa.

Come raccogliete il feedback dei ragazzi? Sono previsti questionari o valutazioni sul percorso?

L’Unità Didattica prevede dei questionari sia in ingresso che in uscita, sia sulle nozioni acquisite durante il percorso, sia sull’esperienza personale vissuta. Viene chiesto ai ragazzi se abbiano mai subito direttamente hate speech o discriminazioni online. Tra le attività del secondo incontro, inoltre, viene chiesto ai partecipanti di scrivere su dei post-it in forma anonima il messaggio più brutto da cui sono stati feriti nelle comunicazioni online, in chat o sui social. E purtroppo spesso emergono parole ed espressioni terribili. Ecco perché lavoriamo anche per “allenare” a una comunicazione gentile, proponendo esercizi per trasformare le comunicazioni, ad esempio da uno stile giudicante a uno stile più assertivo. Il percorso prevede infine un quiz online tramite cui gli studenti possono sperimentarsi in prima persona per contrastare l’odio online. 

Riforma dello Sport: i seminari CSEN

La Riforma dello Sport a partire dalla base e dalle persone


Un ciclo di sei incontri sulla Riforma dello Sport avanzata dal governo. È quanto propone lo CSEN (Centro Sportivo Educativo Nazionale) – all’interno del progetto Odiare non è uno sport – per approfondire il tema dal punto di vista delle persone che ogni giorno lavorano nei luoghi dello sport. Mentre il dibattito mainstream si è per lo più concentrato in questi mesi su temi di “vertice”, come il limite ai mandati dei presidenti federali, il contributo dello CSEN vuol andare nella direzione di tornare al valore sociale dello sport, a partire dalla base. 

Il ciclo di incontri, dal titolo “La riforma dello sport. Il punto di vista di chi vive lo sport centrato sulle persone, a favore dell’integrazione sociale, per conoscere e contrastare l’hate speech” (al fondo dell’articolo il calendario completo), parte lunedì 28 settembre a Perugia, toccando altre cinque città: Verona, Torino, Catania, Roma e Udine. Gli incontri saranno trasmessi sulla pagina Facebook di Odiare non è uno sport. A seguito dell’aggravarsi dell’emergenza sanitaria, a partire dal secondo incontro sono stati integralmente spostati su piattaforma online, a distanza.

Lo CSEN, spiega Andrea Bruni, Responsabile Ufficio Progetti Nazionale dell’Ente di promozione sportiva, “concepisce lo sport come attività volta a favorire il benessere delle persone e quindi vede in esso prima di tutto un intento e una finalità sociale. A differenza delle Federazioni, che curano maggiormente le eccellenze sportive. Nel contesto della Riforma dello Sport, la discussione per ora si è molto concentrata su cosa cambierà per i vertici e per i dirigenti, ma ha lasciato in sospeso le altre problematiche. Per esempio non si è parlato di chi fa dell’attività sportiva il suo lavoro, che non ha un contratto nazionale di riferimento. Oppure dell’approccio educativo che lo sport deve avere con i minori”.

Negli incontri però si affronteranno anche i temi dell’integrazione sociale, della lotta alle discriminazioni e dello sport integrato, ossia “dell’attività sportiva che mette insieme persone con disabilità e persone non disabili, con regolamenti nuovi. Un tema interessante – prosegue Bruni – perché aggancia le problematiche legate al ruolo che ogni sportivo può avere nel contesto di origine e il contributo che ciascuno può dare a livello individuale su obiettivi collettivi, se messo nella miglior condizione per esprimersi”. 

Di seguito l’elenco dettagliato degli appuntamenti:

PERUGIA lunedì 28 settembre 2020 / ore 17.30
Sala Trinci – Centro Congressi Capitini – Via Centova 4 

PIEMONTE venerdì 6 novembre 2020 /ore 9.30 – diretta FB 
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Gianluca Carcangiu – Presidente Regionale CSEN Piemonte  
Ilaria Zomer – Formatrice presso il Centro Studi Sereno Regis
Ivana Nikolic – Ballerina professionista, attivista – artista ed educatrice 
Barbara Costamagna –  Psicologa e Psicoterapeuta 

ROMA venerdì 13 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti 
Henrika Zecchetti – Presidente Comitato Provinciale CSEN Roma 
Elisa Nucci – Responsabile Progetti COMI – Cooperazione per il mondo in via di sviluppo
Antonella Passani – sociologa e membro di IntegrArte
Leonina Benigni – educatrice Professionale 

FRIULI VENEZIA GIULIA sabato 14 novembre 2020 / ore 9.30 – diretta FB 
con Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Giuliano Clinori – Presidente Regionale CSEN Friuli e Vice Presidente Nazionale CSEN 
Sara Fornasir – Responsabile del Progetto Odiare non è uno Sport –  Referente CVCS 
Eva Campi – Referente Parole Ostili 

VENETO sabato 21 novembre 2020 / ore 10.00 – diretta FB 
con Giacinto Corvaglia – Comitato Provinciale CSEN Verona
Marina Lovato – Formatrice Ufficio Educazione e Cittadinanza Attiva – ProgettoMondo Mlal
Andrea Bruni – Responsabile Nazionale CSEN Progetti
Stefano Pratesi – Formatore esperto in gestione dei conflitti e diritti umani 
Paola Caruso – Referente Regionale Calabria CSEN Sport Integrato

SICILIA – data da definire

Lukaku si inginocchia a pugno chiuso. E si scatena l’odio sui social

Ginocchio a terra e pugno alzato al cielo. Il gesto simbolo dell’ondata di proteste partita dagli Stati Uniti, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, è arrivato anche sui campi di calcio. Il gesto compiuto dal bomber neroazzurro Romelu Lukaku, al decimo minuto di Inter-Sampdoria, al rientro al calcio giocato dopo oltre tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus, ha riempito le prime pagine dei giornali e le bacheche dei social. Scatenando una marea di commenti. Prima di lui allo stesso modo aveva esultato anche Nicolas Nkoulou, difensore del Torino, andato in rete sabato contro il Parma.

di Ilaria Leccardi

Molti sono stati i commenti di sostegno e apprezzamento del gesto, ma anche tanti, ancora troppi, quelli che sono andati ben oltre la critica, conditi da insulti e veri e propri attacchi alla persona, alla squadra e in generale al movimento Black Lives Matter.

La fotografia del gigante neroazzurro è stata ripostata dai profili social dell’Inter con la scritta Black Lives Matter e gli hastag #BrothersUniversallyUnited #NoToDiscrimination , e da quelli del giocatore che ha scritto: “Questo è per tutte le persone che lottano contro l’ingiustizia. Io sono con voi”.

Se sulle pagine ufficiali i commenti sono stati per lo più di approvazione, è sulle pagine social delle testate sportive che si sono scatenati gli haters da tastiera. C’è chi ricorre all’insulto generico, “coglione”, “pagliaccio”, “vaffanculo”, “che cazzata”, “ipocrita”, “deficiente”. Chi invece prova ad argomentare, non contestualizzando minimamente il gesto, ma sostenendo che Lukaku avrebbe fatto meglio a protestare per altri fatti di cronaca, per omicidi avvenuti in altre situazioni (commessi da persone nere), per i morti da Covid19. E poi ci sono coloro secondo cui comunque alla fine George Floyd era un “criminale” (così viene definito in diversi commenti, quasi a giustificare la morte per soffocamento di una persona). Altri invece – molti – che attaccano il calciatore e la società, anche con insulti pesanti, perché “non bisogna mettere la politica nello sport”.

Ma perché non dovrebbe succedere? E perché un gesto a sostegno di una battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza sociale deve scatenare ancora così tanto odio?

Non è la prima volta che Lukaku viene preso di mira, sia sui social che dal vivo. Il caso più clamoroso fu durante la partita Cagliari-Inter, a inizio campionato, quando i tifosi cagliaritani intonarono un coro di buu, come purtroppo ancora troppo spesso negli stadi avviene nei confronti i calciatori neri. All’epoca lui commentò: “Molti giocatori nell’ultimo mese sono stati vittime di abusi razzisti. A me è successo ieri.

Il calcio è uno gioco che deve far felici tutti e non possiamo accettare nessuna forma di discriminazione che lo possa far vergognare. Spero che tutte le Federazioni del mondo reagiscano duramente contro tutti i casi di discriminazione.

Ma come dimostra il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca condotta nell’ambito del progetto Odiare non è uno Sport, il calciatore dell’Inter – assieme a Mario Balotelli – è la figura sportiva che scatena il maggior numero di commenti contenenti hate speech sui social, in particolare insulti e forme di discriminazione razziale per il colore della pelle.

Il gesto di Lukaku non è certo una novità in ambito sportivo. Il più celebre pugno alzato al cielo resta quello di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dopo la finale dei 200 metri piani. Sul podio, davanti agli occhi di tutto il mondo, le medaglie d’oro e di bronzo olimpiche al momento dell’inno statunitense abbassarono il capo, alzarono il pugno, indossando un guanto nero. Era il 1968 e le battaglie per i diritti civili della popolazione nera negli States erano all’apice della loro intensità. Le conseguenze per i due velocisti non furono tanto le proteste del pubblico, quanto provvedimenti che li esclusero dai circuiti sportivi, così come fu per l’argento, il bianco australiano Peter Norman, che silenziosamente appoggiò il gesto dei colleghi neri, indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), e da allora ebbe la carriera rovinata.

I gesti che hanno coinvolto gli sportivi nei decenni da allora non sono stati pochi. Tra le proteste recenti più clamorose spicca quella di Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, che a partire dal 2016 più volte si è inginocchiato durante l’inno nazionale, in protesta contro le discriminazioni razziali, scatenando l’emulazione da parte di diversi colleghi, ma anche molte critiche dell’America bianca. Una protesta che gli è costata molto: terminato il suo contratto con i San Francisco 49ers, il quarterback è rimasto senza squadra e ha poi lanciato una battaglia legale contro l’intero sistema della NFL che lo avrebbe ostacolato in ogni modo a rientrare nel circuito, vincendola in tribunale e ottenendo un ingente risarcimento.

Ma prese di posizione molti forti ci sono state anche nelle ultime settimane, in seguito alla morte di Floyd. Alta si è levata la voce di tanti sportivi: da Lewis Hamilton, stella della Formula 1, unico pilota nero del circuito, a Lebron James, campione della NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers, da sempre sensibile al tema. Fino a Marcos Thuram, figlio di Lilian e giocatore in Germania del Borussia Moenchengladbach, che a sua volta si è inginocchiato dopo un gol.

Tornando a Lukaku viene da chiedersi il perché un gesto dimostrativo e di solidarietà a una battaglia che ha assunto una portata mondiale possa scatenare ancora così tanti commenti negativi e insulti deliberati. Come è noto, l’ambiente calcistico non brilla certo per tifoserie che hanno nella lotta per l’uguaglianza e i diritti civili una delle proprie chiavi. Anzi, in Italia nel 2020 sono ancora molti i gruppi di ultras – Inter compresa – che si definiscono apertamente fascisti. In questa coda di campionato così particolare a causa dell’emergenza sanitaria, gli stadi sono vuoti. Si gioca in un silenzio irreale. Un gesto come quello esibito davanti alle telecamere di tutto il mondo non poteva che avere una risonanza mediatica importante. E di certo non può unire le coscienze, perché ancora troppi sono coloro che non credono nell’uguaglianza sociale o che nemmeno si interrogano sui motivi che stanno scatenando le proteste di tutto il mondo e che affondano la propria ragion d’essere in secoli di colonialismo, discriminazioni e ferite profonde.

Ciò che è inaccettabile è che il commento non sia una critica sull’opportunità o meno del gesto simbolico, ma si trasformi in veicolo di invettiva, alimentando parole d’odio in una serie di botta e risposta (soprattutto su social come Facebook e Instagram dove è possibile rispondere e commentare i commenti altrui), che in tanti casi si trasformano in una spirale di insulti. Caratteristica purtroppo ormai strutturale del confronto sui social media.

In una società che è evidentemente ancora frammentata, un gesto come quello di Lukaku però può contribuire ad alimentare il dibattito. E non solo in protesta per la morte atroce di George Floyd a cui è stata tolta con violenza la possibilità di respirare. Ma assume un valore politico necessario. Forse perché è giunto il momento di non restare indifferenti. Forse perché abbiamo bisogno di una società consapevole. Il gesto non può bastare, ma il suo valore è forte, tanto più se viene da un uomo che – pur dall’alto del suo privilegio economico e mediatico – ha subito a sua volta episodi di razzismo in pubblico e che viene seguito dalle telecamere del mondo.

Anche per questo rilanciamo l‘appello a un Campionato senza odio e chiediamo a chi ci segue di monitorare quanto avviene sui social, individuando commenti contenenti hate speech e segnalandoli al nostro progetto.

Se vuoi contribuire puoi segnalare i commenti taggando la pagina Fb  o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it. Se te la senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.