“Non finisce lì”. Dopo le partite, le sfide proseguono sui social

È arrivato dalla Costa d’Avorio quando aveva 19 anni, scappando dalla guerra. Ora Abdul Ouatara affianca la società di calcio Alba Borgo Roma, a Verona, nell’allenamento dei ragazzini adolescenti, insegnando loro non solo il rispetto delle regole tecniche dello sport, ma anche quello tra compagni di squadra e verso gli avversari.
“Sono arrivato in Italia sei anni fa e all’inizio vivevo a Padova, dove giocavo a calcio”, racconta. “Da tre anni sono con l’Alba come assistente allenatore. Il cellulare durante gli allenamenti si spegne, ma fuori è un’altra storia”.

di Progettomondo

Abdul allena insieme a Massimo Giarola, responsabile del settore giovanile. La percezione dei due, rispetto alle dinamiche tra avversari, è che spesso “non finisce lì”. Dopo le partite prendono talvolta il sopravvento messaggi pieni di disprezzo e intolleranza, ingiustificabili. Sempre. E ancor più quando la sfida è tra adolescenti di squadre rionali, di quartiere.

“Quando mi è capitato di essere insultato giocando ho sempre reagito cercando di dimostrare la mia bravura con il pallone”, fa presente Abdul. “Oggi però i giovani sono condizionati dai social, che li rendono ancora più consapevoli di quali siano i lati fragili da colpire in maniera voluta, tagliente, puntando direttamente a ferire la persona insultata. La connotazione razziale è il tasto più facile su cui ‘premere’, andando a cercare una differenza su cui si può fare leva per offendere e fare male, indugiando sul colore della pelle o su accento percepito come straniero”.

Abdul Ouatara e Massimo Giarola

L’invidia e la competizione Abdul e Massimo la vedono spesso, non solo tra i ragazzini, anzi, soprattutto tra gli adulti, i genitori e i parenti che li seguono.

“Percepiamo una sorta di codice occulto, per cui un ragazzo italiano, secondo la sua famiglia, dovrebbe avere più ‘diritti’ dei coetanei che hanno origini straniere”, dicono. “Ci sono elementi subdoli, battute, che fanno percepire un pensiero discriminante, non positivo, che talvolta viene poi replicato dai figli. A un bambino o ragazzino italiano ogni gesto sopra le righe viene giustificato come una ‘monellata’. Nei confronti di chi ha un background migratorio, invece, parte il processo alla cultura diversa, all’incapacità di adeguarsi al contesto, come se ogni atteggiamento infantile o adolescenziale dovesse fare i conti con il Paese di provenienza”.

Il contesto in cui si trova l’Alba è tra quelli a più alto tasso di migranti a Verona. La multiculturalità è viva, vivace. Ma nell’estremo sud della città, dove si trova appunto il quartiere Borgo Roma, l’integrazione non è ancora così scontata. “La mancanza di accettazione di chi è considerato ‘diverso’ la si vede già nei bambini, ma le problematiche sorgono solitamente verso i 13 o i 14 anni. Non sempre gli insulti e le provocazioni sono a sfondo razziale, a volte sono frutto di un approccio semplicemente scorretto verso la pratica sportiva”, fa notare Giarola.

“Abbiamo vissuto l’episodio di un nostro giocatore minacciato a seguito di un partita persa dalla squadra avversaria. Lo abbiamo visto cupo e preoccupato e ci hai poi confidato di avere ricevuto messaggi intimidatori e minacce su Instagram, per il solo fatto che aveva portato a casa la vittoria”.

“Capisco che nell’eccitazione di una partita possa scappare qualche parolaccia, qualche parola urlata con una certa enfasi”, aggiunge Abdul. “Ma i ragazzini emulano i comportamenti e il linguaggio dei grandi e talvolta il contesto dilettantistico porta a vivere situazioni persino peggiori di quelle che si vedono negli stadi, sia verso gli arbitri, che nei confronti degli avversari in campo. E i giocatori, per quanto minorenni, rispondono alle provocazioni se non sono allenati a non farlo”.

Le donne nel calcio? Danno ancora troppo fastidio

Perché la presenza delle donne nel calcio dà ancora così fastidio, scatena commenti sessisti e rende i social cassa di risonanza e ring di scontro a suono di insulti? E perché una donna nel calcio fa notizia, genera titoli e flusso di commenti sui social quasi mai per una sua prestazione sportiva?

di Ilaria Leccardi

Ce lo racconta – purtroppo bene – l’episodio che ha visto coinvolta Guadalupe Porras, guardalinee spagnola, componente della terna arbitrale impegnata nella partita di Liga spagnola maschile tra Betis Siviglia e Athletic Bilbao, giocata domenica 25 febbraio. Con la partita sull’1 o 0 per il Betis, muovendosi rapidamente sulla linea laterale è stata colpita in pieno al volto da un cameraman con steadycam che ha varcato in modo maldestro la soglia del campo, entrando nella sua zona di azione. Uno scontro violento, fortuito, che ha provocato una profonda ferita al volto di Porras, costretta a lasciare il campo in una maschera di sangue.

La notizia ha fatto il giro del web, con foto e articoli pubblicati da tutte le principali testate sportive e non. L’aspetto sconcertante è che ai post – in Italia su tante pagine social, in particolare su quella del più letto quotidiano sportivo, la Gazzetta dello Sport, ma anche in Spagna sui profili dello sportivo Marca – hanno fatto seguito una marea di commenti, molti dei quali di evidente stampo sessista. “Succede quando le donne, invece di occuparsi di moda o trucco, si inventano guardalinee”, oppure “mille motivi per stare in cucina”, o ancora “tornino a fare il loro mestiere”, con tanto di cuoricini a raccogliere consenso da altri utenti (si vedano i comenti riportati dall’account Instagram dell’avvocata e attivista Cathy La Torre). Ma il web non è stato a guardare. Prima che le rispettive testate cancellassero i peggiori commenti, un’altra miriade di utenti è intervenuta, principalmente in due modalità: chi chiedendo un intervento di moderazione da parte dei gestori dei profili social, indignandosi per la lentezza nella cancellazione, chi insultando a sua volta gli autori dei post sessisti, generando un flusso di commenti a catena ricchi di hate speech, in particolar modo in forma di linguaggio verbale e aggressività verbale.

Qui di seguito alcuni screenshot che riprendono i commenti sulla pagina Instagram della Gazzetta dello Sport, alla notizia dell’infortunio sul campo della guardalinee Porras:

Dopo aver lavorato su Facebook e Twitter (X), il team di ricercatori dell’Università di Torino impegnati per Odiare non è uno sport, sta analizzando i flussi di post e commenti su Instagram e TikTok, per approfondire e comprendere le modalità di fruizione di questi social rispetto alle notizie sportive. Dalla seconda edizione del Barometro dell’Odio nello sport, presentata a ottobre scorso, è emerso come l’hate speech online in ambito sportivo sia purtroppo un fenomeno in crescita: si manifesta per lo più sotto forma di aggressività verbale e ha maggiore incidenza nei commenti social riguardanti il calcio, sport che domina quasi totalmente il flusso dell’informazione sportiva italiana.

Il calcio raccontato, evidenzia il Barometro, è soprattutto maschile, così come l’informazione sportiva in generale. Le atlete compaiono poco nei flussi di notizie sui social, se non per episodi clamorosi o che poco riguardano la prestazione sportiva. Un caso su tutti: il grande volume di hate speech registrato nei confronti della stella della pallavolo azzurra Paola Egonu, non dopo una vittoria o una sconfitta in partita, ma a seguito dell’annuncio di volersi allontanare dalla Nazionale a causa dei commenti razzisti ricevuti nel “mondo reale”. Notizia che la rese target di commenti d’odio online soprattutto sotto forma di discriminazione. Interessante notare come altre donne che scatenano importanti flussi di commenti e di odio sui social siano le compagne dei calciatori, in particolare – si legge nel Barometro – la cantante Shakira, ex compagna di Gerard Piqué, e Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi. Questo a testimonianza che a fare a più notizia nel mondo sportivo italiano sono ancora le “mogli di” che non le sportive stesse.

L’hate speech purtroppo si manifesta spesso nei confronti delle donne quando il loro ruolo e la loro visibilità è legata al mondo del calcio o di uno sport connotato nell’immaginario comune come “prettamente maschile”. Ce lo aveva raccontato anche la motociclista Francesca D’Alonzo, alias The Velvet Snake, ex ballerina che compie imprese in modo fuoristrada in tutto il mondo: seguitissima sui social, ancora viene presa di mira da haters che la bombardano di commenti sessisti.

L’episodio che ha riguardato la guardalinee spagnola rende chiaro come sia ancora necessario fare un lavoro di educazione e sensibilizzazione sull’utilizzo dei social, in particolar modo sui giovani. Insegna che il web è ormai molto attento a rispondere al linguaggio d’odio, soprattutto su certe tematiche, anche se purtroppo spesso i commenti di risposta si manifestano a loro volta in forma di aggressività verbale. E al tempo stesso evidenzia quanto è importante che chi detiene il potere di informare e di immettere sui social notizie, tanto più se si tratta di un organo di stampa autorevole, abbia anche la prontezza di intervenire sui commenti che contengono forme di hate speech in grado di autoalimentarsi uno con l’altro, diventare vere e proprie catene di discriminazione online.

Damiano Tommasi: Bisogna dare importanza alle relazioni

Secondo l’ultima ricerca del Barometro dell’odio nello sport, realizzata nell’ambito del progetto “Odiare non è uno sport”, sui social media italiani il linguaggio volgare in ambito sportivo è sempre più pesante. Quasi un commento su tre è considerato d’odio e Il calcio è il tema dominante nelle interazioni online: rappresenta circa il 96% dei post analizzati su Facebook e Twitter.

Abbiamo chiesto a Damiano Tommasi, Sindaco di Verona, ex calciatore professionista e dirigente sportivo, la sua opinione in merito ai risultati della ricerca.

di Progettomondo

Lo sport sembra essere diventato, sempre più, un’arma a doppio taglio: da un lato straordinario luogo di inclusione e aggregazione sociale, dall’altro fornace di discorsi e gesti d’odio. Secondo lei, come si inseriscono i social all’interno di questa contraddizione?

In generale nell’utilizzo dei social manca un’aderenza alla realtà. Si scrive con leggerezza, senza la percezione di quelli che potrebbero essere gli effetti. Questo è favorito dalla facilità di accesso al supporto, che porta tanta superficialità e poca sensibilità. Inoltre, se pensiamo alla fragilità del mezzo utilizzato, prendiamo ad esempio le storie di Instagram, ci rendiamo conto di quanto essa sia direttamente proporzionale alla consapevolezza con cui vengono espressi determinati commenti e giudizi. Negli ultimi anni si è passati dallo stadio a una piazza virtuale, dove non si riesce più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Sono convinto che se l’hate speech avesse valenza di convinzione di chi scrive, certi commenti si tradurrebbero in altre forme. Per questo motivo credo che sarebbe necessaria un’educazione all’utilizzo dei social, anche come fruitori.

I dati presentati dal Barometro dello sport ad ottobre 2023 indicano un aumento nei commenti d’odio rispetto al 2019. Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo importante nell’aumento dell’hate speech nel mondo dello sport?

Sicuramente la pandemia ha aumentato il numero degli utilizzatori dei social. Lo spostamento sul virtuale c’è stato, dalla scuola, con la didattica online, al lavoro in modalità smart working, e le persone hanno preso più confidenza anche nell’utilizzo dei social. La pandemia ha accentuato il passaggio dal reale al virtuale, tanto che oggi sui social c’è chi risponde come se fosse al bar.

Dalla ricerca si evince che oltre il 95% dei post analizzati riguarda il calcio. Dalla sua esperienza come dirigente sportivo ed ex calciatore professionista, quale pensa siano i motivi di una presenza così forte dell’hate speech nel calcio rispetto agli altri sport?

Il calcio in Italia è lo sport più seguito, se ne parla di più anche sui social e va da sé che le percentuali aumentino. In particolare l’hate speech nel calcio è più sdoganato e manca una consapevolezza presente invece in altri sport. Nel basket, ad esempio, il trash talking è utilizzato come mezzo contro l’avversario, perdendo la sua valenza di insulto gratuito. Mentre il rugby è caratterizzato da una ritualità che insegna la disciplina ai ragazzi e alle ragazze che lo praticano, inserendo in questo sport un elemento di correttezza senza il quale il rugby potrebbe diventare estremamente pericoloso.

Quanto pesa la presenza di questa componente negativa sui dirigenti sportivi e, in generale, su chi lavora in questo settore?

Purtroppo un peso ce l’ha, e spesso questa componente d’odio condiziona il settore. Le società infatti si “adattano” al cliente. Nel calcio, ad esempio, se lo spettatore dagli spalti è il primo a insultare, potrebbe non apprezzare un allenatore che non alzi la voce e non protesti. Allo stesso modo, la squadra si adegua all’allenatore e al suo modo di fare.

Al momento i dati analizzati dalla ricerca si concentrano sui social network Facebook e Twitter, mentre i dati relativi a Instagram e Tiktok, i social più utilizzati dai giovani, verranno analizzati nei prossimi mesi. Pensa che questi dati potrebbero sorprenderci piacevolmente, evidenziando una comunicazione più rispettosa e orientata alla tolleranza da parte dei giovani?

Non mi stupirebbe avere delle sorprese. Credo che sia il mondo adulto quello che sa usare meno i social, mentre i giovanissimi dimostrano sicuramente di avere più sensibilità rispetto a certi temi. Vedo i social come canali di assunzione di messaggi, più che di proposta, e il numero di chi porta contenuti è minimo rispetto a quello di chi segue. Per questo mi piacerebbe assistere a un incremento dei giovani come portatori di contenuti sui social.

Si dice sempre che loro sono il nostro futuro, ma secondo me spesso ci dimentichiamo che i giovani sono soprattutto il nostro presente e dovremmo metterci al loro fianco come compagni di viaggio.

Quale messaggio vorrebbe lasciare ai giovani che praticano sport e a chi è vittima dell’hate speech?

Capisco che la ferita per chi riceve commenti d’odio sia profonda, ma vorrei invitare i ragazzi e le ragazze a non lasciarsi condizionare e a non dare troppo peso al virtuale, concentrandosi invece su ciò che è reale. Spesso infatti sui social c’è poca coerenza con i propri valori e si cambia facilmente idea, perdendo di credibilità. Ricordiamoci che anche i commenti positivi sui social sono volatili, e non è utile tenerli troppo in considerazione. Nel bene e nel male, i momenti della vita prima o poi finiscono e non ha senso farsi condizionare da catene di celebrazioni o di odio.

Io stesso sono stato molto criticato come calciatore, e da primo cittadino so bene quanto si possa essere vulnerabili all’attacco. Ho imparato a cercare la concretezza dei rapporti umani, dai famigliari, agli amici e ai colleghi più cari, che sono il principale antidoto alla leggerezza che si trova sui social. In qualunque ambiente è importante imparare a riconoscere le persone su cui poter fare affidamento, e ora che le interazioni sono sempre più virtuali è fondamentale riconoscere l’importanza delle relazioni. Solo i legami veri sanno fare critiche e apprezzamenti sinceri e non superficiali, per questo credo nel costruire relazioni reali di tempo e di senso, che sedimentano anche nei momenti negativi della vita.

Riccardo Cucchi: lo sport in voce

“Lo sport non può cambiare il mondo, ma può contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato”. Parola di Riccardo Cucchi, una delle più note voci dello sport italiano: otto Olimpiadi, sette Mondiali di Calcio, tra cui quello vinto dall’Italia in Germania nel 2006, oltre 500 partite raccontate in radiocronaca. Giornalista Rai per quasi 40 anni, nome storico di Tutto il Calcio minuto per minuto, oggi Cucchi è impegnato anche sulla tutela del diritti, grazie a una collaborazione con Amnesty Italia. Lo abbiamo intervistato per dare il via alla seconda edizione di Odiare non è uno sport, affidandoci alle sue parole e alla sua storia di grande narratore di sport, ma – oggi – anche di quotidiano fruitore di social network. 

Di Ilaria Leccardi

Un percorso giornalistico vissuto narrando lo sport con la sola voce. Com’è nata la passione per la Radio e come è riuscito a trasformarla in un lavoro?

Appartengo alla generazione dei nativi radiofonici, una definizione che mi piace usare simpaticamente in contrasto con “nativi digitali”. Era una generazione che ha potuto appassionarsi al calcio esclusivamente grazie alla radio, l’unico mezzo per sapere cosa avveniva sui campi di calcio in diretta. Sono cresciuto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e poi Claudio Ferretti. È stato inevitabile innamorarmi di quel modo di raccontare il calcio e di quelle voci che hanno scritto la storia. Fin da piccolo sognavo di fare questo mestiere e poi la passione si è ampliata quando finalmente sono riuscito a entrare allo stadio per seguire la mia squadra del cuore. Nel 1979 vinsi il concorso in Rai ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che l’azienda decise di preparare al microfono: frequentai corsi di formazione che mi consentirono di esordire in un gruppo di straordinari maestri, imparando accanto a loro, fino a riuscire a prenderne il testimone. Ho vissuto un sogno e sono stato un privilegiato. Ho messo insieme due passioni, trasformandole in lavoro.

Radio mezzo di comunicazione magico. Media che ha saputo sopravvivere al passare del tempo e ad alcuni passaggi storici epocali, l’arrivo dei social network, l’avvento della PayTv, la crisi della carta stampata. Qual è il segreto di questa longevità?

I radiocronisti di oggi usano gli stessi strumenti che usava il loro progenitore, Nicolò Carosio, il primo a raccontare il calcio in radio, negli anni Trenta. Per fare il nostro mestiere servono un microfono, un cronometro, un blocco d’appunti e un binocolo, perché non sempre è possibile avere un monitor anche oggi negli stadi. E soprattutto servono gli occhi per poter vedere. Gli occhi del radiocronista sono le telecamere che vengono usate in tv, con la differenza che la libertà di espressione del radiocronista è direttamente collegata alla sua capacità di sollevare gli occhi dal campo per vedere cosa succedere intorno. E ovviamente alla sua capacità di entrare nell’evento che sta raccontando, sempre consapevole del fatto che chi ascolta non vede.

Riccardo Cucchi, per 35 anni voce di Tutto il Calcio minuto per minuto

Quali sono gli elementi chiave per una buona radiocronaca calcistica?

In passato come oggi, prima di tutto i tempi: nel calcio è molto importante misurare le parole e metterle in rapporto con la velocità del pallone. Mai una di troppo, perché altrimenti il pallone va troppo avanti rispetto al racconto, mai una di meno, perché altrimenti si è in ritardo rispetto al movimento del pallone. E poi la cura della voce. Ai nostri tempi la Rai investiva molto nella preparazione al microfono: l’uso della respirazione, il diaframma, la dizione. Prima di andare al microfono eravamo formati anche in recitazione, basti dire che il mio maestro è stato Arnoldo Foa. Il radiocronista bravo è colui che sa raccontare ciò che vede con terzietà e partecipazione. Se si emoziona davvero e sinceramente, saprà emozionare anche chi ascolta.

È un errore pensare che la radio non abbia immagini: le immagini sono quelle che la voce del radiocronista riesce a costruire nella mente di chi ascolta. Ed è questo il segreto del suo successo ancora oggi.

Ma serve anche molta capacità di far fronte agli imprevisti

Mi è successo più volte di dover staccare gli occhi dal campo e raccontare altro, a volte cronaca nera, episodi violenti. Bisogna aver la capacità di dare notizia di tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi, ed è una delle ragioni per cui ho amato la radio fin da piccolo, la convinzione che la voce e la narrazione fossero uno strumento per aprire finestre a vantaggio di chi non poteva farlo.

Se dovesse selezionare l’episodio più emozionante tra i tantissimi che ha raccontato, quale sceglierebbe?

Ne sceglierei due. Per il calcio, sicuramente la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, in Germania. Ho potuto gridare ai microfoni “Campioni del Mondo”, un privilegio che prima di me hanno avuto soltanto due grandi: Nicolò Carosio per due volte, nel 1934 e nel 1938, ed Enrico Ameri nel 1982. E poi la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul 1988, la mia seconda edizione dei Giochi seguita come giornalista. Bordin entrò da solo nello stadio olimpico dopo una grande rimonta, una vittoria che arrivava a ottant’anni dalla drammatica vicenda di Dorando Pietri, il maratoneta italiano squalificato dopo aver dominato la gara ai Giochi del 1908, perché, stremato, fu sostenuto sul traguardo dai giudici e relegato per questo in fondo alla classifica. Ottant’anni dopo un altro italiano entrava in testa nello Stadio Olimpico e riscattava quella straordinaria storia di epicità sportiva.  

Veniamo ad oggi. Lei da sempre ha dimostrato grande attenzione al tema dei diritti e da alcuni anni presiede la giuria del Premio Sport e Diritti umani promosso da Amnesty Italia e Sport4Society. Quanto è importante valorizzare queste tematiche in relazione allo sport? 

Ho sempre ritenuto importante che lo sport sia in grado inviare messaggi e che non debba mai dimenticare i valori fondanti che ha hanno contribuito al suo sviluppo. Lo sport vive in ogni angolo del pianeta, ha un grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica, ma a volte questo potenziale e questa forza comunicativa non vengono indirizzate nella direzione giusta. Ogni protagonista dello sport, dall’atleta al narratore, deve essere consapevole dell’importanza delle proprie parole e dei propri gesti, per favorire la divulgazione di messaggi. Penso che lo sport non possa di per sé cambiare il mondo, ma possa contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato. La mia collaborazione con Amnesty nasce da questa consapevolezza. Ne avevo sempre seguito l’impegno, le battaglie e i valori, e così una volta in pensione ho pensato di poter dare un mio contributo. Sono presidente della giuria del Premio Sport e Diritti Umani da tre anni.

Chi sono i premiati di quest’anno?

Abbiamo scelto Gary Lineker, grande attaccante inglese, che ha saputo esprimere opinioni importanti a favore dei migranti, di fronte a una politica inglese molto restrittiva, rischiando di essere cacciato dalla BBC dove lavora come commentatore. Uno sportivo straordinario che in oltre 500 partite giocate, non ha mai ricevuto un cartellino giallo né rosso. E poi Natali Shaheen, calciatrice palestinese, molto coraggiosa a promuovere il calcio nel suo contesto di provenienza, dove le donne che fanno sport sono viste con grande criticità e dove forti sono gli effetti dell’occupazione israeliana. Prima è stata capitana della sua Nazionale, poi è stata la prima palestinese a venire a giocare in Europa, in particolare in Italia, in Sardegna, e anche qui sta portando avanti grandi battaglie per la promozione del calcio femminile.     

Lo sport nel corso della storia è stato protagonista e veicolo di analisi, denunce, rivendicazioni politiche e sociali. Pensiamo a Messico ‘68 ovviamente, con il pugno chiuso degli atleti Neri sul podio della 200 metri, ma anche più di recente alla protesta in ginocchio di Colin Kaepernick nel football americano, o la voce anti Trump della capitana della squadra di calcio statunitense Megan Rapinoe. Eppure, poi ci troviamo ad assistere a un Mondiale di calcio in uno dei Paesi dove meno vengono rispettati i diritti umani, come il Qatar. Vede una maggiore consapevolezza negli sportivi oggi?

La consapevolezza sta crescendo nelle ultime generazioni di calciatori. Non è facile per loro parlare, a volte sono costretti al silenzio. Pensiamo al Mondiale in Qatar, dove un giocatore della Germania voleva scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBT, ma è stato censurato dagli organizzatori. In risposta la squadra ha posato per una delle foto prepartita con la mano davanti alla bocca, uno scatto che ha fatto il giro del mondo. Quella foto denuncia la censura del mondo del calcio. Con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro Qatar 2022. I Mondiali dello sfruttamento, ho girato l’Italia per spiegare perché tenere i Mondiali in Qatar era sbagliato. Poi ci sono anche figure che non hanno paura di esporsi, pensiamo a Claudio Marchisio che si è sempre battuto per i diritti degli ultimi, anche attraverso i suoi canali social, dove ha raccolto non pochi attacchi per le sue posizioni.

Una volta terminata la carriera in Rai, lei ha deciso di rivelare quale fosse la sua squadra del cuore, la Lazio. Ha suscitato dissapori?

In realtà le principali reazioni sono state di sorpresa, perché nella mia lunga carriera tutti mi avevano attribuito altre fedi sportive, ma pochi pensavano fossi laziale. E questo mi ha fatto piacere, vuol dire che ho saputo celare la mia passione. Ed è un valore che nel mio mestiere si sta un po’ perdendo. Credo che sia ancora valida la definizione di Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà, deve essere attendibile, suscitare la fiducia dei lettori e degli ascoltatori. Su questo elemento la nostra categoria deve riflettere molto.

Che rapporto ha con i social network? I suoi profili sono molto seguiti

Sono un grande fruitore di social, mi diverto a utilizzarli, soprattutto ora che ho smesso di lavorare. Nei miei ultimi dieci anni in Rai sono stato responsabile dello sport in radio e ho dovuto occuparmi dei social, pur non avendo la formazione adatta. Questo mi ha portato a conoscere meglio il mezzo. Della televisione il filosofo Karl Popper scriveva: in sé non è né buona né cattiva, dipende da come la si usa. Penso che questo si possa ben applicare ai social che sono un grande strumento di comunicazione, ma possono diventare strumento di odio e di assalti nei confronti di chi esprime le proprie opinioni.

La sua posizione sembra molto chiara. Dal suo profilo Twitter leggiamo: “Migliaia di radiocronache e tre libri. Senza mai fare a meno di Puccini e di Wagner. Parlo di partite, non di episodi arbitrali. E di vita. Blocco i maleducati”.

Twitter mi piace molto perché consente una dinamica molto diretta con tutti. È uno strumento che mi ha permesso di raggiungere migliaia di persone anche lontane, di stringere amicizie virtuali o reali con personaggi che non avrei mai potuto incontrare. È una grande opportunità di incontro e scambio, ma purtroppo anche di odio. Succede anche a me di essere colpito da attacchi, soprattutto quando esprimo opinioni, sportive, culturali e politiche. Cerco di rispondere sempre, in alcuni casi funziona e in altri meno, quindi si deve ricorrere inevitabilmente al blocco.

Quanto si discostano i social dalla realtà?

Direi poco, li ritengo una sorta di piazza virtuale. Pensare che quello che accade sui social succeda solo lì è un errore. Sono una cartina tornasole di quello che sta succedendo attorno a noi: la società in cui viviamo è pervasa dall’odio e questo si riflette sui social. Di sicuro però i social facilitano certi tipi di attacchi perché nascondono chi li compie, fanno cadere le barriere che molti di noi utilizzano nelle relazioni interpersonali reali.

Che consiglio darebbe ai fruitori di social, anche quelli più aggressivi?

Di seguire una regola: non attaccare mai direttamente la persona, anche se non condividi le sue idee. Prima confrontati con le sue idee. Invece ciò che succede spesso è che non si apre un dibattito sul tema, ma si passa subito all’attacco personale.        

Oltre a raccontarlo, lei pratica sport?   

Ho praticato tanti sport, calcio, ciclismo, atletica leggera e continuo ancora oggi, vado in bici, in mountain bike, in palestra. Credo che la pratica dello sport sia un diritto, che dovrebbe essere sancita dalle costituzioni.

Ma soprattutto lo sport è una grande possibilità di confronto con sé stessi, sui propri limiti, le proprie capacità, è una crescita costante: conoscere noi stessi per imparare poi a confrontarci con gli altri.

Puoi seguire Riccardo Cucchi sui suoi canali social: Twitter FacebookInstagram

Asd Intrecciante di Trento

Nata nel luglio 2018 a Trento, la Asd Intrecciante è un esempio tangibile di inclusione e dialogo interculturale. Intreccia infatti le storie di un gruppo di 30 ragazzi e ragazze provenienti da differenti realtà della città di Trento: operatori del mondo dell’accoglienza, giovani richiedenti asilo ospitati nelle residenze della città, studenti universitari, alcuni rappresentanti del mondo del calcio locale.

L’associazione nasce grazie al progetto “GOAL! Fare rete contro il razzismo”, finanziato da Fondazione Caritro. L’Asd ha così potuto partecipare al campionato amatori di calcio a 11 FIGC nelle stagioni 2018/19 e 2019/20, fino all’arrivo della pandemia. La squadra si è fatta notare per il terzo tempo, realizzato al termine di ogni partita, e per essere una dimostrazione diretta di come lo sport possa rappresentare un potente strumento di incontro e socializzazione fra giovani di differenti background e provenienze.

Per Odiare non è uno sport abbiamo chiesto alla dirigente Malika Mouj di raccontarci la storia della Asd.

La panchina “bianca”

A quasi un mese di distanza dall’8 giugno le parole di Raheem Sterling e Sol Bamba, sembrano aver fatto breccia nella federazione inglese. Sterling, attaccante del Manchester City e della nazionale inglese, aveva lamentato la scarsità di allenatori, manager, preparatori appartenenti a minoranze etniche nel professionismo inglese.

di Luca School – un articolo di sportallarovescia.it

Nel campionato inglese, su poco più di 500 giocatori, i Colored sono circa un terzo, ma la cifra è molto più misera se si guarda ai settori tecnici. Sulle panchine dei 98 club dei 5 top campionati europei, sono solo due gli allenatori neri: Patrick Vieira per il Nizza e Nuno Espírito Santos per il Wolverhampton. Vi è una sorta di barriera etnica che tende ad accettare solo i bianchi.

Sir Alex Ferguson è da sempre una figura paterna per me. Deciso a diventare allenatore, sono andato da lui e gli ho detto quello che avevo intenzione di fare. Lui mi ha dato alcuni consigli e mi ha sempre detto che avrebbe garantito per me, nel caso in cui avessi avuto bisogno di una raccomandazione per allenare ed è così ancora oggi, ma malgrado il suo aiuto, non riesco a fare nemmeno un colloquio.

Dwight Yorke

Da alcuni anni la lega inglese cerca con varie iniziative di invertire questa tendenza. ma fino ad oggi è rimasto tutto un buco nell’acqua fino. Ed ecco quindi che il calcio inglese professionistico decide di prendere petto la questione e istituisce nei propri corsi di formazione e inserimento lavorativo dei posti riservati a cittadini BAME (Black, Asian and Minority Ethnic), dimostrazione di come si possa almeno a livello federale affrontare seriamente un problema. Attenzione non si pensi che questo risolva la questione o che possa essere una soluzione definitiva, cosa palesemente dimostrata dalla disfatta totale delle campagne UEFA contro il razzismo negli stadi, ancora oggi infestati da scene indegne. Ma il calcio inglese si è reso conto che è un problema di natura sociale: finché i giovani calciatori membri di minoranze non avranno figure di riferimento ulteriori ai giocatori non cambierà nulla o quasi, servono modelli, persone a cui ispirarsi che siano oltre il grande campione sul campo, più adulte e mature, rispettate per la loro intelligenza e il loro carattere, più che per prestanza fisica e doti tecniche.

Quando la gente dubita dell’intelligenza di un’etnia, la situazione diventa impossibile. È normale che ci siano tanti giocatori di colore, perché la gente pensa che siano grandi atleti con buone capacità fisiche, ma per essere allenatore servono intelligenza e disciplina. In campo va tutto bene, ma fuori è complicato perché c’è gente che dubita che la gente nera sia capace.

Lilian Thuram

Un giovane calciatore, quale sia la sua etnia, sa di dover pensare al proprio futuro dopo i 35- 40 anni di età. Ai calciatori membri di minoranze mancano figure cui ispirarsi e ambire. Se un ragazzino nero non ha nessun esempio di leader nero nel calcio, come allenatore, dirigente, presidente, come potrà immaginare di essere lui stesso in futuro qualcosa del genere? Su questo problema le federazioni possono agire immediatamente attraverso programmi e incentivi. La disparità di trattamento che subiscono i tecnici neri nel mondo del calcio è un dato di fatto nei campionati inglesi, ma anche a livello globale.

Alcuni vecchi giocatori di colore, non prendono il titolo da allenatore anche se magari lo vorrebbero. Naturalmente ci sono molti allenatori africani che hanno il tesserino da allenatore, ma semplicemente non esiste quella fiducia, che, invece, c’è nei confronti degli altri allenatori. I tecnici di colore sono sfiduciati perché visti come esseri di seconda classe.

Samuel Eto’o

In Italia come siamo messi?

In Italia abbiamo avuto tre allenatori BAME: Jarbas Faustinho, meglio noto come Cané, Fabio Liverani e Clarence Seedorf. Il mondo del calcio italiano sotto il profilo amministrativo è eccentrico, questioni come la piazza, i tifosi, gli sponsor, influiscono moltissimo nelle scelte aziendali dei grandi club e suppliscono a fattori come l’esperienza e la professionalità, non solo nella fase del mercato e gestione dei calciatori, ma anche in quello della gestione aziendale dei manager. Ad esempio, nel settore allenatori è sempre più in uso, specie nei momenti di crisi, puntare su un grande nome anche privo di esperienza almeno per calmare la pancia dei tifosi; pensiamo ai vari avvicendamenti sulla panchina del Milan: Brocchi, Gattuso, Inzaghi, Seedorf. Grossi nomi, bei palmares, poca o nessuna esperienza, la possibilità di guardare qualcosa di straniero, magari qualche allenatore che si è fatto le ossa nei campionati fuori Uefa, ma scherziamo (qui facciamo un’eccezione per alcuni tecnici sudamericani i quali comunque prima fanno esperienza in squadre medio piccole). Difficilmente un club nostrano assumerebbe un tecnico di formazione africana o asiatica e incorrerebbe in critiche furiose anche da una certa quota degli opinionisti, i quali ricorderebbero statistiche varie per giustificare le loro sicure castronerie. In Italia esiste tutt’ora una fetta fin troppo ampia di sedicenti tifosi che sostiene la non capacità dei portieri di origine africana. Dei vari tecnici del Milan l’unico che è stato accusato di non capir nulla di calcio è Seedorf ed è l’unico che fatica a trovare un impiego come tecnico, eppure la sua media di vittorie era la più alta tra i nominati. Fabio Liverani dopo la brevissima panchina al Genoa ha dovuto fare tutto il percorso dalla serie C, attraverso anche l’esperienza al Leyton Orient.

Gli allenatori di colore sono un tabù. Il motivo non lo so ma è un dato di fatto. C’è Seedorf che ha avuto un discreto successo in mondi diversi, ci sono diversi tecnici sudamericani neri, ma gli allenatori di colore dovrebbero essere di più.

Sven-Göran Eriksson

Se allarghiamo lo sguardo fuori dalla Uefa dove le percentuali di atleti BAME salgono, c’è da restare basiti e due dati su tutti saltano agli occhi. Primo che in Brasile, Paese in cui il 60% della popolazione si identifica con l’etnia nera o meticcia, vi sono solo due tecnici di colore, gli allenatori Marcão della Fluminense FC e Roger Machado dell’EC Bahia. Secondo, che il senegalese Aliou Cissé era l’unico allenatore nero ai Mondiali di Russia nel 2018. Inutile dire che non ci siamo. Un triste esempio giunge proprio dalle federazioni africane dove si preferisce affidare le selezioni nazionali a tecnici europei, a fronte sia di grandi allenatori locali, sia di grandi ex giocatori locali di scuola europea. Tutti e tre i tecnici nominati hanno lamentato negli anni questa discriminazione de facto. Il progetto della lega inglese se portato a termine è un buon inizio, un esempio che le altre federazioni nazionali dovrebbero adottare, integrandolo a finanziamenti reali e strutturali per tutte quelle realtà sportive di basse che utilizzano lo sport come strumento di lotta al razzismo e alle discriminazioni.

Ripensando alla mia carriera, ci sono state delle volte in cui non ho volutamente detto quello che pensavo perché ho avuto paura delle possibili ripercussioni e di come sarei stato giudicato dalla gente. Se sei in uno sport dominato dai bianchi e le persone ai vertici sono prevalentemente maschi bianchi, l’ultima cosa che vuoi è dire qualcosa di inappropriato. Spesso mi sono trovato ad agire in un determinato modo per adattarmi agli altri e non essere giudicato solo perché ero nero.

Micah Richards

Lukaku si inginocchia a pugno chiuso. E si scatena l’odio sui social

Ginocchio a terra e pugno alzato al cielo. Il gesto simbolo dell’ondata di proteste partita dagli Stati Uniti, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, è arrivato anche sui campi di calcio. Il gesto compiuto dal bomber neroazzurro Romelu Lukaku, al decimo minuto di Inter-Sampdoria, al rientro al calcio giocato dopo oltre tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus, ha riempito le prime pagine dei giornali e le bacheche dei social. Scatenando una marea di commenti. Prima di lui allo stesso modo aveva esultato anche Nicolas Nkoulou, difensore del Torino, andato in rete sabato contro il Parma.

di Ilaria Leccardi

Molti sono stati i commenti di sostegno e apprezzamento del gesto, ma anche tanti, ancora troppi, quelli che sono andati ben oltre la critica, conditi da insulti e veri e propri attacchi alla persona, alla squadra e in generale al movimento Black Lives Matter.

La fotografia del gigante neroazzurro è stata ripostata dai profili social dell’Inter con la scritta Black Lives Matter e gli hastag #BrothersUniversallyUnited #NoToDiscrimination , e da quelli del giocatore che ha scritto: “Questo è per tutte le persone che lottano contro l’ingiustizia. Io sono con voi”.

Se sulle pagine ufficiali i commenti sono stati per lo più di approvazione, è sulle pagine social delle testate sportive che si sono scatenati gli haters da tastiera. C’è chi ricorre all’insulto generico, “coglione”, “pagliaccio”, “vaffanculo”, “che cazzata”, “ipocrita”, “deficiente”. Chi invece prova ad argomentare, non contestualizzando minimamente il gesto, ma sostenendo che Lukaku avrebbe fatto meglio a protestare per altri fatti di cronaca, per omicidi avvenuti in altre situazioni (commessi da persone nere), per i morti da Covid19. E poi ci sono coloro secondo cui comunque alla fine George Floyd era un “criminale” (così viene definito in diversi commenti, quasi a giustificare la morte per soffocamento di una persona). Altri invece – molti – che attaccano il calciatore e la società, anche con insulti pesanti, perché “non bisogna mettere la politica nello sport”.

Ma perché non dovrebbe succedere? E perché un gesto a sostegno di una battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza sociale deve scatenare ancora così tanto odio?

Non è la prima volta che Lukaku viene preso di mira, sia sui social che dal vivo. Il caso più clamoroso fu durante la partita Cagliari-Inter, a inizio campionato, quando i tifosi cagliaritani intonarono un coro di buu, come purtroppo ancora troppo spesso negli stadi avviene nei confronti i calciatori neri. All’epoca lui commentò: “Molti giocatori nell’ultimo mese sono stati vittime di abusi razzisti. A me è successo ieri.

Il calcio è uno gioco che deve far felici tutti e non possiamo accettare nessuna forma di discriminazione che lo possa far vergognare. Spero che tutte le Federazioni del mondo reagiscano duramente contro tutti i casi di discriminazione.

Ma come dimostra il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca condotta nell’ambito del progetto Odiare non è uno Sport, il calciatore dell’Inter – assieme a Mario Balotelli – è la figura sportiva che scatena il maggior numero di commenti contenenti hate speech sui social, in particolare insulti e forme di discriminazione razziale per il colore della pelle.

Il gesto di Lukaku non è certo una novità in ambito sportivo. Il più celebre pugno alzato al cielo resta quello di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dopo la finale dei 200 metri piani. Sul podio, davanti agli occhi di tutto il mondo, le medaglie d’oro e di bronzo olimpiche al momento dell’inno statunitense abbassarono il capo, alzarono il pugno, indossando un guanto nero. Era il 1968 e le battaglie per i diritti civili della popolazione nera negli States erano all’apice della loro intensità. Le conseguenze per i due velocisti non furono tanto le proteste del pubblico, quanto provvedimenti che li esclusero dai circuiti sportivi, così come fu per l’argento, il bianco australiano Peter Norman, che silenziosamente appoggiò il gesto dei colleghi neri, indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), e da allora ebbe la carriera rovinata.

I gesti che hanno coinvolto gli sportivi nei decenni da allora non sono stati pochi. Tra le proteste recenti più clamorose spicca quella di Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, che a partire dal 2016 più volte si è inginocchiato durante l’inno nazionale, in protesta contro le discriminazioni razziali, scatenando l’emulazione da parte di diversi colleghi, ma anche molte critiche dell’America bianca. Una protesta che gli è costata molto: terminato il suo contratto con i San Francisco 49ers, il quarterback è rimasto senza squadra e ha poi lanciato una battaglia legale contro l’intero sistema della NFL che lo avrebbe ostacolato in ogni modo a rientrare nel circuito, vincendola in tribunale e ottenendo un ingente risarcimento.

Ma prese di posizione molti forti ci sono state anche nelle ultime settimane, in seguito alla morte di Floyd. Alta si è levata la voce di tanti sportivi: da Lewis Hamilton, stella della Formula 1, unico pilota nero del circuito, a Lebron James, campione della NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers, da sempre sensibile al tema. Fino a Marcos Thuram, figlio di Lilian e giocatore in Germania del Borussia Moenchengladbach, che a sua volta si è inginocchiato dopo un gol.

Tornando a Lukaku viene da chiedersi il perché un gesto dimostrativo e di solidarietà a una battaglia che ha assunto una portata mondiale possa scatenare ancora così tanti commenti negativi e insulti deliberati. Come è noto, l’ambiente calcistico non brilla certo per tifoserie che hanno nella lotta per l’uguaglianza e i diritti civili una delle proprie chiavi. Anzi, in Italia nel 2020 sono ancora molti i gruppi di ultras – Inter compresa – che si definiscono apertamente fascisti. In questa coda di campionato così particolare a causa dell’emergenza sanitaria, gli stadi sono vuoti. Si gioca in un silenzio irreale. Un gesto come quello esibito davanti alle telecamere di tutto il mondo non poteva che avere una risonanza mediatica importante. E di certo non può unire le coscienze, perché ancora troppi sono coloro che non credono nell’uguaglianza sociale o che nemmeno si interrogano sui motivi che stanno scatenando le proteste di tutto il mondo e che affondano la propria ragion d’essere in secoli di colonialismo, discriminazioni e ferite profonde.

Ciò che è inaccettabile è che il commento non sia una critica sull’opportunità o meno del gesto simbolico, ma si trasformi in veicolo di invettiva, alimentando parole d’odio in una serie di botta e risposta (soprattutto su social come Facebook e Instagram dove è possibile rispondere e commentare i commenti altrui), che in tanti casi si trasformano in una spirale di insulti. Caratteristica purtroppo ormai strutturale del confronto sui social media.

In una società che è evidentemente ancora frammentata, un gesto come quello di Lukaku però può contribuire ad alimentare il dibattito. E non solo in protesta per la morte atroce di George Floyd a cui è stata tolta con violenza la possibilità di respirare. Ma assume un valore politico necessario. Forse perché è giunto il momento di non restare indifferenti. Forse perché abbiamo bisogno di una società consapevole. Il gesto non può bastare, ma il suo valore è forte, tanto più se viene da un uomo che – pur dall’alto del suo privilegio economico e mediatico – ha subito a sua volta episodi di razzismo in pubblico e che viene seguito dalle telecamere del mondo.

Anche per questo rilanciamo l‘appello a un Campionato senza odio e chiediamo a chi ci segue di monitorare quanto avviene sui social, individuando commenti contenenti hate speech e segnalandoli al nostro progetto.

Se vuoi contribuire puoi segnalare i commenti taggando la pagina Fb  o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it. Se te la senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.

Oltre ogni barriera, è il calcio che unisce!

È ai nastri di partenza la stagione dei campionati di quarta, quinta e sesta categoria della FIGC, dedicate a calciatori e calciatrici con disabilità intellettivo-relazionale e patologie psichiatriche. In campo ci saranno anche Silvio Tolu e compagni del Casteddu4Special, la formazione che nasce dall’adozione da parte del Cagliari Calcio dei Fenicotteri Oristano “Una ragione in più”.

Martedì 25 febbraio i ragazzi della squadra si sono allenati al campo di Asseminello, centro sportivo del Cagliari Calcio. Si è trattato di un momento speciale, fatto di emozioni, condivisione e divertimento, a sancire la partenza ufficiale di un progetto significativo. Dopo la consegna di tute e maglie ufficiali del Cagliari, i Casteddu4Special hanno svolto una seduta mattutina sul prato della formazione di Serie A, quindi il pranzo collettivo, per poi unirsi ai ragazzi del Settore Giovanile rossoblù con i quali è stata organizzata l’attività ludica di chiusura.

La storia di Silvio Tolu, colonna della squadra sarda e della Nazionale Crazy for Football, l’abbiamo raccontata per Odiare non è uno sport. E non possiamo che continuare a seguirne i passi e gli sviluppi. Ne approfittiamo per augurare buon campionato a tutti i calciatori e la calciatrici che prenderanno parte a questa stagione!