Asd Intrecciante di Trento

Nata nel luglio 2018 a Trento, la Asd Intrecciante è un esempio tangibile di inclusione e dialogo interculturale. Intreccia infatti le storie di un gruppo di 30 ragazzi e ragazze provenienti da differenti realtà della città di Trento: operatori del mondo dell’accoglienza, giovani richiedenti asilo ospitati nelle residenze della città, studenti universitari, alcuni rappresentanti del mondo del calcio locale.

L’associazione nasce grazie al progetto “GOAL! Fare rete contro il razzismo”, finanziato da Fondazione Caritro. L’Asd ha così potuto partecipare al campionato amatori di calcio a 11 FIGC nelle stagioni 2018/19 e 2019/20, fino all’arrivo della pandemia. La squadra si è fatta notare per il terzo tempo, realizzato al termine di ogni partita, e per essere una dimostrazione diretta di come lo sport possa rappresentare un potente strumento di incontro e socializzazione fra giovani di differenti background e provenienze.

Per Odiare non è uno sport abbiamo chiesto alla dirigente Malika Mouj di raccontarci la storia della Asd.

La panchina “bianca”

A quasi un mese di distanza dall’8 giugno le parole di Raheem Sterling e Sol Bamba, sembrano aver fatto breccia nella federazione inglese. Sterling, attaccante del Manchester City e della nazionale inglese, aveva lamentato la scarsità di allenatori, manager, preparatori appartenenti a minoranze etniche nel professionismo inglese.

di Luca School – un articolo di sportallarovescia.it

Nel campionato inglese, su poco più di 500 giocatori, i Colored sono circa un terzo, ma la cifra è molto più misera se si guarda ai settori tecnici. Sulle panchine dei 98 club dei 5 top campionati europei, sono solo due gli allenatori neri: Patrick Vieira per il Nizza e Nuno Espírito Santos per il Wolverhampton. Vi è una sorta di barriera etnica che tende ad accettare solo i bianchi.

Sir Alex Ferguson è da sempre una figura paterna per me. Deciso a diventare allenatore, sono andato da lui e gli ho detto quello che avevo intenzione di fare. Lui mi ha dato alcuni consigli e mi ha sempre detto che avrebbe garantito per me, nel caso in cui avessi avuto bisogno di una raccomandazione per allenare ed è così ancora oggi, ma malgrado il suo aiuto, non riesco a fare nemmeno un colloquio.

Dwight Yorke

Da alcuni anni la lega inglese cerca con varie iniziative di invertire questa tendenza. ma fino ad oggi è rimasto tutto un buco nell’acqua fino. Ed ecco quindi che il calcio inglese professionistico decide di prendere petto la questione e istituisce nei propri corsi di formazione e inserimento lavorativo dei posti riservati a cittadini BAME (Black, Asian and Minority Ethnic), dimostrazione di come si possa almeno a livello federale affrontare seriamente un problema. Attenzione non si pensi che questo risolva la questione o che possa essere una soluzione definitiva, cosa palesemente dimostrata dalla disfatta totale delle campagne UEFA contro il razzismo negli stadi, ancora oggi infestati da scene indegne. Ma il calcio inglese si è reso conto che è un problema di natura sociale: finché i giovani calciatori membri di minoranze non avranno figure di riferimento ulteriori ai giocatori non cambierà nulla o quasi, servono modelli, persone a cui ispirarsi che siano oltre il grande campione sul campo, più adulte e mature, rispettate per la loro intelligenza e il loro carattere, più che per prestanza fisica e doti tecniche.

Quando la gente dubita dell’intelligenza di un’etnia, la situazione diventa impossibile. È normale che ci siano tanti giocatori di colore, perché la gente pensa che siano grandi atleti con buone capacità fisiche, ma per essere allenatore servono intelligenza e disciplina. In campo va tutto bene, ma fuori è complicato perché c’è gente che dubita che la gente nera sia capace.

Lilian Thuram

Un giovane calciatore, quale sia la sua etnia, sa di dover pensare al proprio futuro dopo i 35- 40 anni di età. Ai calciatori membri di minoranze mancano figure cui ispirarsi e ambire. Se un ragazzino nero non ha nessun esempio di leader nero nel calcio, come allenatore, dirigente, presidente, come potrà immaginare di essere lui stesso in futuro qualcosa del genere? Su questo problema le federazioni possono agire immediatamente attraverso programmi e incentivi. La disparità di trattamento che subiscono i tecnici neri nel mondo del calcio è un dato di fatto nei campionati inglesi, ma anche a livello globale.

Alcuni vecchi giocatori di colore, non prendono il titolo da allenatore anche se magari lo vorrebbero. Naturalmente ci sono molti allenatori africani che hanno il tesserino da allenatore, ma semplicemente non esiste quella fiducia, che, invece, c’è nei confronti degli altri allenatori. I tecnici di colore sono sfiduciati perché visti come esseri di seconda classe.

Samuel Eto’o

In Italia come siamo messi?

In Italia abbiamo avuto tre allenatori BAME: Jarbas Faustinho, meglio noto come Cané, Fabio Liverani e Clarence Seedorf. Il mondo del calcio italiano sotto il profilo amministrativo è eccentrico, questioni come la piazza, i tifosi, gli sponsor, influiscono moltissimo nelle scelte aziendali dei grandi club e suppliscono a fattori come l’esperienza e la professionalità, non solo nella fase del mercato e gestione dei calciatori, ma anche in quello della gestione aziendale dei manager. Ad esempio, nel settore allenatori è sempre più in uso, specie nei momenti di crisi, puntare su un grande nome anche privo di esperienza almeno per calmare la pancia dei tifosi; pensiamo ai vari avvicendamenti sulla panchina del Milan: Brocchi, Gattuso, Inzaghi, Seedorf. Grossi nomi, bei palmares, poca o nessuna esperienza, la possibilità di guardare qualcosa di straniero, magari qualche allenatore che si è fatto le ossa nei campionati fuori Uefa, ma scherziamo (qui facciamo un’eccezione per alcuni tecnici sudamericani i quali comunque prima fanno esperienza in squadre medio piccole). Difficilmente un club nostrano assumerebbe un tecnico di formazione africana o asiatica e incorrerebbe in critiche furiose anche da una certa quota degli opinionisti, i quali ricorderebbero statistiche varie per giustificare le loro sicure castronerie. In Italia esiste tutt’ora una fetta fin troppo ampia di sedicenti tifosi che sostiene la non capacità dei portieri di origine africana. Dei vari tecnici del Milan l’unico che è stato accusato di non capir nulla di calcio è Seedorf ed è l’unico che fatica a trovare un impiego come tecnico, eppure la sua media di vittorie era la più alta tra i nominati. Fabio Liverani dopo la brevissima panchina al Genoa ha dovuto fare tutto il percorso dalla serie C, attraverso anche l’esperienza al Leyton Orient.

Gli allenatori di colore sono un tabù. Il motivo non lo so ma è un dato di fatto. C’è Seedorf che ha avuto un discreto successo in mondi diversi, ci sono diversi tecnici sudamericani neri, ma gli allenatori di colore dovrebbero essere di più.

Sven-Göran Eriksson

Se allarghiamo lo sguardo fuori dalla Uefa dove le percentuali di atleti BAME salgono, c’è da restare basiti e due dati su tutti saltano agli occhi. Primo che in Brasile, Paese in cui il 60% della popolazione si identifica con l’etnia nera o meticcia, vi sono solo due tecnici di colore, gli allenatori Marcão della Fluminense FC e Roger Machado dell’EC Bahia. Secondo, che il senegalese Aliou Cissé era l’unico allenatore nero ai Mondiali di Russia nel 2018. Inutile dire che non ci siamo. Un triste esempio giunge proprio dalle federazioni africane dove si preferisce affidare le selezioni nazionali a tecnici europei, a fronte sia di grandi allenatori locali, sia di grandi ex giocatori locali di scuola europea. Tutti e tre i tecnici nominati hanno lamentato negli anni questa discriminazione de facto. Il progetto della lega inglese se portato a termine è un buon inizio, un esempio che le altre federazioni nazionali dovrebbero adottare, integrandolo a finanziamenti reali e strutturali per tutte quelle realtà sportive di basse che utilizzano lo sport come strumento di lotta al razzismo e alle discriminazioni.

Ripensando alla mia carriera, ci sono state delle volte in cui non ho volutamente detto quello che pensavo perché ho avuto paura delle possibili ripercussioni e di come sarei stato giudicato dalla gente. Se sei in uno sport dominato dai bianchi e le persone ai vertici sono prevalentemente maschi bianchi, l’ultima cosa che vuoi è dire qualcosa di inappropriato. Spesso mi sono trovato ad agire in un determinato modo per adattarmi agli altri e non essere giudicato solo perché ero nero.

Micah Richards

Lukaku si inginocchia a pugno chiuso. E si scatena l’odio sui social

Ginocchio a terra e pugno alzato al cielo. Il gesto simbolo dell’ondata di proteste partita dagli Stati Uniti, in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, è arrivato anche sui campi di calcio. Il gesto compiuto dal bomber neroazzurro Romelu Lukaku, al decimo minuto di Inter-Sampdoria, al rientro al calcio giocato dopo oltre tre mesi di stop a causa dell’emergenza coronavirus, ha riempito le prime pagine dei giornali e le bacheche dei social. Scatenando una marea di commenti. Prima di lui allo stesso modo aveva esultato anche Nicolas Nkoulou, difensore del Torino, andato in rete sabato contro il Parma.

di Ilaria Leccardi

Molti sono stati i commenti di sostegno e apprezzamento del gesto, ma anche tanti, ancora troppi, quelli che sono andati ben oltre la critica, conditi da insulti e veri e propri attacchi alla persona, alla squadra e in generale al movimento Black Lives Matter.

La fotografia del gigante neroazzurro è stata ripostata dai profili social dell’Inter con la scritta Black Lives Matter e gli hastag #BrothersUniversallyUnited #NoToDiscrimination , e da quelli del giocatore che ha scritto: “Questo è per tutte le persone che lottano contro l’ingiustizia. Io sono con voi”.

Se sulle pagine ufficiali i commenti sono stati per lo più di approvazione, è sulle pagine social delle testate sportive che si sono scatenati gli haters da tastiera. C’è chi ricorre all’insulto generico, “coglione”, “pagliaccio”, “vaffanculo”, “che cazzata”, “ipocrita”, “deficiente”. Chi invece prova ad argomentare, non contestualizzando minimamente il gesto, ma sostenendo che Lukaku avrebbe fatto meglio a protestare per altri fatti di cronaca, per omicidi avvenuti in altre situazioni (commessi da persone nere), per i morti da Covid19. E poi ci sono coloro secondo cui comunque alla fine George Floyd era un “criminale” (così viene definito in diversi commenti, quasi a giustificare la morte per soffocamento di una persona). Altri invece – molti – che attaccano il calciatore e la società, anche con insulti pesanti, perché “non bisogna mettere la politica nello sport”.

Ma perché non dovrebbe succedere? E perché un gesto a sostegno di una battaglia per i diritti civili e l’uguaglianza sociale deve scatenare ancora così tanto odio?

Non è la prima volta che Lukaku viene preso di mira, sia sui social che dal vivo. Il caso più clamoroso fu durante la partita Cagliari-Inter, a inizio campionato, quando i tifosi cagliaritani intonarono un coro di buu, come purtroppo ancora troppo spesso negli stadi avviene nei confronti i calciatori neri. All’epoca lui commentò: “Molti giocatori nell’ultimo mese sono stati vittime di abusi razzisti. A me è successo ieri.

Il calcio è uno gioco che deve far felici tutti e non possiamo accettare nessuna forma di discriminazione che lo possa far vergognare. Spero che tutte le Federazioni del mondo reagiscano duramente contro tutti i casi di discriminazione.

Ma come dimostra il Barometro dell’Odio nello Sport, la ricerca condotta nell’ambito del progetto Odiare non è uno Sport, il calciatore dell’Inter – assieme a Mario Balotelli – è la figura sportiva che scatena il maggior numero di commenti contenenti hate speech sui social, in particolare insulti e forme di discriminazione razziale per il colore della pelle.

Il gesto di Lukaku non è certo una novità in ambito sportivo. Il più celebre pugno alzato al cielo resta quello di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico, dopo la finale dei 200 metri piani. Sul podio, davanti agli occhi di tutto il mondo, le medaglie d’oro e di bronzo olimpiche al momento dell’inno statunitense abbassarono il capo, alzarono il pugno, indossando un guanto nero. Era il 1968 e le battaglie per i diritti civili della popolazione nera negli States erano all’apice della loro intensità. Le conseguenze per i due velocisti non furono tanto le proteste del pubblico, quanto provvedimenti che li esclusero dai circuiti sportivi, così come fu per l’argento, il bianco australiano Peter Norman, che silenziosamente appoggiò il gesto dei colleghi neri, indossando una spilla dell’OPHR (Olympic Project for Human Rights), e da allora ebbe la carriera rovinata.

I gesti che hanno coinvolto gli sportivi nei decenni da allora non sono stati pochi. Tra le proteste recenti più clamorose spicca quella di Colin Kaepernick, giocatore di football americano della NFL, che a partire dal 2016 più volte si è inginocchiato durante l’inno nazionale, in protesta contro le discriminazioni razziali, scatenando l’emulazione da parte di diversi colleghi, ma anche molte critiche dell’America bianca. Una protesta che gli è costata molto: terminato il suo contratto con i San Francisco 49ers, il quarterback è rimasto senza squadra e ha poi lanciato una battaglia legale contro l’intero sistema della NFL che lo avrebbe ostacolato in ogni modo a rientrare nel circuito, vincendola in tribunale e ottenendo un ingente risarcimento.

Ma prese di posizione molti forti ci sono state anche nelle ultime settimane, in seguito alla morte di Floyd. Alta si è levata la voce di tanti sportivi: da Lewis Hamilton, stella della Formula 1, unico pilota nero del circuito, a Lebron James, campione della NBA con la maglia dei Los Angeles Lakers, da sempre sensibile al tema. Fino a Marcos Thuram, figlio di Lilian e giocatore in Germania del Borussia Moenchengladbach, che a sua volta si è inginocchiato dopo un gol.

Tornando a Lukaku viene da chiedersi il perché un gesto dimostrativo e di solidarietà a una battaglia che ha assunto una portata mondiale possa scatenare ancora così tanti commenti negativi e insulti deliberati. Come è noto, l’ambiente calcistico non brilla certo per tifoserie che hanno nella lotta per l’uguaglianza e i diritti civili una delle proprie chiavi. Anzi, in Italia nel 2020 sono ancora molti i gruppi di ultras – Inter compresa – che si definiscono apertamente fascisti. In questa coda di campionato così particolare a causa dell’emergenza sanitaria, gli stadi sono vuoti. Si gioca in un silenzio irreale. Un gesto come quello esibito davanti alle telecamere di tutto il mondo non poteva che avere una risonanza mediatica importante. E di certo non può unire le coscienze, perché ancora troppi sono coloro che non credono nell’uguaglianza sociale o che nemmeno si interrogano sui motivi che stanno scatenando le proteste di tutto il mondo e che affondano la propria ragion d’essere in secoli di colonialismo, discriminazioni e ferite profonde.

Ciò che è inaccettabile è che il commento non sia una critica sull’opportunità o meno del gesto simbolico, ma si trasformi in veicolo di invettiva, alimentando parole d’odio in una serie di botta e risposta (soprattutto su social come Facebook e Instagram dove è possibile rispondere e commentare i commenti altrui), che in tanti casi si trasformano in una spirale di insulti. Caratteristica purtroppo ormai strutturale del confronto sui social media.

In una società che è evidentemente ancora frammentata, un gesto come quello di Lukaku però può contribuire ad alimentare il dibattito. E non solo in protesta per la morte atroce di George Floyd a cui è stata tolta con violenza la possibilità di respirare. Ma assume un valore politico necessario. Forse perché è giunto il momento di non restare indifferenti. Forse perché abbiamo bisogno di una società consapevole. Il gesto non può bastare, ma il suo valore è forte, tanto più se viene da un uomo che – pur dall’alto del suo privilegio economico e mediatico – ha subito a sua volta episodi di razzismo in pubblico e che viene seguito dalle telecamere del mondo.

Anche per questo rilanciamo l‘appello a un Campionato senza odio e chiediamo a chi ci segue di monitorare quanto avviene sui social, individuando commenti contenenti hate speech e segnalandoli al nostro progetto.

Se vuoi contribuire puoi segnalare i commenti taggando la pagina Fb  o l’account Instagram di Odiare non è uno Sport oppure facendo uno screenshot dei tweet e inviandoli a ufficiostampa@odiarenoneunosport.it. Se te la senti, puoi anche intervenire direttamente nella conversazione rilanciando il semplice appello a un Campionato senza Odio o usando la card qui sotto.

Oltre ogni barriera, è il calcio che unisce!

È ai nastri di partenza la stagione dei campionati di quarta, quinta e sesta categoria della FIGC, dedicate a calciatori e calciatrici con disabilità intellettivo-relazionale e patologie psichiatriche. In campo ci saranno anche Silvio Tolu e compagni del Casteddu4Special, la formazione che nasce dall’adozione da parte del Cagliari Calcio dei Fenicotteri Oristano “Una ragione in più”.

Martedì 25 febbraio i ragazzi della squadra si sono allenati al campo di Asseminello, centro sportivo del Cagliari Calcio. Si è trattato di un momento speciale, fatto di emozioni, condivisione e divertimento, a sancire la partenza ufficiale di un progetto significativo. Dopo la consegna di tute e maglie ufficiali del Cagliari, i Casteddu4Special hanno svolto una seduta mattutina sul prato della formazione di Serie A, quindi il pranzo collettivo, per poi unirsi ai ragazzi del Settore Giovanile rossoblù con i quali è stata organizzata l’attività ludica di chiusura.

La storia di Silvio Tolu, colonna della squadra sarda e della Nazionale Crazy for Football, l’abbiamo raccontata per Odiare non è uno sport. E non possiamo che continuare a seguirne i passi e gli sviluppi. Ne approfittiamo per augurare buon campionato a tutti i calciatori e la calciatrici che prenderanno parte a questa stagione!