Zaral Virgolin: l’importanza di valorizzare la propria unicità

“Senza lo sport praticato da ragazzo con gli amici più fidati, non avrei realizzato me stesso. La mia autostima è rinata con il primo giro in bicicletta sulle salite assieme agli amici. O quando, a 14 anni, ci siamo inventati il calcio-bici, cioè il calcio giocato in bici, così da muoverci tutti sulle due ruote e non a piedi, cosa che mi avrebbe escluso. Per la prima volta erano gli amici ad adattarsi a me. Una cosa resa possibile in quel modo così potente solo grazie allo sport. Perché è gioco, divertimento, istinto. E se tutti riescono a giocare allo stesso modo, allora automaticamente ogni barriera crolla”.

Zaral Virgolin ha 45 anni, è di Udine, ed è uno sportivo da quando ne ha memoria. Nato in un quartiere popolare della città friulana, a 10 anni era già un campione di calcio, selezionato dalle giovanili dell’Udinese. Ma un dolore improvviso e persistente, che dapprima si pensava fosse un problema muscolare, cambiò per sempre la sua vita: osteosarcoma, un tumore osseo aggressivo che spesso colpisce in età pediatrica. Oggi compie imprese in bicicletta e gioca con il Vicenza Calcio Amputati ASD.

di Ilaria Leccardi

Era la fine del 1988, e in pochi giorni la giovane promessa si trova dall’allenarsi diverse ore al giorno e sognare un futuro da stella sui campi da calcio, alla sala operatoria. “Un medico capì la gravità della situazione e ci inviò all’ospedale Rizzoli di Bologna, dove fui sottoposto alla chemioterapia e poi mi venne proposta un’operazione di “giroplastica” che oserei definire fantachirugia, dal professor Mario Campanacci, un luminare in questo ambito”. L’intervento consiste nell’amputazione di una parte del femore, alla cui estremità vengono attaccati tibia e piede ruotati di 180 gradi, in modo che la caviglia funzioni come un ginocchio e il piede come il moncone della gamba, garantendo un importante guadagno in termini di funzionalità dell’arto. Il friulano è stato uno dei primi in Italia a sperimentare questo percorso, “il 17esimo per la precisione, un intervento della durata di otto/nove ore”. L’operazione gli salvò la vita, gli garantì una mobilità importante, ma non fu semplice da elaborare emotivamente.

Il mio percorso di accettazione completo è durato anni. “Sono partito per Bologna a dicembre, fino a un mese prima ero il leader della squadra in cui tutti mi conoscevano, un piccolo idolo del quartiere dove vivevo, e sono ritornato dopo due mesi senza capelli, senza una gamba, ingessato in tutto il corpo. Ero molto diverso.

Pur ricominciando quasi subito a fare sport, per anni Zaral Virgolin indossa costantemente i pantaloni lunghi, evita il mare, si cambia le scarpe da ginnastica chiuso in bagno e non negli spogliatoi con i compagni, non vuole mostrare la sua nuova fisicità: un corpo non conforme che lo fa sentire diverso dai coetanei.

“Il primo sport da cui ho ricominciato è stato la pallavolo, mi allenavo in squadra come tutti, con la protesi nascosta sotto ai pantaloni lunghi, con l’accanimento di voler dimostrare di essere il migliore, forte anche del fatto che ero agile e aveva una buona elevazione. Ma di fatto vivevo un sentimento di vergogna verso il mio corpo. Tant’è che sono tornato al mare per la prima volta quando avevo 21 anni e ne ho aspettati altri dieci per immergermi in acqua. Ci ho messo vent’anni a mostrarmi com’ero veramente”.

Fino a 18 anni pratica la pallavolo agonistica e nel frattempo, mentre frequenta le scuole medie, si qualifica per le finali dei Giochi della Gioventù nella specialità del lancio della palla, chiudendo al quinto posto a livello nazionale. “Nessuno sapeva che avevo la protesi, era solo strano che gareggiassi con i pantaloni lunghi”. Negli anni pratica lo sci di fondo e discesa, il kayak, la pallacanestro, il biliardo, e poi – soprattutto – il ciclismo. 

“Il primario che mi aveva operato al Rizzoli andava in bici e mi invogliò a provare. E fu così, pedalando, che tornai a sentirmi veramente me stesso. Quando vado in bici sento di dover ringraziare la vita, è uno strumento portentoso che negli anni mi ha accompagnato e mi ha portato anche a compiere alcune imprese incredibili, come quando con il mio gruppo di paraciclismo ho scalato lo Zoncolan e poi il Mortirolo”. Virgolin partecipa alla Coppa Europa, e a diverse gare su strada in Italia e all’estero, entrando a far parte di quella che definisce una “comunità di storie incredibili”.

Ma sarebbe sbagliato pensare che il suo percorso sia stato lineare e senza ostacoli. Iscrittosi al corso di laurea di Medicina, con il sogno di diventare medico dello sport, qualche anno dopo abbandona, anche a seguito di una frattura femorale causata da una caduta in bicicletta e di un successivo intervento di rimozione delle viti che gli costa quasi la vita per un errore in sala operatoria. “Anche a causa di questi problemi, persi un anno di studio, poi un altro. Ebbi una reazione molto vigorosa, non accettavo l’idea di non farcela. Arrivai al punto di voler controllare tutti gli aspetti della mia vita, mi allenavo moltissimo, persi tantissimo peso, ma questo non risolveva la mia esistenza, mi stavo facendo del male. Decisi così di dire basta, firmai la rinuncia a Medicina e iniziai a mettermi in cerca di un altro lavoro. È stato un percorso lungo, ha cambiato otto lavori in quindici anni, ma alla fine ho trovato la mia stabilità”.

E poi, negli anni, Virgolin ha iniziato anche ad avere un ruolo in ambito medico: “Ho partecipato a ricerche del Rizzoli e accompagnato molti ragazzi e ragazze che hanno avuto il mio stesso tumore. Per i medici è sempre stato importante dare fiducia ai piccoli in procinto di affrontare una terapia o un intervento, mostrando loro come ci fosse qualcuno che ce l’aveva fatta e che conduce una vita assolutamente normale”.

In tutto il percorso di vita di Zaral Virgolin lo sport è stato una chiave fondamentale. E ancor più da quando, di recente, è tornato a calcare i campi da calcio, 35 anni dopo gli ultimi allenamenti da bambino. “Due anni fa fui chiamato a fare la comparsa, come amputato, nella fiction Il figlio del secolo, su Mussolini, tratta dai libri di Antonio Scurati. Lì incontrai Salvo La Manna, libero della Nazionale italiana calcio amputati. Vide che mi muovevo bene sulle stampelle, mi chiese se volessi provare a giocare nel Vicenza…”. E l’avventura è iniziata.

Il numero che Virgolin sceglie per giocare nel Vicenza Calcio Amputati è l’89, quello dell’anno in cui si interruppe il suo sogno di bambino, ma anche quello in cui iniziò la sua nuova vita. Il calcio amputati è uno sport duro e che non risparmia contrasti e scontri duri in campo. Giocato 7 contro 7 in un campo da 40 metri per 60, in Italia si sta diffondendo, anche se ancora non come in altri paesi. Lo sportivo friulano ha iniziato così un percorso fatto di allenamenti nuovi, diversi rispetto a quelli per la bicicletta, che comunque non ha abbandonato, una tecnica che sta facendo sua, un ritorno sul tappeto verde che gli sta permettendo nuovi incontri e sogni per il futuro.

“Credo molto nella condivisione. E anche nel racconto di ciò che sono, dopo anni di difficoltà ad accettarmi. Mostrare la mia protesi oggi è importante: ricordo un giorno a Monfalcone, quando mi fermai per una pausa di un percorso in bicicletta. Mi si avvicinarono due sorelline che iniziarono a farmi domande, a toccare la protesi, i genitori inizialmente si scusarono, io li tranquillizzai, poi ci scambiammo i numeri e ancora oggi siamo in contatto. In quel momento avevo mostrato loro qualcosa che non avevano mai visto, lo avevo reso reale, nel loro cervello è come se avessi piantato un piccolo seme. E l’ho fatto anche pensando a me bambino: quel ragazzino che portava sempre i pantaloni lunghi e non correva e per questo a volte veniva anche preso in giro. Situazioni a cui facevo fatica a trovare la risposta giusta”.  

Inevitabile allora chiedersi qual è la dimensione pubblica e il rapporto con i social del campione e dell’uomo Zaral Virgolin, che oggi è papà di una bambina di cinque anni. “Uso i social media anche per raccontarmi, senza esagerare. Mi hanno consentito di veicolare e manifestare in maniera chiara chi sono. Inizialmente è stato difficile, ma vedere una foto della mia gamba con la protesi pubblicata da amici su Facebook è stato un passaggio importante, che ha fatto bene innanzitutto a me, ma penso anche a molte altre persone”.

Una sensibilità e un obiettivo, quello della condivisione, vissuto proprio anche grazie al mondo sportivo.

Lo sport mi ha regalato la normalità di bambino quando ne avevo bisogno e ha contribuito a formare la mia identità, facendomi sentire straordinario quando serviva e ora uomo maturo e consapevole che, proprio grazie ad esso, allena la determinazione e l’onestà del vivere.

Luca Panichi, lo scalatore in carrozzina

Scalare le vette guardando verso l’alto. Anche se – e forse proprio perché – la vita ti ha posto di fronte a una sfida enorme. Luca Panichi è un ciclista la cui storia in sella alla bicicletta inizia all’età di otto anni, sulle orme dell’idolo Francesco Moser, e si interrompe bruscamente e drammaticamente il 18 luglio 1994, quando viene investito da un’auto durante il cronoprologo del Giro dell’Umbria Internazionale dilettanti.

La paura, lo sgomento, aggrapparsi alla vita. Da allora Luca non può più camminare. Ma lui sa cosa voglia dire affrontare una sfida, si porta dentro un bagaglio di energia fisica e mentale che nasce dall’esperienza sportiva di anni, la voglia di migliorarsi ogni giorno. Il limite per Luca non è un ostacolo, ma il punto di ripartenza. Ed è così che decide di riprendersi le sue salite, non più in sella alla bici, ma a bordo della sua carrozzina. A testimoniare che l’unico limite vero sta dentro di noi.

Dal 2009 le sue imprese vanno a braccetto con il Giro d’Italia professionisti. In ogni edizione Luca ha affrontato una salita, conquistando una serie di cime storiche, dal Block House al Passo del Tonale, dal Ghiacciaio del Grossglockner al Passo dello Stelvio, dalle Tre cime di Lavaredo allo Zoncolan, dal Colle delle finestre alla Cima Oropa. Tra le sue partecipazioni anche a quella alla Granfondo Terre dei Varano.

Le sue non sono solo imprese sportive, ma sono diventate la metafora di una forza che Luca incarna in ogni metro macinato. Una forza che porta su di sé i nomi di Fabio Casartelli, di Michele Scarponi, di Marco Pantani, ma anche gli incontri con tanti giovani appassionati di sport e studenti a cui Luca si rivolge raccontando la propria storia e portando un messaggio positivo.

Per il progetto Odiare non è uno sport lo abbiamo intervistato, per ascoltare la sua sua storia e la sua forza, le sue riflessioni sullo sport paralimpico e, in quanto referente Csen per lo Sport Integrato, il suo appello a una narrazione sportiva che punti non a scatenare l’aggressività ma a proporre modelli positivi, campioni che sappiano trasmettere un senso di condivisione. Perché – spiega Luca – “a prescindere dai risultati, lo sport ci serve per amare la vita, noi stessi e gli altri”

L’intervista a Luca Panichi