Commenti sessisti in Rai. Mimma Caligaris: “Quanta strada da fare”

Hanno fatto discutere e indignare tutta Italia le frasi sessiste pronunciate dal giornalista Rai Lorenzo Leonarduzzi, incaricato della telecronaca dei tuffi durante i Mondiali di nuoto, assieme al commentatore tecnico Massimiliano Mazzucchi. Frasi offensive nei confronti delle tuffatrici nella disciplina del sincronizzato, vero e proprio body shaming, commenti scurrili, andati in onda su RaiPlay2, e contro cui è stato presentato un esposto da parte di Usigrai, Ordine dei Giornalisti, CPO dell’FNSI e Associazione GiULiA Giornaliste. Ma il caso che ha fatto scalpore non è purtroppo isolato ed è da contestualizzare in quella che spesso è una narrazione sportiva ancora scorretta e degradante nei confronti delle atlete.

Ne abbiamo parlato con Mimma Caligaris, giornalista sportiva di lungo corso, oggi vicepresidente vicaria Ussi (Unione Stampa Sportiva Italiana), nella giunta esecutiva della FNSI (già presidente della Commissione Pari Opportunità dello stesso sindacato nazionale dei giornalisti), nonché componente del Gender Council della International Federation of Journalists e del Gender and Diversity Expert Group – GENDEG della European Federation of Journalists. Una delle voci più competenti in tema di linguaggio e narrazione sportiva nell’ottica della parità di genere.

di Ilaria Leccardi

“Le olandesi sono grosse. Come la nostra Vittorioso […]. Ma tanto a letto sono tutte uguali”. “Questa (la tuffatrice Harper, NdR) è una suonatrice d’arpa, come si suona l’arpa? La si tocca, la si pizzica. Si La Do. Gli uomini devono suonare sette note, le donne soltanto tre”. Sono alcune delle espressioni pronunciate durante la diretta. Qual è la gravità di quanto successo ai Mondiali di nuoto? Com’è possibile nel 2023 alla TV pubblica sentire parole e commenti di quel genere nei confronti delle sportive?

La gravità è doppia. Da una parte per il fatto in sé, per il linguaggio utilizzato dal giornalista in diretta, dall’altra perché di fronte alla segnalazione – arrivata da alcuni spettatori tramite una Pec circostanziata inviata alla Rai – il telecronista ha risposto sostenendo che si trattasse solo di battute da bar, pensando di essere fuori onda. Prima di tutto, pensare di essere fuori onda è un’aggravante, e poi il commento dimostra una volta di più quanto siamo ancora indietro, perché c’è chi sostiene che le donne siano oggetti su cui raccontare barzellette, su cui parlare non per raccontare i risultati sportivi, ma per irridere e commentare le loro caratteristiche fisiche, ironizzando pesantemente sull’aspetto fisico, la corporatura, il tipo di abbigliamento.

Ci preoccupa l’approccio sessista e sminuente del ruolo delle donne, purtroppo ancora effettivo su diversi canali, emittenti, testate cartacee e online (non solo nel servizio pubblico, dove esiste comunque una policy di genere da seguire). Per fortuna – visto che il caso è stato sollevato grazie a persone che seguivano la diretta – notiamo anche una maggiore consapevolezza da parte del pubblico, capace di guardare con sensibilità ai commenti, al racconto, alle parole e all’approccio narrativo dello sport.

Quanta discriminazione ancora c’è nella rappresentazione sportiva tra uomo e donna? E quali sono gli aspetti più critici di questa narrazione che spesso si sofferma su elementi che nulla hanno a che fare con la prestazione sportiva?  

Siamo a un anno dai Giochi Olimpici di Parigi 2024, i primi in cui ci sarà una effettiva parità di numeri tra uomo-donna, vicina al 50 e 50 come numero di atleti e atlete in gara. Ma c’è ancora una strada lunghissima da fare nel racconto dello sport.

Gli uomini sono citati tre volte più spesso nelle donne nell’ambito sportivo e sociale, che le atlete sono spesso associate a parole e temi come gravidanza, età, matrimonio, aspetto fisico, che per gli uomini la descrizione della corporeità è legata principalmente al concetto di resistenza. Le atlete sono indicate come “ragazze” il doppio delle volte rispetto ai colleghi maschi, spesso delle sportive nei titoli dei giornali si riporta solo il nome, senza il cognome, mentre il gossip e il modo di vestire mettono in secondo piano il risultato sportivo.

Per creare condizioni vere di parità pur nelle differenze, il linguaggio è fondamentale. Facciamo l’esempio del calcio, visto che sono iniziati da poco i Mondiali femminili. Io sono fortemente convinta che sia importante la declinazione al femminile dei ruoli in campo. Ad esempio, chi sta in porta in una squadra femminile dovrebbe essere chiamata “portiera”, che è un vocabolo esistente della lingua italiana. E chi si para dietro alla giustificazione che sia la diretta interessata a voler essere chiamata “portiere”, vuole semplicemente pulirsi la coscienza. Bisognerebbe provare a fare lo sforzo di spiegare che la definizione “portiera” è un’affermazione di identità conquistata con un lungo percorso. Usare il termine maschile significa interiorizzare che il proprio valore è inferiore a quello dell’uomo e che l’unico modo per sentirsi alla pari è utilizzare il termine maschile. A risentirne è l’autostima, con una percezione diffusa di disvalore che condiziona le scelte.

Ma il problema non riguarda solo le parole.

Anche la rappresentazione per immagini è critica. Pensate alle partite di beach volley. Nei tornei maschili le immagini si concentrano principalmente il gesto tecnico, mentre nelle partite femminili, l’inquadratura il più delle volte parte dal fondoschiena delle giocatrici. Una volta mi confrontai con un operatore il quale mi spiegò che era una richiesta esplicita, perché serve a fare più audience, come un titolo sensazionale serve a fare più clic.

Purtroppo, però il giornalismo italiano ricorda anche episodi veri e propri di body shaming, come il caso delle Olimpiadi di Rio 2016, quando Il Resto del Carlino titolò “Il trio delle cicciottelle”, per raccontare la squadra di tiro con l’arco femminile.

In quel caso il direttore fu sollevato dall’incarico. E quando Lucilla Boari, una delle arciere azzurre, vinse il bronzo olimpico a Tokyo 2021, si ricordò ancora di quell’appellativo. Il body shaming purtroppo nella narrazione sportiva è fortemente presente. Altro caso eclatante, fu quello del telecronista di una tv privata campana che definì il calcio femminile come “un covo di lesbiche”. Dopo i nostri esposti, questo collega venne radiato dall’Ordine dei Giornalisti, ma comunque a questa persona si è continuato a dare spazio in altri modi.

Lucilla Boari, bronzo olimpico a Tokyo nel tiro con l’arco

A livello internazionale qual è la situazione?

Lo sport è un contesto delicato, ma si stanno facendo passi avanti anche a livello istituzionale. Come dimostra il progetto Combating Hate Speech in Sport che mira a fornire assistenza alle autorità pubbliche degli Stati membri dell’Unione Europea, per sviluppare strategie globali di contrasto ai discorsi d’odio nel quadro dei diritti umani.

E i social che ruolo hanno in tutto questo?

Tante volte hanno un ruolo devastante. Tornando all’episodio dei Mondiali di nuoto, ho letto commenti pubblicati da utenti sui social che fanno rabbrividire. Molte persone hanno dato ragione ai commentatori o comunque li hanno giustificati. Ho letto commenti sessisti e sminuenti delle persone ma anche della disciplina in sé, i tuffi sincronizzati. Purtroppo, è difficile ottenere una policy sui social anche a livello internazionale. Sui social media, spesso c’è la sensazione di poter dire tutto ciò che si vuole, di sentirsi giornalisti e giornaliste senza averne gli strumenti. Questo provoca un proliferare di fake news, una produzione di contenuti che non hanno basi deontologiche, che non rispettano i principi della corretta informazione. Ed è molto pericoloso.

Quanto è difficile per una sportiva in quest’ottica far sentire la propria voce, e fare valere il diritto di essere degnamente rappresentata?

Se per lo sport maschile è sistematico occupare spazio, le sportive conquistano le prime pagine solo perché hanno ottenuto un grande risultato. C’è una gerarchizzazione delle notizie che porta lo sport praticato dalle donne relegato alle varie, ai trafiletti, alle ultime pagine dei giornali. Lo scatto culturale deve venire dagli operatori e dalle operatrici dell’informazione, bisogna aumentare lo spazio dedicato allo sport femminile e far sì che questo spazio sia riempito di parole e di immagini giuste.

E nel caso in cui si verifichino episodi gravi di narrazione scorretta è fondamentale il rafforzamento delle reti di monitoraggio e sostegno. In Italia ormai, grazie alla stretta collaborazione tra CPO dell’FNSI, CPO dell’Ordine dei Giornalisti, Usigrai e Associazione GiULiA Giornaliste, ci sono frequenti segnalazioni, è difficile che casi di discriminazione o narrazioni tossiche passino inosservati. Perché nessuna persona deve sentirsi sola di fronte a parole d’odio.

Lo sport deve unire le persone, deve costruire fiducia, spirito di comunità, deve abbattere le barriere. Il racconto scorretto finisce per esacerbare tensioni e rivalità e favorire discriminazioni dei confronti di determinate categorie di persone, generalmente le più fragili.

E le sportive possono avere un ruolo diretto nell’affermare il proprio ruolo, anche a livello sociale? 

Su questo mi piace sempre citare il caso di Lella Lombardi, unica donna a riuscire a conquistare punti in Formula 1, ma anche capace di denunciare in conferenza stampa l’avversione dei colleghi maschi alla sua presenza nel circuito. Una posizione che Lombardi pagò, visto che poi la sua casa automobilistica assegnò la monoposto a un uomo. Eppure, lei non ha mai smesso di battersi, aiutando anche altre giovani e seguire la sua strada nell’ambito dei motori. Oggi di lei si legge qualcosa in più, anche se spesso viene descritta sottolineando il suo taglio di capelli “maschile”. Io prendo sempre ad esempio la sua storia, le sue battaglie, per dire che bisogna continuare a combattere e anche le stesse sportive devono provare a farlo. Nella storia dello sport penso che esista un prima e un dopo Lella Lombardi.

Le atlete vanno raccontate per quello che fanno in campo, in pista, per come hanno costruito la propria storia sportiva. Il mio appello è: scriviamo più storie di sport e scriviamole con le parole giuste.

Francesca D’Alonzo: dalla danza al sogno dei motori

Stringere forte le mani su un manubrio. Percorrere i primi metri nei campi, senza confini. Provare paura, ma al tempo stesso rendersi conto che si sta scrivendo il proprio futuro. Fino a pensare: “Io da qui non scendo più”. Nell’estate 2020, in pochi attimi vissuti tra l’adrenalina e l’immaginazione, Francesca D’Alonzo si innamorò della moto e decise che sarebbe stata la sua compagna di avventure in giro per il mondo. Lei, che era una ballerina e una moto non l’aveva mai guidata. Lei che oggi, proprio attraverso la moto e ai suoi seguitissimi canali social (con il nome di The Velvet Snake), porta avanti messaggi di autodeterminazione ed empowerment per le donne, sfidando stereotipi e falsi miti.

di Ilaria Leccardi

Canali social seguitissimi, in particolare Instagram e YouTube, una moto da 200 kg con cui hai attraversato il mondo, ma un passato – soprattutto sportivo – che racconta altro. Francesca, chi eri prima di diventare The Velvet Snake?

Sono stata per tanti anni una ballerina. Ho iniziato a cinque anni, la danza è stata una passione travolgente, con cui sono cresciuta, che mi ha insegnato la disciplina, il rispetto delle regole, l’armonia, l’educazione alla musica, il movimento nello spazio. Con me, grazie alla danza – prima classica, poi moderna e contemporanea – è cresciuto il mio corpo, sul mio luogo di elezione che era il palcoscenico. Per anni ho tenuto esibizioni, ho calcato teatri, ho vinto un concorso nazionale di danza dedicato alle studentesse di tutte le scuole superiori di Italia.

E poi cosa è successo?

A 19 anni, dovevo capire cosa fare concretamente del mio futuro. Io avrei voluto portare avanti la carriera, mentre i miei genitori volevano che mi laureassi. Tentai allora di entrare all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, una possibilità che mi avrebbe permesso di portare avanti danza e studio. Partecipai alle audizioni ma per soli due posti non fui ammessa. Mi iscrissi allora a Giurisprudenza per studiare da avvocata, ma non furono anni semplici. Avevo vissuto un grande smacco, avevo visto il mio sogno – anche professionale – dissolversi, ebbi un periodo di forte depressione. Per completare gli ultimi due anni della laurea quinquennale da Udine mi trasferii a Bologna e lì la mia vita cambiò, con nuove conoscenze, una nuova apertura. Nel frattempo, scalpitavo, non riuscivo a stare ferma. Presi uno zaino e viaggiai tre mesi nel Sudest asiatico. Con un’amica ideai poi un progetto contro i pregiudizi nei confronti degli stranieri, viaggiando in autostop per tutta l’Europa, fino alla Svezia. Quindici giorni bellissimi, in cui la parte più difficile fu quella iniziale affrontata in Italia, perché sentivo forti i pregiudizi della gente nei confronti di due donne che viaggiavano sole. 

Fino all’incontro con la moto. Com’è avvenuto? E cosa è scattato dentro di te?

Finito il periodo peggiore del Covid, il mio compagno Amedeo Lovisoni, che è uno storico ed era un viaggiatore in moto ancora prima di conoscermi, mi fece provare una vecchia moto. Forse si era stufato di portarmi dietro in sella… Sono salita, ho stretto il manubrio fortissimo, perché avevo paura. Iniziai ad andare, in prima, nei campi, e lì ho capito che non sarei più scesa. È stato il punto di svolta della mia vita. Il motore sotto di me e l’asfalto che correva sotto ai miei piedi… Furono un’emozione fortissima, in cui ho visto più di quello che c’era effettivamente in quel momento: una vecchia moto che andava a malapena avanti e soprattutto una donna – la sottoscritta – che non la sapeva minimamente guidare… Dopo qualche mese io e Amedeo siamo ripartiti, ancora con la sua moto, per la Turchia, fino ai confini con la Siria e l’Armenia. E alla fine di quell’estate mi sono detta: io qui voglio tornarci, ma lo voglio fare con una moto mia.

Francesca d’Alonzo in Iran

In pochissimo tempo hai costruito un percorso che si è trasformato in un sogno professionale. Quali sono state le tappe?

All’epoca non avevo neanche ancora la patente, stavo ancora prendendo lezioni di guida! Ma ero molto decisa. Mi sono documentata, ho letto molto e ho iniziato a chiedermi perché le donne fossero così poco rappresentate in questo settore. Benché ci fossero tante amanti delle moto, sulle riviste, nei giornali e nei siti specializzati, erano molto poco visibili. Allora ho scritto un progetto, che teneva insieme la moto guidata da una donna e i viaggi, e ho cercato qualcuno che potesse aiutarmi a realizzarlo, trovandolo in Yamaha Motor Italia. Ricordo quando andai a ritirare la moto alla fine del maggio 2021… Peccato che appena una settimana dopo sia caduta e, avendo imparato a guidare ma non ancora a cadere, rimasi incastrata con un piede e fui costretta a rimanere ferma per un po’. I primi tempi è stata dura. Il punto di svolta è stato quando ho iniziato a ridere dei miei errori, imparando dagli stessi. È una lezione che sicuramente ho mutuato dallo sport, dalla mia carriera nella danza. E allora ho cominciato a raccontare il mio percorso di crescita, rivendicando anche il diritto a non essere perfetta. L’ho fatto sui social, dove all’inizio ero un po’ naif, ma poi ho visto quanto questo modo di raccontare piaceva ed era umano.

I tuoi primi viaggi dove ti hanno portata?

Nell’estate 2021 ho compiuto un percorso di 11mila chilometri dall’Italia alla Georgia andata e ritorno. L’anno seguente ho affrontato il mio primo rally, la Gibraltar Race 2022, due settimane tra Riga e Praga, un percorso ad anello di dodici tappe. Poche settimane dopo sono partita per un lunghissimo viaggio con Amedeo dal Friuli fino in India, per un totale di 17mila chilometri. Quest’anno invece sono stata per la prima volta in moto in Africa, ancora grazie alla Gibraltar Race, per un difficile rally in Marocco. Sei giorni durissimi in cui ho vissuto anche un episodio di disidratazione, perché alla mia terza giornata di gara, in mattinata avevo già finito le scorte di due litri e mezzo d’acqua che pensavo mi sarebbero durate per tutto il giorno. Sono ambienti per cui ci vuole una grande preparazione, mentale e fisica.

E dalla danza alla moto la preparazione fisica non è proprio la stessa…

Sì, anche perché la mia moto pesa quattro volte me. Da quest’anno ho iniziato degli allenamenti specifici, anche di pesistica, per costruirmi una buona massa muscolare. La mia base è quella di una danzatrice, quindi un muscolo reattivo ma esile. Ma sto “rimediando”, con grande dedizione, anche per continuare ad affrontare il mondo delle gare in cui mi ha introdotta Yamaha.

Uno degli ultimi video del canale YouTube su cui Francesca D’Alonzo racconta i suoi viaggi

Alternare gare in contesti estremi a viaggi molto lunghi in località remote. Qual è il messaggio che porti con te?

Sicuramente un messaggio di empowerment femminile, contro gli stereotipi di genere e i pregiudizi, di cui il mondo delle moto e dei motori è ancora molto intriso, dando voce alle donne impegnate nel motorsport. E poi trovo molto importante l’incontro con quei luoghi e quelle popolazioni con cui entro in contatto. I viaggi che compio con Amedeo ci portano ad attraversare luoghi poco conosciuti dagli occhi occidentali, aree in cui la religione e la cultura si prestano a facili generalizzazioni. Quello che invece amo, e penso sia importante da fare, è raccontare la complessità, anche per quel che riguarda la condizione della donna.

A meno di un anno di mezzo dall’apertura, il tuo canale YouTube conta oltre 12.000 iscritti e 700mila visualizzazioni. A questi si aggiungono 178mila follower su Instagram e diverse migliaia su Facebook. Cosa sono i social per te? Ti hanno mai creato dei problemi? 

Quando ho scritto per la prima volta a Yamaha avevo un migliaio di follower su Instagram, non di più. Sono stati i miei viaggi a portarmi seguito e a mettermi in contatto con tante persone. Le avventure in Asia, raccontate grazie ai video girati con le nostre fotocamere GoPro, ma soprattutto i rally, che mi hanno resa un personaggio pubblico, capace di affrontare gare difficili, nonostante la mia giovane esperienza. I social sono senza dubbio uno strumento bellissimo, con tante potenzialità. Ma purtroppo – soprattutto in quanto donna – io sono spesso vittima di attacchi gratuiti ad opera di veri e propri haters. L’8 marzo di quest’anno ho deciso di pubblicare su Instagram una carrellata di commenti e attacchi che mi sono stati rivolti, alcuni dei quali molto pesanti. Commenti che mai sarebbero stati indirizzati a un uomo, anche perché il contesto in cui mi muovo è ancora pesantemente intriso di sessismo.

Viva le belle storie / che ci infondono coraggio / ad essere delle combattenti /ogni giorno / e ad essere indulgenti con noi stesse / quando siamo troppo stanche per farlo. / Le moto non conoscono genere / riconoscono solo chi le ama / e chi se ne prende cura. / E allora perché quando una ragazza condivide la propria passione riceve questi commenti?

Dal Canale instagram “The velvet snake” – 8 marzo 2023

Se dovessi guardare indietro, al tuo passato da danzatrice, e al tuo presente, ora che guidi una moto in fuoristrada, quali sono le assonanze, le emozioni che risuonano?

Penso che forse i sogni che non si realizzano continuano a bruciarci dentro per anni, sono destinati a cambiare forma e possano trasformarsi in altro per rimanere vivi. È come se in qualche modo la danza non avessi mai smesso di viverla, anche sulla moto, nello specifico nel fuoristrada, dove i terreni accidentati e i continui ostacoli richiedono una guida sempre molto attiva, una interpretazione. E poi una parte importante la giocano anche i paesi che ho attraversato in moto e che attraverserò ancora, contesti in cui la condizione della donna è molto marginale. Quando passo con la mia moto desto curiosità e stupore, vedo uno sguardo particolare che molto mi ricorda quello che si soffermava sui miei passi in palcoscenico, quando raccontavo storie in movimento. Ricordo ancora quando nel 2021 raggiunsi il teatro di Aspendos, in Turchia, uno dei teatri meglio conservati dell’antichità, magnifico e imponente. Una ciabatta sì e una no, improvvisai un passo di danza, per poi tornare a indossare il casco e riprendere strade nuove e inesplorate. Ogni volta incrocio sguardi nuovi e stupiti, come quelli delle bambine, a cui spero con il mio passaggio di raccontare una favola nuova.

Francesca D’Alonzo improvvisa un passo di danza al teatro di Aspendos, in Turchia

Quindi lo sguardo va soprattutto al futuro?

L’emozione più grande è quando ragazzine e bambine mi incontrano e mi chiedono se possono salire sulla moto. Io le vedo come mi guardano con gli occhi sgranati e mi rendo conto dell’importanza di ciò che sto facendo, sto raccontando una storia diversa, sta offrendo un modello positivo, sto dicendo che sì, è possibile. Anche per loro.  

Per seguire Francesca D’Alonzo sui social:

IG: The Velvet Snake / FB: The Velvet Snake / YouTube: Francesca D’Alonzo

Veronica Lisi

Video-intervista alla campionessa di canottaggio Veronica Lisi, 33 anni, padovana. Nel 2003 – quando ancora gareggiava nella categoria Ragazzi – ai Mondiali Junior di Atene ha colto il bronzo nel quattro di coppia. Poi una lunga pausa fino al 2018, a parte una fugace ma vincente nuova comparsata nel 2006, quando vinse il titolo italiano in Tipo Regolamentare sul doppio canoe.

Voglia di rimettersi e impegno professionale le hanno consentito di vincere di tre titoli italiani – due di Società e uno di Gran Fondo – sempre in singolo e di tornare in Nazionale dalla porta principale. Tra i temi trattati nell’intervista, lo sport come possibilità di riscatto, rottura degli stereotipi e strumento di integrazione.