ScorciDiSara: dalla sofferenza alla condivisione via social

Una vita giovane, tanti sport provati, almeno un’esperienza molto negativa di odio vissuto e subito in palestra, che ha portato all’abbandono dell’attività sportiva, determinando disturbi alimentari. Oggi l’utilizzo dei social per raccontare, dialogare su temi delicati, offrire uno spazio di connessione e condivisione. Lei è Sara Bartolini, ha 22 anni e per Odiare non è uno sport ci ha raccontato la sua esperienza con il profilo Instagram ScorciDiSara.

di Gaia Del Bosco (COMI ong)

Sara, raccontaci qualcosa di te.

Ho 22 anni e l’obiettivo della mia vita è trovare l’armonia tra i diversi ingredienti della mia persona. Studio, esco, lavoricchio, mi alleno, ballo, animo…il tutto quanto basta.

Come nasce ScorciDiSara e perché?

È un profilo che ho aperto un paio di anni fa, parallelo al mio personale. Inizialmente l’ho immaginato per condividere scorci della mia vita, in particolare i miei allenamenti e le mie preparazioni in cucina. Volevo farlo in uno spazio dedicato, per non costringere chi mi segue sul mio profilo personale a “sorbirsi” questo tipo di contenuti. Post dopo post, e storia dopo storia, i contenuti hanno iniziato a variare dal solito “cosa mangio” o “come mi alleno” a “ho letto questo libro e volevo parlarvene”, “oggi con la mia nutrizionista abbiamo parlato di questo argomento e voglio condividerlo”, “oggi è la giornata nazionale per la sensibilizzazione ai DCA, parliamone” e così via. Sono temi importanti, su cui penso che i social possano aiutarci a sensibilizzare. Ho fatto un tentativo anche su TikTok, ma poi ho abbandonato, perché è un social più complesso, che necessita di tanta costanza nelle pubblicazioni.

Nella tua storia di giovane ragazza ti porti il peso di un’esperienza sportiva che ha segnato negativamente la tua adolescenza. Ce ne vuoi parlare?

Nei miei 22 anni ho cambiato almeno sei sport, anche perché per andare avanti bisognava eccellere, o almeno questo è quello che volevano farmi credere gli allenatori. Il caso più eclatante è stato nella pallavolo: ho iniziato a giocare in terza media, in un periodo delicato della vita di tutti, l’inizio dell’adolescenza, dove la terapia mi ha poi svelato lo stabilirsi delle radici del mio disturbo alimentare. Per i primi due anni di pallavolo, l’allenamento è stato un ambiente confortevole: compagne divertenti, allenatrice appassionata e gentile, poco agonismo e tanta spensieratezza. Poi all’improvviso tutto è cambiato… All’inizio del terzo anno (seconda superiore per me) ci venne comunicato che alcune di noi, teoricamente le più talentuose, avrebbero formato una squadra di elite per partecipare a un campionato di livello più alto. Dopo qualche mese, anche io venni chiamata a prendere parte alla nuova squadra, il che significava più allenamenti, più partite, ma soprattutto compagne e allenatori diversi. L’invito a questo “scatto di carriera” mi ha fatto sentire apprezzata e, nonostante qualche dubbio da parte dei miei genitori dato il maggiore impegno richiesto (al tempo erano loro che mi accompagnavano ad allenamenti e partite), ho accettato: la mia più grande sliding door.

Cosa è successo?

Qualcosa è andato storto… Non ero un talento nato e questo costituiva un intralcio per la missione del mio allenatore: trovare in ognuna di noi la nuova Paola Egonu. La sua ricerca disperata lo portava a usare un’arma letale, proprio quella dell’hate speech e delle punizioni fisiche in seguito agli errori. Chi ha fatto pallavolo conosce il trauma dei tuffi: lanci del corpo verso terra che sono spesso utilizzati come punizione dopo un errore in allenamento.

Quell’uomo, le sue parole e il suo trattamento mi hanno portata a odiare lui, ma soprattutto a odiare me stessa. Ho creduto che le mia capacità nella pallavolo fossero la misura del mio valore nella vita. Questo mi ha portata a una profonda auto-svalutazione e hanno creato il terreno fertile che le radici del mio disturbo alimentare andavano cercando. Ho abbandonato quella situazione appena ho realizzato quanti danni stava causando nella mia vita, le cui cicatrici oggi, quasi dieci anni dopo, sono ancora lì.

Il post pubblicato da Sara il 15 marzo in occasione della Giornata nazionale del fiocchetto lilla, dedicata ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione

L’odio ha diverse forme e, contrariamente a come spesso si pensa, può venire proprio dagli allenatori e dalle figure di riferimento. Credi che sia un problema di “persone” o di “sistema”? Cioè, è una sfortuna incontrare allenatori e allenatrici poco sensibili, o fa parte del “sistema sport”?

È un problema di persone sbagliate nel sistema sbagliato. Ritengo che chi si comporta in questo modo lo faccia per propria natura e non perché condizionato dal sistema, ma è il sistema a legittimare queste azioni. Nel nostro secolo non è una novità che rivolgersi con parole d’odio o imporre una punizione fisica agli atleti sia sbagliato, ma nel mondo dello sport è ancora giustificato dall’idea che possa essere formativo. È proprio da qui che nasce la rilevanza della vostra iniziativa, con la speranza che questi sforzi portino a una disconferma di credenze ormai superate, e alla standardizzazione di nuovi metodi di relazionarsi, più umani.

Sui social ci sono moltissimi profili che si propongono come healthy. Quanti di questi lo sono realmente secondo te?

Il mondo dei profili healthy, com’è facile immaginare, è un’arma a doppio taglio. Il cuore del problema risiede nel fatto che in ambito alimentare tutto è giusto e tutto è sbagliato, sta alla singola persona capire come prendere quell’informazione e cosa farne. Il più classico degli esempi: i video “cosa mangio in un giorno”. Questi dividono l’audience tra chi è profondamente contrario e chi li ama, ma, come per tutte le cose, la verità sta nel mezzo. Il video in cui si mostra ciò che si mangia non ha nulla di intrinsecamente sbagliato: non vuole imporre a nessuno cosa mangiare, non vuole ispirare confronti riguardo le porzioni, non vuole recapitare il messaggio del tipo “se mangi così sarai come me” (tipiche accuse che vengono mosse contro questo format). Ciò che si mostra nel video è un dato oggettivo, che ognuno, sulla base delle proprie credenze personali, elabora in un determinato modo. Per me, Sara Bartolini, questi video sono una fonte di ispirazione per piatti nuovi da preparare, o sfamano la curiosità di scoprire cosa mangiano le persone dall’altra parte nel mondo. Tuttavia per un’altra persona con una consapevolezza e un vissuto diverso dal mio possono essere motivo di sofferenza. Ad esempio, per un’adolescente convinta di mangiare troppo e che pensa che tutti mangino meno di lei, vedere sui social un contenuto del genere potrebbe alimentare questa credenza.

I profili healty non sono dannosi di per sé, ma veicolano messaggi che se recapitati a un o una utente vulnerabile possono creare danni. Forse la soluzione potrebbe essere l’uso di un disclaimer in cui si spiega la neutralità del contenuto, con l’obiettivo di smorzare il potenziale tossico.

Cosa potresti consigliare a chi dovesse trovarsi in una situazione come quella che hai vissuto tu con il tuo allenatore?

Consiglio di sfogarsi innanzitutto con i compagni e le compagne di allenamento, ci sarà chi potrà capirvi meglio perché probabilmente subisce ciò che subite voi. L’importante è capire che quelle parole non hanno fondamento, non dovete dare loro il potere di danneggiarvi. E per concludere: guardatevi attorno e nel caso cambiate squadra o palestra… sicuramente ci sarà uno spazio dove potrete apprezzare voi stessi e le vostre capacità, senza dover rendere conto a qualcuno che tenta di abbattervi.

Unità Didattiche: nelle scuole per contrastare l’odio online

Offrire strumenti di approfondimento per riconoscere e contrastare l’hate speech online. Ma anche proporre nuove modalità di condivisione, con un approccio non frontale, ricco di esempi che permetta alle nuove generazioni di “allenarsi” alla gentilezza nella comunicazione online. Odiare non è uno sport ha tra i suoi principali obiettivi quello di entrare in contatto diretto con i ragazzi, anche nei contesti scolastici. Ecco perché nell’ambito del progetto nasce l’Unità didattica di apprendimento (UDA), un percorso didattico per le scuole secondarie dedicato al riconoscimento e al contrasto dell’hate speech, accessibile a formatori e docenti gratuitamente dalla piattaforma di ImpactSkills. Ma come nasce l’UDA? Quali sono i principali obiettivi e come è stata fino ad ora applicata nei contesti scolastici? Ne abbiamo parlato con Maria Lipone, formatrice che da anni lavora con CVCS e che ha coordinato i lavori di realizzazione e stesura dell’UDA, conducendo già numerosi incontri nelle scuole.

di Ilaria Leccardi

Maria Lipone

Dottoressa Lipone, come prende vita questo percorso didattico e chi vi ha contribuito?

È stato un lavoro corale che ha visto coinvolte le ong e diversi dei soggetti partner del progetto, nelle sette regioni italiane dove si svolge Odiare non è uno sport. Un lavoro stimolante e complesso, concentrato tra i mesi di marzo e giugno, in cui ogni realtà ha portato proprie specificità e competenze. Nella versione definitiva dell’UDA abbiamo cercato di prevedere un’alternanza di momenti formativi, sperimentazione pratica, lavoro individuale o di gruppo, stimoli visivi e video per i ragazzi.

Come si compone il percorso?

Comprende tre incontri da due ore ciascuno, con una parte pratica e una parte teorica, declinati in una versione per le scuole secondarie di primo grado e una per le scuole secondarie di secondo grado. Il primo incontro è dedicato alla conoscenza reciproca e all’introduzione del fenomeno hate speech, con l’approfondimento di concetti quali la piramide dell’odio, gli stereotipi, i pregiudizi e le discriminazioni; il secondo incontro è dedicato al riconoscimento del linguaggio d’odio, anche a partire dall’analisi di casi ripresi dai social e dalle app di chat utilizzate dai giovani; il terzo si concentra sulla sperimentazione di modalità comunicative diverse, per contrastare concretamente l’hate speech.

Gli insegnanti possono condurre le attività in maniera autonoma oppure è necessaria la presenza di un formatore o una formatrice esterna?

Il percorso e i materiali sono pensati per essere replicabili in maniera autonoma dagli insegnanti. Tuttavia, l’esperienza fatta finora ci dice che spesso viene richiesta la nostra presenza come formatori poiché non tutti i docenti sono abituati a condurre attività con una modalità che non sia quella classica frontale e che preveda ad esempio una destrutturazione dell’impostazione classica dell’aula e la partecipazione in forma laboratoriale degli studenti. E poi, anche perché le tematiche sono molto delicate e promuovono la condivisione di esperienze a volte dolorose che non è sempre facile raccogliere, accogliere e contenere. La presenza di una figura di mediazione può essere utile in queste situazioni.

Come sono state le esperienze con i ragazzi finora?

In questi primi mesi di anno scolastico ho condotto incontri in quattro classi del biennio superiore e in quattro terze medie nella regione del CVCS, ossia il Friuli-Venezia Giulia. Mentre le altre ong hanno lavorato nelle rispettive regioni. Sono state tutte esperienze molto positive, che hanno evidenziato la necessità di percorsi di questo tipo. I ragazzi ne hanno davvero bisogno. Da una parte perché il digitale è una sfera che li coinvolge molto, nella quale si sviluppano dinamiche che spesso definiscono le loro relazioni personali, ma su cui non hanno possibilità di condivisione. A volte gli adulti danno per scontato che i giovani abbiano delle competenze rispetto ai social solo perché sono capaci di usare un dispositivo digitale. Ma non è così. E questo porta a compiere errori, anche ingenui, ma potenzialmente pericolosi.

Il digitale può essere da una parte lo specchio dall’altra il moltiplicatore di dinamiche che avvengono nella vita reale.

Spesso i ragazzi hanno un accesso precoce a contenuti che non hanno ancora la capacità di elaborare. E accedendovi hanno a che fare con stili comunicativi o estetici che possono condizionare il loro agire nella vita reale. Certi social comportano un bombardamento di stimoli che finiscono con il far perdere all’utente il contatto con la realtà, con la quale si fa fatica a fare i conti. Penso che l’iper connessione sia più una conseguenza che non una causa del malessere e del disagio vissuto dai giovani. Quello dei social è un luogo dove i ragazzi – che hanno bisogno di relazioni ed esperienze che spesso non riescono a vivere nella vita reale – possono soddisfare molti dei loro bisogni. Ma non per questo è un luogo sicuro e soprattutto all’interno di questo universo i ragazzi non sperimentano passaggi di crescita fondamentali.

In che modo l’Unità Didattica è declinata sul tema sport?

Si fa riferimento all’ambito sportivo nel momento in cui diversi esempi di discorsi d’odio sono ripresi da quel mondo, raccontando come ci sono campioni anche molto noti che hanno subito hate speech e discriminazioni. Inoltre, tra le attività di “rottura del ghiaccio” io chiedo spesso chi nella classe pratica uno sport. Con dispiacere ho notato che non sono tanti, anche perché il covid negli ultimi anni ha portato molti giovani ad abbandonare l’attività sportiva. Più frequente è trovare ragazzi che tifano, per lo più una squadra di calcio, e quindi il discorso sport – e di conseguenza l’attenzione all’hate speech – si riesce ad allargare a questo ambito. Ho notato inoltre che nelle scuole secondarie di secondo grado hanno sempre più appeal l’allenamento in palestra e il body building, anche questo in conseguenza di quanto i giovani vedono sui social. Un’attività però spesso vissuta in maniera solitaria e non condivisa.

Come raccogliete il feedback dei ragazzi? Sono previsti questionari o valutazioni sul percorso?

L’Unità Didattica prevede dei questionari sia in ingresso che in uscita, sia sulle nozioni acquisite durante il percorso, sia sull’esperienza personale vissuta. Viene chiesto ai ragazzi se abbiano mai subito direttamente hate speech o discriminazioni online. Tra le attività del secondo incontro, inoltre, viene chiesto ai partecipanti di scrivere su dei post-it in forma anonima il messaggio più brutto da cui sono stati feriti nelle comunicazioni online, in chat o sui social. E purtroppo spesso emergono parole ed espressioni terribili. Ecco perché lavoriamo anche per “allenare” a una comunicazione gentile, proponendo esercizi per trasformare le comunicazioni, ad esempio da uno stile giudicante a uno stile più assertivo. Il percorso prevede infine un quiz online tramite cui gli studenti possono sperimentarsi in prima persona per contrastare l’odio online.