Luca Cesana, il “dottore” del basket: studio e sport si può

Fare del basket una delle proprie ragioni d’essere, ma al tempo stesso lasciare aperta la porta dello studio, quella verso prospettive future, quella dell’approfondimento e della conoscenza. Una strada non semplice, perché lo sport professionistico è fatto di delicati equilibri, impegni costanti, sponsor, aspettative e contratti. E per molti dei suoi protagonisti basta a sé stesso. Ma per Luca Cesana, 26 anni, play/guardia della Pallacanestro Cantù, dottore magistrale in Psicologia, la vita è un insieme di sfaccettature e lo sportivo, anche quello di più alto livello, non può dimenticarsi di essere prima di tutto una persona. Rientrato in partita domenica 17 dicembre dopo una fastidiosa fascite plantare che lo ha tenuto fuori dal campo per due mesi, lo abbiamo intervistato per dialogare di sport, social, gestione delle emozioni e spirito di squadra.

di Ilaria Leccardi

Com’è nato e come si alimentato nel giovane Luca Cesana l’amore per il basket?

Vengo da una famiglia di sportivi, con tre fratelli più grandi di me che hanno sempre giocato a calcio e basket. Io li ho provati entrambi, ma del basket mi sono innamorato. Ricordo ancora quando con la mia famiglia andai a Bormio nell’estate del 2004 ad assistere al ritiro della Nazionale in partenza per i Giochi di Atene, dove poi conquistò uno storico argento. Giocavo con gli amici, il basket mi faceva sentire bene. Sono cresciuto da ragazzino nel vivaio della Pallacanestro Cantù, con cui ho vinto uno scudetto Under20. Una volta diventato professionista, ho poi militato in diverse squadre: Treviglio, Eurobasket Roma, Junior Casale, Piacenza.

Fino al rientro a Cantù, una delle patrie del basket italiano, oggi in A2. Cosa significa per te?

Poter tornare a giocare dove sono cresciuto, a casa, è un’emozione indescrivibile. So cosa significa vestire questa maglia, ne sono onorato, sono gasatissimo, spero semplicemente di poter dare il meglio. 

Quando hai capito che il basket poteva essere la tua vita?

Attorno ai 16 anni, non ero più un bambino. Venni convocato per la prima volta per un raduno della Nazionale e capii che la cosa si stava facendo seria. Benché poi sia diventato il mio lavoro, a mio avviso il più bello del mondo, ancora oggi gioco a basket principalmente perché mi diverto.

Eppure, non si tratta di un “senso unico”. Perché nel curriculum puoi vantare un onorevole corso di studi con laurea triennale e magistrale in Psicologia. Perché questa scelta e che valore ha?

Quando ho firmato il primo contrato con Treviglio, nel 2016, avevo appena finito le scuole superiori e non avevo molta voglia di studiare. Vedevo entrare i primi soldini, mi bastava lo sport. È stata mia madre a insistere affinché non abbandonassi lo studio, non mi fece fretta, ma mi spinse a cercare qualcosa che mi potesse interessare. E visto che il mio focus è sempre stata la pallacanestro, mi sono detto: scegliamo un percorso che possa aiutarmi nella vita futura, anche se dovesse aiutarmi a migliorare me stesso dell’uno per cento, perché non provarci… E così ho optato per Psicologia. Sono un grande sostenitore della dual career per gli atleti, sono convinto che sia importante tenere aperte diverse prospettive sulla vita: a un certo punto la carriera sportiva finisce e non è sempre scontato riuscire a rimanere nel proprio ambito, che è spesso l’unica dimensione che si è conosciuta in una vita dedicata allo sport. È invece fondamentale accrescere la propria cultura sotto diversi punti di vista, mantenersi attivi mentalmente. 

L’immagine è presa dal profilo Instagram di Luca Cesana

È stato un percorso complicato?

Inizialmente sì, non riuscivo a trovare il metodo giusto per studiare e ricordarmi quanto avevo letto e ascoltato. Poi ho seguito un percorso che mi ha aiutato a sviluppare un mio metodo di apprendimento e memorizzazione ed è diventato tutto più semplice. Ho recuperato in poco tempo l’anno che avevo perso, mi sono laureato e poi ho deciso di proseguire con la specialistica, in cui ho conseguito la laurea all’inizio di quest’anno.

Su cosa hai concentrato la tesi?

Sul basket ovviamente, in particolare su come giocatori, professionisti e non, gestiscono le emozioni. Ho realizzato oltre duecento interviste a giocatori e giocatrici maggiorenni, ed è emerso che le differenze nella capacità di gestire le emozioni non dipendono tanto dal livello a cui si gioca e dall’esperienza che ci si porta dietro, quanto piuttosto dalla possibilità o meno di seguire un percorso di preparazione mentale dedicato.

Questo dimostra che prendersi cura dell’aspetto psicologico per gli atleti e le atlete è molto importante. Spesso non c’è questa attenzione e gli sportivi faticano a gestire emozioni come la rabbia o le frustrazioni date da una sconfitta o da un periodo di stop per infortunio.

Per avvicinarci al tema al centro del nostro progetto, che rapporto hai con i social media? Hai mai avuto esperienze negative online?

I social li utilizzo, ma non quanto vorrei. Penso che possano essere un valido strumento e un aiuto per trasmettere al mondo esterno l’ideale del giocatore di basket. Noi abbiamo il dovere di incarnare e trasmettere valori importanti e i social possono aiutare. Personalmente non ho mai subito attacchi d’odio online, ma i tifosi di basket sono molto accesi e – soprattutto in caso di sconfitta – gli articoli e i post che riguardano le prestazioni della squadra sono spesso bersaglio di commenti di questo tipo.

E nella vita “reale”? Quella dei palazzetti dello sport?

Nei nostri palazzetti le partite sono seguite da un pubblico misto, c’è la tifoseria da “curva”, ma ci sono anche famiglie con bambini. Purtroppo, mi è capitato di sentire che qualcuno non vuole portare i propri figli a vedere le partite perché sugli spalti si respira violenza, un po’ come nel calcio. Cosa che, al contrario, in uno sport come la pallavolo non succede. Ed è un peccato, perché in realtà il basket è uno sport divertente e molto adatto alle famiglie. A Cantù, ad esempio, c’è sempre grande spettacolo, le coreografie sono molto coinvolgenti. Io invito davvero tutti a provare a venire a vedere una partita.

Perché consiglieresti a un ragazzino o una ragazzina di avvicinarsi al basket?

Prima di tutto perché ti insegna a stare in gruppo e a rispettare i valori della squadra, accettando il tuo ruolo e mettendoti a disposizione del gruppo. E poi perché è uno sport super dinamico, dove può cambiare tutto in un attimo, un po’ come nella vita. Può capitare di essere sotto di tanti punti e tornare in vantaggio nel giro di pochi minuti.

Il basket ti insegna a non darti mai per vinto.

Per chiudere, ti chiediamo di raccontarci una curiosità. Lo scorso anno, con la maglia di Piacenza, hai fatto segnare un record storico: sei stato il primo italiano a segnare 46 punti con 13 triple in una sola partita. Com’è nata questa impresa?

Venivo da un periodo di forma ottima e realizzavo tanto. Ma non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dei miei compagni di squadra, che mi hanno messo nelle condizioni di esprimermi al meglio. Giocavamo contro Orzinuovi e dopo tre quarti avevo già segnato 9 canestri da 3. Così, per curiosità, ho chiesto al team manager quale fosse il record in Italia e lui, dopo una breve ricerca, mi disse: 12. Eravamo già sopra di 20 punti, la partita era nelle nostre mani, e così ci siamo concentrati tutti su quel mio obiettivo. Anche i compagni di squadra più individualisti si sono messi a mia disposizione e mi hanno passato la palla ogni volta che potevano, fino a quando, allo scadere, sono riuscito a segnare la tredicesima tripla. Una grande emozione personale, resa possibile da un lavoro di gruppo. 

Amicacci Giulianova: il canestro dell’inclusione

Uscire dall’emarginazione, combattere l’indifferenza, fare della propria difficoltà un punto di forza per sperimentare nuove forme di inclusione e autodeterminazione. La palla da basket in mano, un canestro in alto ad aspettarla. Un sogno che si è realizzato, attraverso un percorso di crescita collettiva, che ha portato un cittadina abruzzese ai vertici sportivi europei.

È la storia dell’Amicacci Giulianova, una Polisportiva che ha al centro della propria attività il basket in carrozzina, una disciplina sportiva basata sull’inclusione, in cui non esiste spazio per alcuna forma di discriminazione, in cui nelle squadre di club le donne possono giocare con gli uomini e in cui il regolamento è pensato ad hoc per accogliere persone con disabilità differenti, tutte in campo con l’obiettivo di fare canestro.

L’Amicacci è la società sportiva a cui appartiene Beatrice Ion, la giocatrice azzurra di origine romena salita alle cronache per il vergognoso attacco razzista subito vicino a casa, in un villaggio di Tor San Lorenzo, ad Ardea, alle porte di Roma, dove vive con la famiglia. Un episodio inqualificabile. Dopo aver lamentato l’occupazione costante del proprio posto auto disabili riservato vicino a casa, il padre di lei è stato aggredito fisicamente ed è finito in ospedale con uno zigomo rotto, e la ragazza è stata insultata in quanto disabile e straniera. Tutto il mondo sportivo e non solo si è stretto attorno a Beatrice e alla sua famiglia. Ma questo episodio, così come le assurde code polemiche alimentate via social a cui la stessa Beatrice ha risposto, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per sensibilizzare la cittadinanza contro ogni forma di discriminazione, favorendo invece percorsi di inclusione. Ed è un lavoro lungo, proprio come raccontano la storia dell’Amicacci e del movimento del basket in carrozzina. Ne abbiamo parlato con Ozcan Gemi, ex giocatore e allenatore della squadra e di Beatrice, di origine turca, che dal 2002 fa parte della realtà abruzzese.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dagli inizi. Come è nata l’Amicacci e perché proprio il basket in carrozzina?

La società è nata nel 1982, grazie all’attenzione di un gruppo di genitori – tra cui Giuseppe Marchionni, Edoardo D’Angelo, Ronald Costantini – che, accompagnando i figli costantemente in centri di medicina e fisioterapia per problematiche legate a diverse patologie, sono venuti a conoscenza del mondo sportivo paralimpico. E hanno capito che la disabilità non poteva essere un freno alla vita ma che, anzi, i ragazzi avevano bisogno di svolgere un’attività fisica come possibilità di riabilitazione e socialità. Il primo torneo venne organizzato nel 1984 e all’epoca la cittadinanza ancora non sembrava pronta a comprendere l’importanza di un percorso di questo tipo. Ma poco per volta, con l’impegno costante di tanti volontari e famiglie, il sogno è diventato realtà. Negli anni ’90 addirittura Giulianova è divenuta il centro di un torneo internazionale estivo, organizzato all’aperto, che ha permesso un avvicinamento di tutta la città a questo straordinario sport.

Presto è arrivato l’alto livello, com’è stata la scalata ai vertici?

Dagli anni ’90 l’Amicacci si è iscritta al campionato nazionale. Dopo alcune stagioni in A2, 2007 siamo stati promossi nella massima serie e da allora non siamo più retrocessi, confermandoci sempre ai vertici del campionato italiano. Il risultato migliore a livello nazionale è stato il secondo posto nel 2018, quando siamo sconfitti in finale playoff.

Avete però un nome anche a livello europeo.

Attualmente siamo la nona squadra nel ranking continentale su circa 300 formazioni. Negli anni passati abbiamo ottenuto importanti risultati come la vittoria della Challenge Cup nel 2011 e della André Vergauwen Cup nel 2012, il secondo più importante torneo europeo. Nel 2018 siamo arrivati ai quarti di finale di Champions.

Siete un’eccellenza, ma vivete ancora degli sforzi dei volontari. Quanto è importante il lavoro con i giovani e l’attività rivolta allo sport di base?

Anche se i nostri campionati prevedono grandi investimenti, sia per le trasferte sia per il mercato dei giocatori che ormai ha un respiro internazionale (nell’ultima stagione su 12 giocatori in rosa, ben 5 erano stranieri), il sostegno dei volontari è fondamentale. Anche perché abbiamo una finalità sociale molto spiccata e lavoriamo per promuovere lo sport di base e tra i giovani. Da alcuni anni ormai portiamo avanti il progetto Amicuccioli, ossia una squadra giovanile di basket in carrozzina, che partecipa al campionato nazionale. E poi abbiamo avviato il progetto Èsportabile: incontriamo le scuole mostrando loro un documentario che racconta la storia di tre ragazzi con disabilità differenti, e alimentando il dibattito e il confronto sul tema. Vogliamo sensibilizzare, far conoscere quali sono gli aspetti della vita di un ragazzo disabile a chi non vive tutti i giorni questa condizione.

Quali sono le caratteristiche principali del basket in carrozzina?

Innanzitutto bisogna ricordare che è uno dei principali sport paralimpici, uno sport molto completo, si gioca su campi regolamentari di basket, con la stessa palla e il canestro posto alla stessa altezza della pallacanestro classica. La carrozzina è personale, realizzata su misura con le ruote inclinate per dare maggior stabilità (insieme alle rotelle anti-ribaltamento poste sul retro) e per difendere il giocatore durante i contrasti che sono frequenti nel corso delle partite.

E qual è il criterio per comporre le squadre? Visto che le disabilità, e di conseguenza la mobilità dei giocatori, possono essere differenti…

Ad ogni giocatore, in base alla propria disabilità, viene assegnato un punteggio. Il totale della squadra non deve superare 14,5 punti. Questo porta le formazioni a essere composte da persone con disabilità più e meno gravi. Più la disabilità è importante più il punteggio del singolo giocatore è basso. L’inclusività del nostro sport si basa proprio su questo. Un meccanismo che consente alle ragazze di giocare con i ragazzi, perché anche in questo caso si può andare a compensare il punteggio portato dalla giocatrice (che ha un abbattimento di 1,5 punti) con quello degli altri componenti della squadra. Stesso discorso per i normodotati senza alcuna disabilità, che nel minibasket e nel campionato di serie B possono essere inseriti in squadra, portando con sé un punteggio più alto.

Cos’ha comportato per la vostra realtà e il movimento italiano del basket in carrozzina l’emergenza COVID19?

L’annullamento di tutti i campionati… Lo scudetto quest’anno non sarà assegnato. E anche la “dispersione” dei giocatori, molti dei quali nel nostro caso non sono originari di Giulianova, ma vengono da altre città italiane o dall’estero, e sono tornati a casa. Quindi ora non ci stiamo allenando come gruppo. Per l’attività di base è stato altrettanto difficile, perché per molti mesi non si è potuti tornare in palestra.

Raccontaci qualcosa di Beatrice Ion. Quanto vi ha colpito il terribile episodio di cui è stata vittima?

Beatrice è una giocatrice dell’Amicacci da due anni. L’ho conosciuta durante un campo di minibasket che organizziamo ogni anno, a cui partecipano bimbi e ragazzi di diverse età per una settimana di sport e divertimento. Lei giocava al Santa Lucia di Roma ed era già molto brava. Due anni fa le ho proposto di venire a giocare nella nostra squadra e ha accettato, si è trasferita in zona e si è iscritta all’università di Teramo.

Quello che è successo a Beatrice è inaccettabile e indescrivibile ed è lo specchio di quanto razzismo e scarsa cultura del rispetto ci sia nella nostra società.

L’abbiamo sentita particolarmente sconvolta, soprattutto per l’aggressione fisica subita dal padre.

Beatrice Ion in una fotografia di Daniele Capone

Al di là dell’episodio singolo, quanto lavoro c’è ancora da fare per stimolare una cultura del rispetto e dell’attenzione alle persone con disabilità?

Molto. Diciamo che la società sta crescendo, ma ancora bisogna lavorare. Ad esempio nella nostra regione, l’Abruzzo, abbiamo grandi differenze tra la zona costiera dove le città sono a misura di tutti, mentre nell’interno non è ancora così. E lo vediamo girando per le strade tutti i giorni, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ma non è un’attenzione che si deve avere solo nei confronti delle persone con disabilità, ma verso tutti, gli anziani, una madre o un padre che spingono un passeggino. Spesso noi andiamo nelle scuole per incontrare i ragazzi, grazie al nostro progetto di sensibilizzazione, e portiamo un bagaglio di esperienza. Spieghiamo l’importanza degli scivoli e dei parcheggi per disabili, soprattutto per garantire l’autonomia alle persone. Certe cose non sono scontate. Faccio un esempio: a me non serve che il posto auto riservato sia davanti all’ingresso del luogo dove devo andare, ma mi serve che abbia dello spazio attorno per aprire completamente la portiera della mia macchina, appoggiare la carrozzina per terra, uscire dall’auto, sedermi sulla carrozzina e muovermi in autonomia. Sono cose a cui una persona che non vive queste difficoltà a volte non arriva neanche a pensare.

Chi vive la disabilità quotidianamente non ha bisogno di essere compatito, ma di essere rispettato e tenuto in considerazione. Una società attenta ai diritti dei più deboli non può che essere una società avanzata e che lavora per il benessere di tutti.