Gaia Tortolina

“Quando ho dato vita al mio nuovo team l’obiettivo è stato fin da subito creare una squadra con dei valori. Scegliere le componenti prima come persone che come atlete, insegnare loro che esiste un ciclismo internazionale e che lo possono praticare, dando l’opportunità a tutte di farlo, anche a chi in Italia questa possibilità non l’aveva”. Gaia Tortolina ha solo 23 anni, ma le idee molto chiare. Ci parla dal Belgio, dove vive dal 2018 e dove la cultura del ciclismo offre maggiori opportunità, anche e soprattutto alle donne, che in Italia pagano ancora un notevole divario di trattamento, considerazione e visibilità rispetto ai colleghi maschi. Proprio in Belgio nell’autunno scorso ha fondato il Women Cycling Project, una squadra di ciclismo tutta al femminile. Alle ragazze dice: “Difendete sempre la vostra dignità, non fatevi trattare come macchine”.

Di Ilaria Leccardi

Gaia, partiamo dall’inizio, dal tuo avvicinamento al ciclismo che è avvenuto quando eri piccolissima…

Sono nata in un ambiente sportivo e ho iniziato a praticare sport da piccolissima. Mio papà ha giocato a calcio a livello professionistico, poi dopo la mia nascita si è dato al triathlon, coinvolgendo anche mia mamma in questo sport di tenacia e fatica. Li ho sempre visti uscire in allenamento, per me era entusiasmante, era normale volerli emulare. Poi un giorno un amico di mio padre che gestiva una squadra di ciclismo di bambini della zona, la Cicli Tortonese, gli chiese se volevo unirmi a loro. Non avevo ancora l’età per gareggiare, mi allenavo con i maschietti. Non avevo neanche la bici da corsa, ma una piccola mountain bike rosa… È iniziato tutto così, quasi per gioco. E anche se c’erano sport in cui eccellevo più che nel ciclismo, le due ruote sono sempre state il mio amore più grande.

Quando ti sei accorta che non era più un gioco e si iniziava a fare sul serio?

È stato attorno ai 14/15 anni, quando sono approdata alla categoria Juniores, in cui ormai si gareggia a buoni livelli, appena prima del professionismo. Sono sempre stato molto costante. E pur non essendo mai stata un talento eccelso, riuscivo sempre a piazzarmi tra le migliori, una gara dopo l’altra. Sono stata presa in un team di Milano di sole donne. Mi allenavo per lo più da sola, seguita a distanza, e poi mi vedevo con le compagne e il team in occasione delle gare e per dei periodi intensivi di allenamento. Facevamo base in un appartamento dove noi ragazze dormivamo e poi di giorno uscivamo in strada tutte insieme. Il ciclismo – soprattutto su strada – è uno sport particolare, dove l’allenamento non può mai riprodurre pienamente ciò che avviene in gara. Da una parte perché durante la preparazione sei sola, mentre in gara si corre in gruppo ed è quest’ultimo che determina la velocità, nel confronto con le altre partecipanti. Dall’altra perché incidono molti fattori, dal tempo atmosferico alla possibilità di forare o di incappare in una caduta.

Quando è avvenuto il passaggio al professionismo?

Nel 2016, avevo 18 anni. Ho avuto una proposta da una squadra di Asti, di cui sono entrata a fare parte, ma purtroppo non è stata un’esperienza positiva. Volevo crescere, trovare le mie opportunità. Una compagna di squadra belga mi disse: “Vieni da noi, là ci sono tante gare, avrai l’occasione di metterti in mostra”. La mia idea era partire, fare un po’ di esperienza, qualche gara, prendere il ritmo per la stagione e rientrare. E invece… sono ancora qua!

Cos’hai trovato di diverso rispetto al contesto italiano?

In Belgio c’è una grande attenzione all’atleta e una passione verso tutti e tutte coloro che fanno parte del mondo del ciclismo. Sono abituati a vedere ciclisti che arrivano da tutte le parti del mondo per correre da soli ed emergere. Io sono arrivata letteralmente da sola e senza niente: in macchina, con la mia bici e il mio materiale per correre. Eppure nel giro di poco tempo sono riuscita ad affermarmi. Nel mio primo anno, ancora con i colori della squadra italiana, ho preso parte a 30 gare, conquistato un podio e diversi piazzamenti importanti. E così ho trovato almeno due squadre che mi volevano con loro. Nell’anno 2018 sono entrata a far parte del team Equano – Wase Zon. Mi sono trovata molto bene, ho partecipato a 120 gare in due anni, tantissime rispetto a quanto ero abituata in Italia.

Le cicliste del Women Cycling Project

Ed è arrivata anche la prima vittoria da professionista. Che emozione è stata e quali gli elementi che ti hanno consentito di conquistarla?

Un’emozione enorme. Dopo tanti podi, nel settembre del 2019 ho conquistato quella vittoria a Wenduine. La cercavo da tempo, sapevo di avere le potenzialità, ma evidentemente non credevo abbastanza nelle mie capacità. Quel traguardo mi sembrava vicino, ma pensare a una vittoria era una cosa troppo grande. L’aspetto mentale ha giocato tantissimo su di me. Tant’è che dal 2019 ho iniziato a farmi seguire da una mental coach. Abbiamo portato avanti un lavoro importante che ho dovuto metabolizzare e che mi ha permesso di accrescere la mia autostima, arrivare concretamente a credere in me stessa. In quello stesso anno ho conseguito la prima laurea in psicologia, la triennale in Scienze e tecniche psicologiche. Poi è arrivato il Covid e a inizio marzo si è bloccato tutto.

Come hai fatto a ripartire e com’è maturata l’idea di dar vita a una squadra tutta tua?

Purtroppo la pandemia ha reso tutto difficile e per il team di cui facevo parte non è stato più possibile andare avanti, per l’assenza di sponsor. Avevo due scelte: o cercarmi un’altra squadra in Belgio, oppure provare a crearmi qualcosa di mio… Mi sembrava una sfida molto grande, ma su consiglio e su spinta del mio ragazzo che vive nel mondo del ciclismo da anni, ho deciso di provarmi. Così, nell’ottobre 2020, è nato il nostro team, il Women Cyciling Project.

Chi ne fa parte e quali sono stati i passaggi per dar vita a questa nuova realtà?

Abbiamo optato per una squadra giovane, con ragazze di età massima 19/20 anni, oltre a tre cicliste più esperte. Siamo un team internazionale composto da sette italiane, tra cui ovviamente ci sono anch’io, e quattro straniere. Non è stato semplice, perché abbiamo dovuto muoverci per trovare gli sponsor, per coprire le spese principali, in primo luogo l’abbigliamento delle ragazze, caschi, scarpe, indumenti per le varie condizioni atmosferiche… Poi le macchine e i furgoni per spostarci, non abbiamo ancora tutto, ma poco per volta stiamo crescendo. I nostri sponsor principali sono italiani, biciclette Finotti e Molino Filippini. Abbiamo già preso parte alle prime gare in Italia e le nostre junior hanno partecipato a una tappa della Coppa del Mondo. La sede ufficiale della squadra è in Italia, ad Alessandria, ma la staff tecnico è belga.

Tu ripeti spesso che dietro a questo progetto ci sono prima di tutto dei valori. Perché?

Io penso che lo sport, anche quello di alto livello, possa essere veicolo per portare avanti valori e cause importanti. Certo, nell’agonismo sono i risultati che parlano, ma non concepisco uno sport “vuoto” di valori, come purtroppo spesso mi accede di vedere, soprattutto in figure che hanno un’alta visibilità mediatica.

Che i giovani e le giovani diventino campioni o no, per tutti lo sport deve poter veicolare messaggi di giustizia, autostima ed emancipazione. Soprattutto per noi donne.

Quanto è importante la dimensione psicologica?

Moltissimo. Lo vedo anche tra le mie ragazze della squadra. I problemi più grandi non sono negli allenamenti, ma negli ostacoli interiori che si trovano ad affrontare. Le insicurezze. Nel ciclismo gli allenamenti sono tutti abbastanza simili uno all’altro, se ti alleni a un certo livello vuol dire che ormai hai superato determinati step a livello di performance. Ciò che invece cambia è la l’approccio mentale. L’ho vissuto anch’io sulla mia pelle. Quando ho iniziato a godermi lo sport al cento per cento, fuori dalle gabbie mentali, tutto è cambiato.

Perché per una ragazza è ancora difficile vivere il mondo del ciclismo, soprattutto in Italia?

Perché purtroppo viviamo di retaggi assurdi. Nei confronti delle atlete c’è una dose alta di body shaming, attacchi e giudizi sulla loro forma fisica. In Italia è un atteggiamento molto frequente, che invalida molto le atlete. Ti dicono che se non pesi 45 kg non puoi essere una ciclista e questo è terribile. Le ragazze finiscono per preoccuparsi del proprio corpo, più che di come si sentono interiormente. Anche questi sono abusi psicologici… L’ambiente ciclistico in Belgio è diverso da questo punto di vista.

Quale consiglio daresti a una ragazza che si trova a subire un giudizio del genere?

Sono convinta che siamo noi donne a dover evolvere e cambiare il sistema. È una nostra sfida. Quello che dico è che non bisogna rimanere vittime, è necessario uscire da questo schema. Il rischio è di perdere il posto o la visibilità in squadra? È vero, ma meglio che perdere la dignità. Tante volte ho sentito dire alle giovani cicliste che non vogliono essere trattate come macchine. Perfetto, allora dove cercare di comportarvi come persone e lottare per la vostra dignità. Perché questo è importante nello sport, come nella vita.

Luca Panichi, lo scalatore in carrozzina

Scalare le vette guardando verso l’alto. Anche se – e forse proprio perché – la vita ti ha posto di fronte a una sfida enorme. Luca Panichi è un ciclista la cui storia in sella alla bicicletta inizia all’età di otto anni, sulle orme dell’idolo Francesco Moser, e si interrompe bruscamente e drammaticamente il 18 luglio 1994, quando viene investito da un’auto durante il cronoprologo del Giro dell’Umbria Internazionale dilettanti.

La paura, lo sgomento, aggrapparsi alla vita. Da allora Luca non può più camminare. Ma lui sa cosa voglia dire affrontare una sfida, si porta dentro un bagaglio di energia fisica e mentale che nasce dall’esperienza sportiva di anni, la voglia di migliorarsi ogni giorno. Il limite per Luca non è un ostacolo, ma il punto di ripartenza. Ed è così che decide di riprendersi le sue salite, non più in sella alla bici, ma a bordo della sua carrozzina. A testimoniare che l’unico limite vero sta dentro di noi.

Dal 2009 le sue imprese vanno a braccetto con il Giro d’Italia professionisti. In ogni edizione Luca ha affrontato una salita, conquistando una serie di cime storiche, dal Block House al Passo del Tonale, dal Ghiacciaio del Grossglockner al Passo dello Stelvio, dalle Tre cime di Lavaredo allo Zoncolan, dal Colle delle finestre alla Cima Oropa. Tra le sue partecipazioni anche a quella alla Granfondo Terre dei Varano.

Le sue non sono solo imprese sportive, ma sono diventate la metafora di una forza che Luca incarna in ogni metro macinato. Una forza che porta su di sé i nomi di Fabio Casartelli, di Michele Scarponi, di Marco Pantani, ma anche gli incontri con tanti giovani appassionati di sport e studenti a cui Luca si rivolge raccontando la propria storia e portando un messaggio positivo.

Per il progetto Odiare non è uno sport lo abbiamo intervistato, per ascoltare la sua sua storia e la sua forza, le sue riflessioni sullo sport paralimpico e, in quanto referente Csen per lo Sport Integrato, il suo appello a una narrazione sportiva che punti non a scatenare l’aggressività ma a proporre modelli positivi, campioni che sappiano trasmettere un senso di condivisione. Perché – spiega Luca – “a prescindere dai risultati, lo sport ci serve per amare la vita, noi stessi e gli altri”

L’intervista a Luca Panichi

Nel nome di Michele Scarponi

Perché in strada non si imponga la regola del più forte

L’emergenza Covid-19 ha stravolto le nostre quotidianità, imponendo nuovi ritmi e nuove esigenze, creando un’emergenza anche dal punto di vista sociale ed economico. Durante gli oltre due mesi di chiusura di gran parte delle attività e dei centri urbani si è assistito a una “liberazione” o meglio a uno svuotamento delle strade, evidente soprattutto nelle grandi città, che ha portato anche al miglioramento della qualità dell’aria. Tuttavia ora si pone il problema di come affrontare la ripresa tanto attesa, anche dal punto di vista della mobilità, tenendo in considerazione che sarà necessario mantenere distanze di sicurezza in ambiente pubblico e quindi in ogni spostamento. L’alternativa sarà solo l’auto? Oppure si preferirà puntare sulle due ruote, con una scelta orientata anche alla tutela ambientale? E i mezzi pubblici che ruolo avranno?

Marco Scarponi è presidente della Fondazione Michele Scarponi, nata in onore del fratello, il grande ciclista vincitore del Giro d’Italia 2011, ucciso da un uomo alla guida di un furgone che non gli diede la precedenza svoltando a sinistra e lo colpì in pieno durante un allenamento mattutino in strada il 22 aprile 2017. La Fondazione, che si occupa di promuovere la cultura della mobilità sostenibile e di contrastare la violenza stradale, è tra i firmatari della lettera che alcune settimane fa diverse realtà italiane hanno inviato al governo per chiedere maggiore attenzione al tema della mobilità sostenibile e misure adeguate ad affrontare il post-emergenza. L’ultimo decreto emesso dal governo in parte risponde a queste richieste, ma c’è ancora moto da fare.

“Soprattutto perché – spiega Marco Scarponi – non si tratta solo di una risposta alla situazione che vivremo nei prossimi mesi, ma della necessità di iniziare finalmente anche in Italia a promuovere una cultura e un modo diverso di pensare la strada che non deve essere il luogo dove vige la regola del più forte. Perché la strada è di tutti“.

di Ilaria Leccardi

Chi era Michele, cos’era per lui la bicicletta?

Noi siamo cresciuti in collina e la bici è sempre stata uno strumento per fare sport. Una grande passione ma anche un grande sacrificio. Nostro padre regalò a Michele una bici da corsa per la prima Comunione e lui cominciò presto a vincere. A un certo punto in casa avevamo tante di quelle coppe che mia madre iniziò a regalarle perché non sapeva più dove metterle. Michele è sempre rimasto legato alla sua famiglia e alla sua terra, tanto che, anche quando andò a vivere in Veneto per il ciclismo, non ha mai cambiato residenza. I nostri genitori andavano a trovarlo ogni fine settimana. In carriera ha vinto tanto, dalla categoria juniores fino al professionismo. Ma il ciclismo è duro, a vincere è sempre e solo uno, gli altri perdono tutti. E negli anni Michele ha subito anche molte sconfitte.

Ciclismo sport di gambe, ma anche sport di testa.

Certo, soprattutto quando – come è successo a lui – dopo anni in cui ricopri il ruolo di capitano, ti trovi a essere gregario. Una sfida difficile da accettare, ma che ha richiesto tutta la maturità e la tenacia che facevano di Michele un grande uomo. Lui, che non voleva mai perdere, si è trovato a cedere il passo per aiutare un’altra persona a vincere, il suo capitano, Vincenzo Nibali.

C’è chi lo ha definito “il gregario più forte del mondo”. E a rappresentarlo c’è un episodio molto iconico, rimasto nella memoria di tanti, la tappa del Giro del 2016 Pinerolo-Risoul.

Era il 27 maggio, Michele era in testa e passò in solitaria la cima Coppi, in mezzo a muri di neve. Poi però in discesa, su richiesta della sua squadra – la Astana – si fermò, piede a terra, per attendere Nibali e lanciarlo verso la vittoria di tappa, preludio della vittoria del Giro. Una scena antica e mitica: fermarsi e aspettare, sacrificando la propria vittoria. Un gesto non scontato, una decisione forte.

Quel piede a terra significa molto, ha un valore anche altamente simbolico

Abbiamo deciso di utilizzare quell’immagine per il logo della Fondazione. Il piede a terra significa proprio questo.

La tua vittoria personale non è la cosa più importante. Fermarsi, aspettare gli altri non è un gesto di debolezza, ma un gesto di forza. E così dovrebbe essere sempre, nella vita, sulla strada, tutti i giorni.

Il nostro impegno come Fondazione ora è chiedere al più forte, l’automobile, di mettere il piede a terra per aiutare l’altro, nell’interesse di tutti.

Quello della mobilità sostenibile è un tema complesso e in Italia sembra non riuscire ancora a trovare il giusto spazio e la giusta rilevanza. Perché?

Noi siamo una Fondazione giovane, nata due anni fa. In questo breve lasso di tempo abbiamo girato molto, conosciuto tante realtà che portano avanti una missione importante, associazioni che si battono per una mobilità a misura d’uomo. Però purtroppo la visibilità è ancora scarsa. L’Italia vive una paradosso: è uno dei Paesi che ama di più il ciclismo al mondo e che annovera campioni straordinari nel passato e nel presente, insieme a Francia, Belgio, Spagna. Eppure da noi è quasi impossibile trasmettere l’amore per la bicicletta in strada. Basti pensare a quante pubblicità vediamo in televisione relative alle auto e a quante – nessuna – che vediamo legate al mondo delle due ruote. E invece siamo proprio in una fase storica in cui, per motivi anche ambientali, bisognerebbe incentivare l’uso della bicicletta.

L’auto sembra essere qualcosa di intoccabile.

Sì, anche nel racconto mediatico, non esiste ironia sull’automobile. L’auto non si può mettere in discussione. È uno status symbol. Eppure in strada è l’auto che uccide. Ogni anni si registrano oltre 3.000 vittime sulla strada, ma per la maggior parte non si tratta di ciclisti o pedoni – che comunque pagano un grande prezzo – bensì degli stessi automobilisti, motociclisti, camionisti.

È proprio come se in strada vigesse la legge del più forte?

Io faccio spesso un esempio, che nasce dal mio impegno come educatore di ragazzi disabili. Ricordo che quando facevo con loro dei laboratori di teatro, questi ragazzi dovevano salire sul palco e ogni volta dovevamo prenderli in braccio sulla carrozzina e sollevarli per farli salire, provocando anche umiliazioni. Solo perché il palco non aveva una pedana che permettesse loro di muoversi in autonomia. Sulla strada manca proprio quella “pedana”. Le piste ciclabili sono poche e spesso costruite male, la strada è progettata a misura d’auto e non favorisce l’autonomia del soggetto più fragile.

Avere strade che tutelano il più debole garantirebbe una vita migliore per tutti, anche per il più forte .

Ora nell’ultimo decreto seguito all’emergenza coronavirus, il governo ha varato una serie di misure a favore della mobilità sostenibile. Il come vivere il tempo fuori casa – di conseguenza – la mobilità, saranno temi chiave da affrontare?

Sì, c’è voluta la pandemia per avere delle piste ciclabili o un incentivo all’acquisto delle bici. Diciamo che quello che sta succedendo è abbastanza rivoluzionario, ma al tempo stesso pericoloso. Mentre altrove i mezzi pubblici sono incentivati, da noi il messaggio è: “Meglio che non li prendiate”. Negli anni le politiche non si sono mosse a favore dell’utilizzo dei mezzi pubblici: basta pensare a quanto fatto sui treni dove, al di là dell’alta velocità, il trasporto su rotaia è stato molto penalizzato. Ora, pensare di risolvere la situazione puntando solo sulla bicicletta come alternativa all’auto è difficile. È necessario invece affiancare ad essa l’investimento sui mezzi pubblici, componente fondamentale per la mobilità sostenibile. Bisognerebbe aumentare il numero di treni, le corse degli autobus. Ripensare completamente la nostra mobilità nel complesso.

Al centro, Marco Scarponi, fratello di Michele

Con i più giovani si riesce a parlare di questi temi? Che sensibilità hanno?

Nel 2019 ho incontrato quasi 7.000 ragazzi, dalle scuole dell’infanzia fino all’università. E il problema non sono loro, ma gli adulti. I più giovani sarebbero subito pronti a imbracciare la bicicletta, il monopattino, anche perché nelle nuove generazioni c’è una maggiore sensibilità al tema ambientale. Tuttavia, quando incontrano noi non sono una tabula rasa, ma si portano dietro insegnamenti spesso errati e hanno già un’esperienza di violenza nei comportamenti: genitori che guidano guardando il telefono, che non rispettano i limiti di velocità. Gli interventi sulla sicurezza stradale a scuola non dovrebbero essere “eventi” come ora, senza una visione e una continuità, ma dei percorsi strutturati e condotti da professionisti.

In quest’ottica voi avete anche prodotto un documentario.

Si chiama “Gambe”. Con le prime manifestazioni in memoria di Michele, chiesi a un gruppo di amici di fare delle riprese, per fissare la memoria di quanto stavamo vivendo. E poi ci abbiamo lavorato sopra e abbiamo raccolto interviste a figure che potessero affrontare vari temi, dal ciclismo vissuto sotto diversi punti di vista alla violenza stradale. Ci sono campioni amici di Michele, ma anche familiari delle vittime o una figura straordinaria come l’architetto Matteo Dondè, esperto in pianificazione della mobilità ciclistica, moderazione del traffico e riqualificazione degli spazi pubblici.

Quanto è difficile far passare i messaggi che portate avanti?

Spesso durante gli incontri a cui partecipiamo si pronuncia la parola “rispetto”, in frasi come “anche i ciclisti devono avere rispetto dei pedoni”, “i ciclisti devono rispettare le regole”. Vero. Ma il problema concreto è che il nostro codice della strada è stato pensato e concepito per creare fluidità nel traffico automobilistico e che in Italia l’auto ancora è considerato un bene necessario, le statistiche ci dicono che abbiamo quasi 70 auto ogni 100 abitanti. E purtroppo, anche in casi di episodi mortali, si tende a non attribuire colpe e responsabilità. C’è addirittura chi fa campagne contro gli autovelox, come se fosse qualcosa di inaccettabile chiedere di rallentare, diminuire la velocità, sanzionare perché si va troppo veloce.

E anche se si fa fatica a usare il verbo “uccidere” quando si parla di episodi avvenuti in strada, la verità è che la velocità uccide.

Qual è la speranza per il futuro?

La storia di Michele vogliamo che serva a innescare una serie di spinte positive. Tra queste, trasmettere l’idea dello sport come strumento per imparare a stare insieme agli altri nel rispetto delle regole comuni; promuovere la bicicletta come mezzo di locomozione giusto, sano e pulito; l’importanza di muoversi a tutela dei più fragili, sia sulla strada che in altri contesti sociali; ricordarsi delle vittime della violenza stradale e sostenere i loro familiari. E per questo ci muoviamo guardando al futuro. Il nostro sogno è avere delle città a misura d’uomo e non di auto, anche dal punto di vista urbanistico. E poi ricordarsi che l’imposizione della regola del più forte non può essere la scelta di una società sana.