Briantea84 e Bulgaro Academy: sport inclusivo e tifo positivo

Lavorare per dar vita a una società dove lo sport sia realmente inclusivo e tracciare nuovi percorsi per rendere il tifo un’esperienza positiva, determinata ma anche gentile. Sul territorio comasco ci sono due realtà che incarnano questi obiettivi, lavorando nella pratica agonistica e nell’educazione della propria “famiglia sportiva”: quella comunità che si riunisce sugli spalti o ai bordi del campo, quella allargata a genitori e tifosi, quella che non può non sentirsi coinvolta se si parla di amore per lo sport.

UnipolSai Briantea84 Cantù, una delle più titolate realtà italiane del basket in carrozzina, fresca vincitrice della Coppa Italia, e FCD Bulgaro Academy, scuola calcio della FIGC, si sono incontrate e hanno potuto confrontarsi attorno a questi temi grazie a un evento organizzato dalla ONG ASPEm nell’ambito di Odiare non è uno sport, lo scorso 16 gennaio a Bulgarograsso, davanti a una platea di genitori, educatori, personale sportivo.

Di Ilaria Leccardi e Camilla Novara (ASPEm)

Nata da un’intuizione di Alfredo Marson che fino alla sua scomparsa, nel 2022, ne è stato presidente, la Briantea84 conta attualmente 150 tesserati in cinque discipline sportive (oltre all’eccellenza del basket in carrozzina, anche nuoto, calcio, atletica e pallacanestro). “Come società lavoriamo per promuovere l’inclusione quotidiana, incontriamo migliaia di giovani ogni anno, per trasmettere e testimoniare loro che lo sport paralimpico è sport, e dà dignità alla persona”, ha spiegato durante l’evento Simone Rabuffetti, responsabile ufficio stampa della società.

E che Cantù sia una dei centri focali di questa disciplina, lo testimonia la storia di Francesco Santorelli, play, classe 1992, cresciuto nelle fila del CIS Napoli e approdato in Briantea84 quando aveva 18 anni, fortemente voluto dal presidente Marson che proprio in quegli anni lanciava il nuovo progetto di scalata alle classifiche. Da allora con la squadra lombarda ha vinto 7 scudetti (che si aggiungono ai 2 già presenti nella bacheca della squadra), 8 Coppe Italia e 6 Supercoppe Italiane. “Mi sono avvicinato al basket in carrozzina quando avevo 13 anni, indirizzato da un conoscente. Rimasi affascinato quando vidi giocare a basket a un livello così alto. L’arrivo in Briantea è stato per me un passo molto importante, sportivo, vista l’importanza del team a livello italiano ed europeo, ma anche umano, per la mia crescita e autonomia”.

Negli anni la società ha costruito valore. Agonistico, che ha portato a rivalità storiche come quella con Amicacci Giulianova, vincitori dell’ultimo scudetto, o Santa Lucia Sport Roma. Ma anche quello di comunità, capace di riempire i palazzetti. “Nel nostro ambiente – ha proseguito Santorelli – ci conosciamo tutti, anche perché molti di noi, pur se avversari nei club, vestono o hanno vestito la maglia della Nazionale. Eppure, in campo la rivalità è molto forte. Il nostro giocatore in più è senza dubbio il pubblico: il territorio ci segue molto, ad ogni partita gli spalti del PalaMeda (dove giochiamo) sono pieni, mentre fuori casa capita spesso di giocare nel silenzio di un palazzetto vuoto. Rispetto a dieci anni fa, possiamo dire che lo sport paralimpico sta raccogliendo più seguito. Finalmente veniamo percepiti come atleti a tutti gli affetti: le ore di allenamento, i sacrifici per arrivare a livelli di eccellenza, la dedizione sono gli stessi, che si tratti di sportivi paralimipici o no”.

Il grande lavoro di Briantea84 verso la propria comunità, tuttavia, non è andato solo nella direzione di ampliare il bacino di tesserati o di portare pubblico sugli spalti, bensì, verso un’educazione al rispetto, anche grazie alla collaborazione con l’associazione Comunità nuova e il progetto “Io tifo positivo”, che porta la società a compiere anche simulazioni di tifo durante gli incontri che la vedono incontrare giovani negli oratori e nelle scuole. “Facciamo di tutto affinché gli avversari possano sentirsi accolti nel nostro palazzetto e questo non vuol dire non tifare o non schierarsi per i propri colori. Ma riconoscere che l’avversario può essere più forte e non per questo va insultato”, spiega ancora Simone Rabuffetti.

L’obiettivo è pienamente condiviso da un’altra eccellenza del territorio comasco, la FCD Bulgaro Academy, scuola calcio che sta crescendo talenti e generazioni. “Per noi – ha spiegato durante l’incontro Alessandro Crisafulli, giornalista, responsabile comunicazione della società – l’aspetto educativo è molto importante. Siamo cresciuti negli ultimi anni, abbiamo numeri importanti, ma non dimentichiamo mai che ogni singolo bambino o ragazzo è un progetto, da crescere e gestire al meglio. E in quest’ottica per noi è determinante la collaborazione con i genitori. Lavoriamo per informarli, formarli e coinvolgerli”. Purtroppo, sottolinea, “nel calcio giovanile c’è spesso un clima inquinato, fatto di ‘risultatismo’ e ‘campionismo’, che rovina l’ambiente e incide sui più piccoli. Noi adulti abbiamo una grande responsabilità”. Un approccio delicato, pedagogicamente attento, è quello che sta da anni cercando di valorizzare Crisafulli, ideatore della Scuola Genitori Sportivi, che ha dato vita un Alfabeto della gentilezza, attraverso cui lavora per promuovere il tifo gentile.

“Bisogna spiegare a un genitore l’importanza di stare al fianco del proprio figlio o della propria figlia, ma senza creare eccessive aspettative”. E, soprattutto dopo una sconfitta o una prestazione negativa, è importante rimanere in ascolto, anche di un silenzio.

Ed ecco un nuovo punto in comune: usare le parole giuste, nel tifo, così come nella narrazione sportiva, senza cadere nel perbenismo – che rischia di sfociare in forme di abilismo o infantilizzazione nei confronti degli sportivi con disabilità. “Gli atleti della Briantea84 – tiene a evidenziare Rabuffetti – hanno una dedizione totale all’allenamento, con ritmi e sessioni di preparazione del tutto simili a quelli seguiti dai giocatori di basket in piedi, con doppi allenamenti e numerose trasferte. A volte da fuori si ha la percezione che basti essere in carrozzina per essere ‘bravo’, ma non è così”.

“Ancora oggi – chiude Santorelli – capita che le persone che ci seguono non giudichino la prestazione, ma vogliano tirarci su il morale e stimolarci solo perché abbiamo una disabilità. Ma non ci serve ‘comprensione’ dopo una sconfitta. Dobbiamo invece analizzare gli errori commessi, le debolezze dimostrate, per studiare una tattica da applicare poi in campo”. Semplicemente, atleti.

Amicacci Giulianova: il canestro dell’inclusione

Uscire dall’emarginazione, combattere l’indifferenza, fare della propria difficoltà un punto di forza per sperimentare nuove forme di inclusione e autodeterminazione. La palla da basket in mano, un canestro in alto ad aspettarla. Un sogno che si è realizzato, attraverso un percorso di crescita collettiva, che ha portato un cittadina abruzzese ai vertici sportivi europei.

È la storia dell’Amicacci Giulianova, una Polisportiva che ha al centro della propria attività il basket in carrozzina, una disciplina sportiva basata sull’inclusione, in cui non esiste spazio per alcuna forma di discriminazione, in cui nelle squadre di club le donne possono giocare con gli uomini e in cui il regolamento è pensato ad hoc per accogliere persone con disabilità differenti, tutte in campo con l’obiettivo di fare canestro.

L’Amicacci è la società sportiva a cui appartiene Beatrice Ion, la giocatrice azzurra di origine romena salita alle cronache per il vergognoso attacco razzista subito vicino a casa, in un villaggio di Tor San Lorenzo, ad Ardea, alle porte di Roma, dove vive con la famiglia. Un episodio inqualificabile. Dopo aver lamentato l’occupazione costante del proprio posto auto disabili riservato vicino a casa, il padre di lei è stato aggredito fisicamente ed è finito in ospedale con uno zigomo rotto, e la ragazza è stata insultata in quanto disabile e straniera. Tutto il mondo sportivo e non solo si è stretto attorno a Beatrice e alla sua famiglia. Ma questo episodio, così come le assurde code polemiche alimentate via social a cui la stessa Beatrice ha risposto, dimostrano quanto lavoro ci sia ancora da fare per sensibilizzare la cittadinanza contro ogni forma di discriminazione, favorendo invece percorsi di inclusione. Ed è un lavoro lungo, proprio come raccontano la storia dell’Amicacci e del movimento del basket in carrozzina. Ne abbiamo parlato con Ozcan Gemi, ex giocatore e allenatore della squadra e di Beatrice, di origine turca, che dal 2002 fa parte della realtà abruzzese.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dagli inizi. Come è nata l’Amicacci e perché proprio il basket in carrozzina?

La società è nata nel 1982, grazie all’attenzione di un gruppo di genitori – tra cui Giuseppe Marchionni, Edoardo D’Angelo, Ronald Costantini – che, accompagnando i figli costantemente in centri di medicina e fisioterapia per problematiche legate a diverse patologie, sono venuti a conoscenza del mondo sportivo paralimpico. E hanno capito che la disabilità non poteva essere un freno alla vita ma che, anzi, i ragazzi avevano bisogno di svolgere un’attività fisica come possibilità di riabilitazione e socialità. Il primo torneo venne organizzato nel 1984 e all’epoca la cittadinanza ancora non sembrava pronta a comprendere l’importanza di un percorso di questo tipo. Ma poco per volta, con l’impegno costante di tanti volontari e famiglie, il sogno è diventato realtà. Negli anni ’90 addirittura Giulianova è divenuta il centro di un torneo internazionale estivo, organizzato all’aperto, che ha permesso un avvicinamento di tutta la città a questo straordinario sport.

Presto è arrivato l’alto livello, com’è stata la scalata ai vertici?

Dagli anni ’90 l’Amicacci si è iscritta al campionato nazionale. Dopo alcune stagioni in A2, 2007 siamo stati promossi nella massima serie e da allora non siamo più retrocessi, confermandoci sempre ai vertici del campionato italiano. Il risultato migliore a livello nazionale è stato il secondo posto nel 2018, quando siamo sconfitti in finale playoff.

Avete però un nome anche a livello europeo.

Attualmente siamo la nona squadra nel ranking continentale su circa 300 formazioni. Negli anni passati abbiamo ottenuto importanti risultati come la vittoria della Challenge Cup nel 2011 e della André Vergauwen Cup nel 2012, il secondo più importante torneo europeo. Nel 2018 siamo arrivati ai quarti di finale di Champions.

Siete un’eccellenza, ma vivete ancora degli sforzi dei volontari. Quanto è importante il lavoro con i giovani e l’attività rivolta allo sport di base?

Anche se i nostri campionati prevedono grandi investimenti, sia per le trasferte sia per il mercato dei giocatori che ormai ha un respiro internazionale (nell’ultima stagione su 12 giocatori in rosa, ben 5 erano stranieri), il sostegno dei volontari è fondamentale. Anche perché abbiamo una finalità sociale molto spiccata e lavoriamo per promuovere lo sport di base e tra i giovani. Da alcuni anni ormai portiamo avanti il progetto Amicuccioli, ossia una squadra giovanile di basket in carrozzina, che partecipa al campionato nazionale. E poi abbiamo avviato il progetto Èsportabile: incontriamo le scuole mostrando loro un documentario che racconta la storia di tre ragazzi con disabilità differenti, e alimentando il dibattito e il confronto sul tema. Vogliamo sensibilizzare, far conoscere quali sono gli aspetti della vita di un ragazzo disabile a chi non vive tutti i giorni questa condizione.

Quali sono le caratteristiche principali del basket in carrozzina?

Innanzitutto bisogna ricordare che è uno dei principali sport paralimpici, uno sport molto completo, si gioca su campi regolamentari di basket, con la stessa palla e il canestro posto alla stessa altezza della pallacanestro classica. La carrozzina è personale, realizzata su misura con le ruote inclinate per dare maggior stabilità (insieme alle rotelle anti-ribaltamento poste sul retro) e per difendere il giocatore durante i contrasti che sono frequenti nel corso delle partite.

E qual è il criterio per comporre le squadre? Visto che le disabilità, e di conseguenza la mobilità dei giocatori, possono essere differenti…

Ad ogni giocatore, in base alla propria disabilità, viene assegnato un punteggio. Il totale della squadra non deve superare 14,5 punti. Questo porta le formazioni a essere composte da persone con disabilità più e meno gravi. Più la disabilità è importante più il punteggio del singolo giocatore è basso. L’inclusività del nostro sport si basa proprio su questo. Un meccanismo che consente alle ragazze di giocare con i ragazzi, perché anche in questo caso si può andare a compensare il punteggio portato dalla giocatrice (che ha un abbattimento di 1,5 punti) con quello degli altri componenti della squadra. Stesso discorso per i normodotati senza alcuna disabilità, che nel minibasket e nel campionato di serie B possono essere inseriti in squadra, portando con sé un punteggio più alto.

Cos’ha comportato per la vostra realtà e il movimento italiano del basket in carrozzina l’emergenza COVID19?

L’annullamento di tutti i campionati… Lo scudetto quest’anno non sarà assegnato. E anche la “dispersione” dei giocatori, molti dei quali nel nostro caso non sono originari di Giulianova, ma vengono da altre città italiane o dall’estero, e sono tornati a casa. Quindi ora non ci stiamo allenando come gruppo. Per l’attività di base è stato altrettanto difficile, perché per molti mesi non si è potuti tornare in palestra.

Raccontaci qualcosa di Beatrice Ion. Quanto vi ha colpito il terribile episodio di cui è stata vittima?

Beatrice è una giocatrice dell’Amicacci da due anni. L’ho conosciuta durante un campo di minibasket che organizziamo ogni anno, a cui partecipano bimbi e ragazzi di diverse età per una settimana di sport e divertimento. Lei giocava al Santa Lucia di Roma ed era già molto brava. Due anni fa le ho proposto di venire a giocare nella nostra squadra e ha accettato, si è trasferita in zona e si è iscritta all’università di Teramo.

Quello che è successo a Beatrice è inaccettabile e indescrivibile ed è lo specchio di quanto razzismo e scarsa cultura del rispetto ci sia nella nostra società.

L’abbiamo sentita particolarmente sconvolta, soprattutto per l’aggressione fisica subita dal padre.

Beatrice Ion in una fotografia di Daniele Capone

Al di là dell’episodio singolo, quanto lavoro c’è ancora da fare per stimolare una cultura del rispetto e dell’attenzione alle persone con disabilità?

Molto. Diciamo che la società sta crescendo, ma ancora bisogna lavorare. Ad esempio nella nostra regione, l’Abruzzo, abbiamo grandi differenze tra la zona costiera dove le città sono a misura di tutti, mentre nell’interno non è ancora così. E lo vediamo girando per le strade tutti i giorni, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ma non è un’attenzione che si deve avere solo nei confronti delle persone con disabilità, ma verso tutti, gli anziani, una madre o un padre che spingono un passeggino. Spesso noi andiamo nelle scuole per incontrare i ragazzi, grazie al nostro progetto di sensibilizzazione, e portiamo un bagaglio di esperienza. Spieghiamo l’importanza degli scivoli e dei parcheggi per disabili, soprattutto per garantire l’autonomia alle persone. Certe cose non sono scontate. Faccio un esempio: a me non serve che il posto auto riservato sia davanti all’ingresso del luogo dove devo andare, ma mi serve che abbia dello spazio attorno per aprire completamente la portiera della mia macchina, appoggiare la carrozzina per terra, uscire dall’auto, sedermi sulla carrozzina e muovermi in autonomia. Sono cose a cui una persona che non vive queste difficoltà a volte non arriva neanche a pensare.

Chi vive la disabilità quotidianamente non ha bisogno di essere compatito, ma di essere rispettato e tenuto in considerazione. Una società attenta ai diritti dei più deboli non può che essere una società avanzata e che lavora per il benessere di tutti.