Vittoria Di Dato: la marcia e la felicità della fatica

La marcia è uno sport di grande tecnica. Uno sport che richiede tenuta mentale, allineamento tra l’obiettivo e la capacità di sostenere la fatica, metro dopo metro, con l’asfalto o il tartan che scorrono sotto i piedi. Vittoria Di Dato ha vent’anni compiuti da poco, ha abbracciato l’atletica che era una bambina e ha conosciuto la marcia dopo alcuni anni, nel 2017. Da allora, non solo non l’ha più abbandonata, ma ha scalato metro dopo metro le classifiche e i sogni, fino a divenire una delle giovani promesse azzurre che guardano al futuro.

di Ilaria Leccardi

Vittoria, come inizia la tua storia con la marcia?

Ho cominciato a praticare l’atletica in quarta elementare, undici anni fa. Inizialmente mi sono dedicata alla corsa ma poi, passata alla categoria cadetti, seguendo l’esempio di una ragazza che si allenava con me e marciava, ho provato anche io questa disciplina. Mi è subito piaciuta ed evidentemente ero portata. Dopo aver esordito con la marcia nella Polisportiva Colverde, mi sono spostata a Cantù, dove mi sono allenata per tanti anni con Vittorio Zeni, uno dei maestri della marcia azzurra, che aveva già cresciuto importanti talenti e che purtroppo è mancato lo scorso anno.

Un grande dolore per una figura che segnato positivamente il tuo percorso, proiettandoti nella marcia di altissimo livello.  

Sicuramente sì. Tant’è che dopo la sua scomparsa ho iniziato a essere seguita direttamente da Alessandro Gandellini, ex marciatore, azzurro alle Olimpiadi di Sydney e Atene, e attuale responsabile tecnico del settore marcia della Federazione italiana di atletica.

Sei già stata due volte campionessa italiana outdoor nella 10 km, nella categoria allieve (nel 2020) e junior (nel 2021). Quali sono state invece le tue prime esperienze internazionali in azzurro?

Agli Europei di Tallin nel luglio 2021 ho vestito per la prima volta la maglia della nazionale per la gara dei 10 km di marcia. Ero nel mio primo anno nella categoria Under20, la gara non è andata come speravo, ma l’emozione è stata enorme, anche perché mi confrontavo con atlete di tutta Europa e sentivo finalmente di essere entrata nel vivo della disciplina. Nel 2022 ho disputato la Coppa del Mondo a Muscat, in Oman, arrivando decima su strada nella 10 km, e i Campionati Mondiali Under20 a Cali, in Colombia. Infine, quest’anno, con il passaggio alla categoria Under23, ho disputato gli Europei in Finlandia, dove ho chiuso undicesima, ma gareggiando assieme a ragazze del 2002 e 2001. Ho fatto segnare il mio secondo tempo e lo ritengo un grande risultato.   

La marcia è uno sport molto duro, sia dal punto di vista fisico che mentale. Come ti alleni e qual è l’equilibrio tra l’attività di alto livello e il resto della tua vita?

Ho finito il primo anno di Università, alla Cattolica di Milano, in Lingue, comunicazione, media e culture digitali. All’inizio è stato difficile trovare una routine giusta. Tra il cambiamento di allenatore e l’inizio dell’università, il mese di settembre 2022 è stato un momento delicato. Ma ora ho trovato un buon ritmo. Continuo a vivere nel paesino di Oltrona, studio a Milano e mi alleno a Sesto San Giovanni, seguita da Alessandro. I ritmi della marcia sono duri: mi alleno sei giorni a settimana, spesso anche con due sessioni al giorno, mattina e sera.

Un tuo allenamento tipo?

Gli allenamenti sono vari e differenziati. Ci sono periodi in cui principalmente marciamo, 15 km in settimana e 20 o 25 km il sabato. Durante l’inverno invece facciamo più potenziamento, anche in palestra, con esercizi a corpo libero e circuiti per alzare i battiti cardiaci. Poi ci sono i giorni in cui ci dedichiamo alle ripetute: riscaldamento, 5 km di marcia e poi ripetute su 500 o 1000 metri.

Sempre con il tuo allenatore?

Lui mi segue sempre, talvolta in presenza altre a distanza. Quando esco a marciare al mattino generalmente sono sola, al pomeriggio invece sono spesso i miei genitori a seguirmi in bicicletta. Se i risultati arrivano, sono frutto di tutti.

L’Italia è un paese della grande storia nell’atletica, in particolar modo nella marcia. C’è qualche figura a cui ti ispiri in modo particolare?

Sicuramente Antonella Palmisano, oro Olimpico a Tokyo nel 2021 nella 20 km. La seguo da sempre e poi l’ho conosciuta di persona e ho avuto l’opportunità di allenarmi con lei lo scorso aprile a Ostia, durante un raduno. È una persona molto umile, alla mano, ma al tempo stesso molto determinata. Dopo Tokyo è stata ferma un anno, senza gareggiare, per un infortunio, ma poi è riuscita a tornare e quest’anno ha conquistato il bronzo ai Mondiali di Budapest. Un esempio per tutte noi. Io non mai dovuto affrontare grandi delusioni, ma nel 2018 sono stata ferma diversi mesi per un edema osseo alla testa iliaca dell’anca. È stato un periodo difficile, immagino dunque cosa voglia dire per una campionessa olimpica non potersi esprimere in gara e affrontare il dolore come ha fatto Antonella. Ma tra i miei punti di riferimento c’è anche Valentina Trapletti, che ha disputato gli ultimi Mondiali e sarà ai Giochi di Parigi 2024, ci alleniamo insieme e la reputo un esempio sportivo.

Quali sono i tuoi prossimi obiettivi sportivi e cosa ti aspetti dal futuro?

Nel 2024 per me l’appuntamento più importante saranno i Giochi del Mediterraneo. Inoltre, vorrei lavorare per migliorare i miei tempi, sia nella 10 km sia nella 20 km. Ovviamente è anche l’anno olimpico, ma io a Parigi non ci sarò. Tuttavia, ho l’opportunità di confrontarmi in allenamento con azzurri di spicco, come la stessa Valentina, ma anche Sara Vitiello, Riccardo Orsoni e Stefano Chiesa… Insomma, ormai mi sento nella scia della marcia che conta e se devo guardare in là posso sperare solo di crescere e di arrivare al meglio nel prossimo quadriennio.

Il nostro progetto, Odiare non è uno sport, mira a contrastare le forme di hate speech online in ambito sportivo, rivolgendosi in particolar modo ai giovani. Tu che rapporto hai con i social media?

Un rapporto positivo e certo non di dipendenza. Uso Whatsapp e Instagram e non sono mai incappata in esperienze negative nel loro utilizzo. Pubblico i risultati delle mie gare, ricevo sempre e solo complimenti. Ma sono consapevole che sui social possono innescarsi dinamiche negative, soprattutto a danno dei più giovani, e bisogna stare attenti.

Qual è il principale insegnamento della marcia e perché la consiglieresti come sport a una giovane o un giovane?

La marcia è uno sport capace di insegnare molto. Sicuramente lo fa dal punto di vista educativo, perché devi essere una persona umile, letteralmente e simbolicamente con i piedi per terra. Ma anche perché ti insegna a resistere alla fatica e questo, sembra strano, può dare felicità.

Nella maggior parte dei casi dopo un allenamento, che vi assicuro è sempre faticoso, sono felice. Perché sento che mi sono migliorata, in una sfida costante, non tanto con gli altri – perché questo arriva poi nel momento della gara – ma con me stessa. Mi aiuta a conoscermi e ad andare oltre ai miei limiti.

Valentina Petrillo

“Sogno un futuro in cui nessuno debba più sentire storie come la mia. Sogno un futuro in cui non ci siano più bambini, bambine, adolescenti, costretti e costrette a nascondersi, ad avere paura, a non potersi esprimere per quello che sono: in famiglia, nella società, nelle attività di tutti i giorni. E nello sport, sì, anche nello sport”.

Valentina Petrillo è una campionessa paralimpica che gareggia sulle distanze dei 200 e 400 metri nella categoria T12, riservata alle persone ipovedenti. Dall’età di 14 anni soffre della sindrome di Stargardt, che preclude fortemente la vista. Ma Valentina è anche una persona che sta scrivendo la storia dello sport italiano e internazionale. È infatti la prima ad aver affrontato la transizione di genere a correre nella categoria a cui si sente di appartenere: le donne.

Di Ilaria Leccardi

Il 2021 sarà un anno fondamentale per lo sport. Dopo il rinvio causa Covid dei Giochi di Tokyo, il mondo è in attesa di capire se sarà possibile disputare l’evento. E nel frattempo tutti i campioni che puntano a quel traguardo sono in lotta con se stessi o gli avversari per conquistare il pass. Valentina è in forma, finalmente. Il corpo risponde bene agli allenamenti e le gambe girano forte. Nel meeting di Ancona del 31 gennaio ha fatto siglare il record italiano paralimpico femminile sui 400 metri. “Dal punto di vista sportivo è un momento importante, questa era la seconda uscita stagionale. Una settimana prima, ai Campionati paralimpici, avevo vinto ma con un tempo più alto. Qui, oltre all’oro, sono riuscita a segnare il nuovo primato italiano assoluto sulla distanza, con il tempo di 1’02.88. Sono molto felice. Ho dato il via a una fase importante che potrebbe darmi molte soddisfazioni. E questo, a due anni dall’inizio della terapia ormonale”. La strada per Tokyo è ancora lunga: la prossima tappa fondamentale sarà il weekend del 15/17 aprile, quando a Jesolo si terrà il Meeting internazionale paralimpico, prima occasione in cui i tempi saranno inseriti nei ranking mondiali e quindi ritenuti validi per i pass a cinque cerchi.

“Per molti il 2020 è stato un anno terribile. A me, nonostante tutto, ha permesso di prepararmi al meglio e ha consentito al mio corpo di abituarsi alla terapia ormonale che è tutto fuorché una passeggiata”, prosegue.

Valentina corre perché è nata per farlo. E corre fin dal giorno in cui, ad appena sette anni, vede Pietro Mennea volare sui 200 metri ai Giochi di Mosca. Ma Valentina per troppi anni è costretta a vivere una vita che non è la sua.

Io sono il classico esempio di una persona che per timore dello stigma sociale si è tenuta tutto dentro. L’impatto della società, di cosa avrebbe potuto comportare essere veramente me stessa, ha inciso molto sul mio percorso di vita.

foto FISPES – Mantovani

“Ho provato a lottare per rimanere nel posto assegnatomi dalla società, che inscatola i bambini maschi con un fiocco azzurro. L’ho fatto fino a quando sono esplosa. Per 44 anni non ho avuto strumenti, pensavo di essere l’unica al mondo a vivere questa situazione. Sono nata nella Napoli degli anni Settanta, dove i femminielli erano considerati la “feccia” della società. Con una cugina più grande di me che, dove aver dichiarato di essere trans, venne cacciata di casa dal padre e non fece una bella fine. Avevo paura e mi sono nascosta”.

Poi però arriva il momento in cui Valentina non può far altro che essere se stessa. Prima di iniziare il percorso di transizione, aveva già vinto 11 titoli italiani paralimpici maschili nella sua categoria di disabilità. Lo sport è sempre stato importante, ma a un certo punto la scelta di iniziare la transizione diventa prioritaria. “Sentivo che per essere me stessa dovevo arrivare a realizzarmi in quanto donna, a prescindere dallo sport. Se poi fossi riuscita a coronare il sogno anche in ambito sportivo, sarebbe stato fantastico”.

Un ruolo centrale nel suo percorso lo ha il Gruppo Trans di Bologna che da anni segue e affianca le persone nei percorsi di transizione. “Fino al giorno in cui non ho varcato la soglia dell’Associazione, grazie al consiglio di un’amica, e ho visto quella che poi sarebbe diventata una delle persone di riferimento per me, Milena, non potevo immaginare la normalità della situazione. Nel mio immaginario le persone trans erano sempre e solo associate a contesti degradati, di strada. Invece davanti a me vidi una ragazza in scarpe da ginnastica e jeans. Le chiesi se potevo toccarle la mano e capire se fosse reale. La guardai e dissi: ‘Sei la persona che ho sempre saputo di essere, ma che non avevo mai incontrato’. A quel punto avevo capito chi fossi”.

Il percorso di transizione per Valentina inizia quasi subito dopo quell’incontro. Cosa non scontata, visto che prima di avere l’ok da parte dei medici è necessario una lunga valutazione, anche psicologica. “Per me è stata abbastanza rapida, perché era chiara la mia determinazione. Io ero dell’idea che, a prescindere dalla terapia, avrei comunque iniziato a vivere da donna, nei contesti privati e in quelli pubblici”.

L’impatto sul corpo delle persone che affrontano il percorso di transizione non è semplice. Valentina in un mese ingrassa di 10 chili e dopo tre mesi non riesce a correre. È fisicamente spossata, la sua temperatura corporea si abbassa di 2 gradi. La muscolatura fa molta più fatica a recuperare. Le prime gare le affronta dopo sei mesi, ancora nella categoria maschile, e il calo delle prestazioni in pista è evidente. Ma non si arrende, soprattutto con l’obiettivo di gareggiare finalmente nel genere che le appartiene.

I momenti più difficili, ricorda, sono due. I primi mesi del 2018, “quando iniziavo a uscire di casa vestita da donna, ma negli ambiti sociali come il lavoro vivevo ancora da uomo. E per me era terribile, una sorta di sdoppiamento di personalità, in cui sentivo che Valentina chiamava, ma non potevo sempre rispondere”. L’altro è stato nel 2019, poco dopo l’inizio del percorso di transizione, quando le Federazioni sportive le dicono che il suo sogno di gareggiare con le donne è irrealizzabile.

foto FISPES – Mantovani

Poi qualcosa cambia. Da una parte l’Uisp e il Gruppo Trans intervengono per sollecitare un passo in avanti, poi – nel giugno 2019 – l’incontro con Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico. “Gli mandai una mail e lui mi convocò. Fu un incontro bellissimo, in cui parlammo di tutto tranne che di sport. ‘Valentina- mi disse – io ti vedo come vedevo me stesso dopo l’incidente che provocò la mia disabilità. Ti capisco’. Non so bene cosa sia successo, ma so che a un certo punto la FISPES, la Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali, mi aprì le porte”.

L’11 settembre 2019 Valentina Petrillo diventa la prima persona trans a correre nella categoria del genere di appartenenza. E poi, a ottobre, si aprono le porte anche della Fidal, nei campionati Master ad Arezzo.

Fin dall’inizio Valentina si pone il dubbio se sia giusto o meno gareggiare con le altre donne. Ma la risposta, la più semplice possibile, arriva dalla dottoressa Joanna Harper, medico statunitense che da anni approfondisce il tema dalle persone sportive che affrontano la transizione. Lei ricorda a Valentina che esistono regole internazionali da questo punto di vista e che rispetto al passato i diritti delle persone trans sono stati finalmente affermati. Fino al 2003, infatti, non era nemmeno pensabile che una persona trans potesse gareggiare con il genere a cui si sentiva di appartenere. Poi un passo avanti è stato fatto con le prime linee guida, in vigore dal 2003 al 2015, secondo cui i requisiti erano: l’operazione per il cambio di sesso, il riconoscimento legale del proprio cambio di genere e almeno due anni di terapia ormonale. Dal 2015, invece (anche per andare incontro a quelle persone che vivono in Paesi dove il cambio di sesso non è consentito), l’unico requisito è dettato dal livello di testosterone nel sangue: 5 nanomoli. Un livello basso, rispetto al quale – tra l’altro – Valentina è ben sotto.

“Capii che era stato lo stesso CIO, il Comitato Olimpico Internazionale, ha indicare cosa potevo fare. Non ero un’eretica, chiedevo solo che le regole venissero applicate, anche se fossi stata la prima. E così, dopo qualche chiusura iniziale, il sogno si è avverato. La cosa più straordinaria, forse, è che sia successo proprio in Italia, un Paese dove su certe aperture non siamo certo all’avanguardia. Ma ben venga!”.

foto FISPES – Mantovani

Tuttavia, al di là di quello che le Federazioni hanno permesso, non tutti o tutte hanno accolto bene l’arrivo di Valentina nelle gare femminili. “Sui social – ci spiega – ho imparato a non leggere più i commenti. Solo il primo giorno in cui mi sono esposta come donna ho risposto a una persona che mi attaccava, ma poi, anche su consiglio dei miei collaboratori, ho deciso di lasciar perdere. Nel mondo reale, ho avuto un’ottima accoglienza nell’ambiente paralimpico, dove le persone sono più abituate ad avere a che fare con la diversità, e dove mi conoscevano già bene perché avevo vinto molto prima di iniziare la transizione. Nel mondo sportivo dei cosiddetti normodotati, invece, l’accoglienza non è stata calorosa. So che c’è chi si è lamentata della mia presenza e addirittura c’è chi ha detto che boicotterà eventuali gare a cui mi presenterò”.

Purtroppo lo sport è un ambiente molto sessista, dove – anche necessariamente – vige la divisione agonistica tra maschi e femmine. Ecco perché farsi accettare può essere ancora più dura che nella vita di tutti i giorni. Io stessa penso che delle perplessità siano legittime. Ma noi abbiamo il dovere di fare informazione. Ci sono stati studi di anni per arrivare a stilare le linee guida del CIO e io le sto semplicemente rispettando”.

Sulla storia di Valentina sta venendo prodotto anche un documentario 5 Nanomoli, prodotto da Ethnos e Gruppo Trans, in collaborazione con Uisp e Arcigay. “La visibilità che ho acquisito in seguito alla decisione che ho preso per la mia vita mi fa piacere, anche se ho sofferto molto negli ultimi mesi per l’invadenza e l’intromissione nella vita privata. Molte domande fuori luogo, molte morbosità che mi hanno infastidita. Io penso sempre alla mia amica, la campionessa paralimpica Martina Caironi: qualche giornalista farebbe mai a lei le stesse domande che pongono a me? Credo proprio di no… Eppure sono consapevole che tutto questo servirà. A me da giovane sono mancati gli esempi positivi. Se a 14 anni avessi visto in televisione una Valentina Petrillo che faceva sport, avrei pensato: caspita, ma allora è possibile! E non mi sarei stata nascosta per così tanto tempo. Non posso dire di avere avuto una brutta vita, anzi. Ma sicuramente non era la mia. Cresciamo in una società in cui non è possibile vedere altre strade che quelle imposte dai ruoli che ci pongono alla nascita. E se quei ruoli non li rispettiamo siamo fuori dai canoni, siamo persone sbagliate”.

Nel futuro c’è Tokyo, ma soprattutto un grande sogno: “Io vorrei che Valentina non fosse più il caso a cui guardare con curiosità, ma che dalla mia storia venisse fuori la normalità. Perché ogni persona che viene al mondo deve potersi esprimere e deve poter vivere per quella che è. E non dobbiamo rimanere in silenzio. Lo dico anche pensando a quanto sia stato simile il percorso che ho affrontato per accettare la mia disabilità, l’ipovedenza. Per anni ho parlato ai ragazzi dell’importanza di accettare e rispondere alla malattia, ora lo voglio fare per contribuire a rendere il nostro mondo più vero, sincero e libero. Solo così potrà essere un mondo più felice”.

Assunta Legnante

Nulla come lo sport ti fa crescere e conoscere le tue potenzialità

Se è vero che dopo la pioggia e la tempesta torna sempre il sereno, se è vero che anche nelle notti più buie arrivano le stelle a illuminare una porzione di cielo, è anche vero che ci sono luoghi – e persone – in cui la luce non manca mai. Anzi, la si vede brillare a distanza. E quella luce non fa che trasmettere calore. Assunta Legnante è un’icona dello sport azzurro. Tra le migliori interpreti del getto del peso a livello internazionale per tante stagioni, un oro e un argento europei, un oro e un argento ai Giochi del Mediterraneo, una decina di anni fa ha dovuto fare i conti con un problema che si portava dietro dalla nascita, un glaucoma che l’ha condotta alla cecità totale. Ed è così che un giorno è arrivato il buio? No, perché Assunta è una di quelle persone in cui la luce non si spegne, anzi brilla di continuo, e che ha proseguito sulla sua strada affrontando la realtà, senza rimorsi, e con un sogno che l’ha guidata oltre il limite. Oggi è due volte campionessa paralimpica, primatista e pluricampionessa mondiale, capitana delle spedizioni azzurre, amatissima dai fan sul campo e sui social. Un esempio per tutto il mondo dello sport italiano, ma non solo.

di Ilaria Leccardi

Partiamo guardando al passato. Com’è nato in Assunta Legnante l’amore per l’atletica e una disciplina così particolare come il getto del peso?

All’atletica mi sono avvicinata 15enne, a scuola, grazie ai vecchi Giochi della Gioventù, un bellissimo veicolo per avvicinare i ragazzi al mondo sportivo. Fino ad allora praticavo la pallavolo: ero già molto alta, avevo un bel futuro davanti, ma nella mia zona, Napoli, non c’erano squadre di buon livello che mi potessero offrire un futuro brillante. A scuola iniziai a sperimentare diverse discipline, corsa, salti, fino a quando mi misero in mano un peso e i professori notarono che ero portata. Nel giro di poco tempo feci molti progressi e trovai una società di Napoli dove allenarmi in maniera continuativa. L’atletica mi aveva aperto le porte di un futuro straordinario.

Forza, esplosività. Tu sei alta quasi un metro e 90 e hai una notevole potenza fisica. Ma il getto del peso prevede soprattutto una grande tecnica…

La maggior parte delle persone pensa che la mia disciplina si riduca al prendere in mano una palla di ferro e lanciarla più forte possibile. Ma non è così, è tutto un equilibrio di forza, velocità, agilità, si lancia molto anche di gambe, serve tecnica. Un errore nel gesto può portarti a perdere mezzo metro sulla lunghezza del lancio.

Assunta Legnante doppio oro ai Mondiali di Dubai 2019 – foto Marco Mantovani/FISPES

Questione di attimi e concentrazione. E poi quell’urlo una volta che il peso si stacca dalla mano. Lo capisci subito quando un lancio è andato bene?

Io sì… L’urlo del lancio ha due sensi. Il primo è liberatorio, perché il gesto lo si compie in apnea, senza respirare, quindi liberi l’aria appena finisci. L’altro è perché quando ti rendi conto che il lancio è uscito bene e hai sentito tutte le sensazioni buone, esplodi di gioia.

La tua carriera è stata fin da subito un crescendo. Medaglie, record italiani, Giochi Olimpici. Poi cos’è successo?

Ho gareggiato per tanti anni con i normodotati, ho vinto medaglie agli Europei indoor, ai Giochi del Mediterraneo, ho avuto una carriera importante. Ma il sogno è sempre stato quello Olimpico. Nel 2004, nonostante avessi strappato il pass per Atene, il medico oculista del CONI mi fermò a causa di un problema oculare congenito, per cui – mi disse – rischiavo di rimanere cieca. Quattro anni dopo, però, fui io a non volermi fermare. Sapevo che il problema persisteva e continuare a quei livelli avrebbe comportato un rischio ancora maggiore. Ma decisi di affrontarlo, pur di vivere l’esperienza a cinque cerchi. Diciamo che sono andata incontro al buio di mia spontanea volontà. Volevo arrivare a quella gara, altrimenti non mi sarei sentita un’atleta realizzata. Ci sono riuscita e dopo due anni ho smesso, perché poi la malattia si è fatta sentire concretamente. Nel 2009 ho affrontato il mio ultimo anno da atleta normodotata, vincendo l’altro l’argento ai Giochi del Mediterraneo di Pescara, e il campo visivo iniziava a restringersi, me ne accorgevo nelle cose di tutti i giorni. Anche quando dovevo riprendere il peso dopo il lancio, facevo fatica a trovare l’attrezzo. Poi i problemi sono aumentati. Mi è caduta la retina, ho affrontato visite e interventi e con il passare del tempo la vista si è spenta.

Come hai vissuto questa situazione?

In realtà devo ancora realizzare, anche se sono passati diversi anni. Non ne ho avuto il tempo. Ho avuto la certezza di essere diventata cieca totale a marzo 2012. Ma dopo appena un mese ci fu chi nell’ambiente dell’atletica mi propose: Assunta, cosa ne dici di partecipare alle Paralimpiadi di Londra? E io: Siete pazzi? Non conoscevo nulla del mondo paralimpico e per me era impossibile immaginare che una persona non vedente potesse partecipare a una gara di getto del peso. Conoscevo i casi di persone amputate che correvano, o di chi si faceva accompagnare dalla guida, ma poco di più. Allora ne parlai con Nadia Checchini, tecnica che ancora oggi mi fa da guida in Nazionale, le feci una domanda per avere le prime informazioni. E poi, la mia seconda domanda è stata: quant’è il record del mondo? Un mese dopo, il 13 maggio, ho disputato la mia prima gara paralimpica a Torino, il campionato italiano, con l’obiettivo di realizzare la misura per ottenere il pass per Londra: feci 13,22 metri, pass e record del mondo superato di oltre 2 metri. Da allora non ho fatto altro che continuare ad allenarmi. Purtroppo quell’anno, a giugno, mancò mia madre, e poi poco dopo partii per le Paralimpiadi… E fu subito oro. La mia vita non si è mai fermata.

Cosa è cambiato dal punto di vista sportivo e delle sensazioni in pedana di gara?

Per me nulla, se non nel momento in cui mi accompagnano in pedana. Il momento del lancio è pura concentrazione. Sono sola con me stessa e le mie sensazioni.

E nella vita di tutti i giorni?

Sono sempre stata abituata a essere autonoma. Andai via di casa a 18 anni, trasferendomi ad Ascoli Piceno per allenarmi, subito dopo il diploma. Ho viaggiato tanto grazie all’atletica, ho conosciuto l’Italia e il mondo. E ho voluto anche in questa situazione mantenere la mia autonomia. Certo, però, ci sono cose che da sola non riesco più a fare come prima: la spesa da sola, una passeggiata. E allora sapete cosa faccio?

Uso la scusa di non avere né un bastone né un cane guida per coinvolgere altre persone, per creare momenti di socialità, per portare coloro che la vista ce l’hanno a vivere la mia vita, a comprendere le difficoltà di una persona non vedente.

Hai quasi 42 anni, hai ancora voglia di allenarti e puntare in alto?

Il mio obiettivo immediato ora è Tokyo 2020. Le difficoltà della vita agonistica di alto livello ci sono, l’età avanza, i dolori aumentano. Lo sport fa bene, ma quando si gareggia ad alti livelli per anni, allenandosi 12 o 13 volte a settimana, i problemini emergono per forza, la schiena, le articolazioni. Il sogno? Diciamo che nella mia vita non sono mai stata in America… e festeggiare i 50 anni a Los Angeles 2028 potrebbe essere un bel traguardo ambizioso, ma non impossibile. Fino a quando arrivi sul gradino più alto del podio gli stimoli ci sono.

Quanto è aumentata in questi anni l’attenzione al mondo paralimpico?

L’attenzione c’è quando arrivano le medaglie. I tifosi si riconoscono nei propri campioni, ne condividono la storia, i successi fanno appassionare tante persone. E il movimento italiano paralimpico è molto cresciuto, cercando di avvicinarsi sempre di più allo sport olimpico, con una maggiore professionalità e ciclicità negli allenamenti.

Tu però non ti accontenti mai e sei tornata anche a gareggiare nel circuito non paralimpico.

Sì, ogni anno faccio le mie due o tre gare con le normodotate e le mie soddisfazioni me le tolgo… E poi ho allargato un po’ le attività in ambito paralimpico. Dal 2012 gareggio anche nel lancio del disco, benché rispetto al peso sia una disciplina differente. Per me ormai lanciare il peso è un gesto meccanico, per cui il mio cervello ha un automatismo assodato. Imparare a lanciare il disco non vedendo è stato molto difficile.

Eppure anche qui ti sei tolta delle soddisfazioni perché agli ultimi Mondiali di Dubai oltre all’oro nel peso è arrivato quello nel lancio del disco con record europeo. Con una mascherina particolare…

Sì, dopo aver usato per un periodo la mascherina di Diabolik, ho deciso di far scegliere sui social ai miei tifosi la nuova mascherina per i Mondiali… E loro hanno scelto quella dell’Uomo Tigre!

Questa è l’anima buona dei social. Se spesso rischiano di diventare terreno di astio e aggressività, possono anche essere un veicolo positivo di coinvolgimento.

Assolutamente sì. Io con i social ho un ottimo rapporto. Non sono una fissata, ma gestisco il mio profilo e ho una grande risposta dai miei fan che cerco di coinvolgere il più possibile. Per una persona che mi segue vedermi vincere due medaglie mondiali indossando una mascherina che lei stessa ha contribuito a scegliere penso sia una bella soddisfazione. È un modo per sentirsi vicini, fare parte di una comunità, contribuire con un piccolo gesto di sostegno a un successo sportivo in cui tutti si possono riconoscere.

Hai mai vissuto invece episodi spiacevoli?

In realtà no, né sui social né quando ero ragazzina e – lo dico ora con certezza – per fortuna allora Facebook e i telefonini ancora non c’erano. Sono sempre stata una ragazza isolata, un po’ sulle mie. Ed è grazie allo sport che sono fiorita e ho imparato ad aprirmi.

Cosa può insegnare lo sport da questo punto di vista?

Io consiglio a tutti i ragazzi di fare attività sportiva, non per puntare a una vittoria o a una medaglia, perché lo sport ti fa crescere. Io quando ero piccola avevo vergogna di tutto, vivevo le interrogazioni tremando, non avevo sicurezza in me stessa.

Lo sport ti permette di conoscere gli altri e confrontarti con loro, con il mondo, sentire gli accenti delle diverse regioni italiane. Se ti va bene inizi a viaggiare e spostarti, entri in contatto con qualcosa al di fuori della tua stretta cerchia. E questo ti aiuta a rafforzare la tua autostima, ti fa riconoscere nell’altro. Ti dà la possibilità di conoscere i tuoi mezzi e le tue potenzialità, di metterle in marcia. E se non stiamo bene con noi stessi non possiamo pensare di stare bene con gli altri.

Se dovesse leggere questa intervista un ragazzo e una ragazza che ha subito episodi di bullismo, che consiglio daresti?

Prima di tutto di non restare in silenzio e, se ci riesce, di parlarne con i genitori, con i professori se la cosa è successa a scuola, o anche solo con un amico. La forza va trovata in sé, ma anche nell’aiuto degli altri. La cattiverie vanno fatte scivolare addosso anche se, il più delle volte, non è semplice. Purtroppo chi commette atti di bullismo è perché spesso si porta dietro qualche ferita che poi riversa sugli altri. Dovremmo tutti tornare a parlarci, trovare un equilibrio nelle nostre capacità e cercare di inseguire i nostri sogni.