Tommaso Stella e l’impegno con Mediterranea

In barca a vela si abbatte ogni privilegio

“La barca a vela è un laboratorio straordinario, in cui tutti sono chiamati a cooperare e a fare la propria parte. Dove le risorse sono limitate e bisogna utilizzarle con consapevolezza, dove il comportamento di ciascuno ricade sul benessere di tutti. Dove non ci sono privilegi e nessuno è lasciato indietro. E se si trova una persona in mare, l’obbligo è salvarla”. Tommaso Stella conosce il mare e le sue leggi. Velista di lungo corso, tante avventure al fianco di Giovanni Soldini, lo scorso anno si è unito a Mediterranea, diventando il comandante della nave Alex. Era lui il responsabile del veliero quando questo venne sequestrato nel luglio 2019 dopo il salvataggio di 59 persone dalle acque del Mare Nostrum. La sua storia racconta come una competenza sportiva, quella così particolare del velista, possa mettersi al servizio di una causa più grande. Una competenza accompagnata dalla consapevolezza di non potersi girare dall’altra parte quando si parla di vita e diritti umani.

di Ilaria Leccardi

Partiamo dal tuo rapporto con il mare. Nasci in città, come e quando prende vita l’amore per la vela?

Sono di Milano e qui il mare non c’è. Quando ero piccolo mio padre aveva fatto alcuni esperimenti. Modellini a parte, aveva armato un canotto con attrezzatura di legno e vele ricavate da vecchie lenzuola, da provare all’Idroscalo. Quei modellini e quella specie di zattera sono stati i miei primi contatti con qualcosa di simile a una barca. Qualche anno dopo, alle scuole medie, mia madre veniva spesso convocata dal preside perché – dicevano – ero un ragazzino turbolento. E proprio il preside era istruttore in una scuola di vela che proponeva attività nelle case di vacanza estive del comune di Milano. Suggerì a mia madre di spedirmi da loro in estate perché “mi avrebbe fatto bene…”. È iniziata così, all’età di 11 anni, e non ho ancora smesso.

Che mondo è quello della vela?

Purtroppo in Italia è una passione costosa, la barca è uno status symbol. In altri posti, come in Francia, no. Lì i ragazzi fin dalle scuole primarie hanno molte occasioni per praticare questo sport senza che i genitori siano benestanti o ipotechino la casa. Per continuare la mia passione, durante le vacanze ho iniziato a fare l’aiuto istruttore e poi l’istruttore nella mia prima scuola, Utopia.

E poi cosa è successo?

Dopo quasi nove anni di attività il rischio sarebbe stato “sentirsi bravo”, ma anche sedersi. Quindi, dopo dieci mesi di servizio civile, ho indossato nuovamente le vesti dell’allievo e mi sono imbarcato per la prima traversata oceanica, alla scoperta di altre barche, altri mari, altri luoghi e altre genti. Sono partito nell’ottobre 1997 dal Mediterraneo diretto alle Antille via Canarie, per sbarcare nell’aprile 1998 a Barcellona. Avevo capito che quella vita mi piaceva, che avevo tanto da imparare e tantissimo da scoprire.

E presto è arrivato un incontro importante.

Pochi mesi dopo ho conosciuto Giovanni Soldini, reduce dal suo vittorioso giro del mondo, nonché dal salvataggio nei mari del sud di una concorrente, Isabelle Autissier. Giovanni stava per lanciare la costruzione di una nuova barca, un trimarano, una “astronave” di 18 metri in grado di navigare più veloce del vento. Serviva gente. A livello umano ci siamo trovati subito e, anche se non avevo esperienza di cantiere, mi ha tirato in mezzo: “Quando c’è feeling, tutto il resto si impara… il contrario è più difficile!”. Gli anni tra il 2000 e il 2005 sono stati intensi, non li scorderò mai. Eravamo un gruppo di cinque persone che si occupavano di tutto: manutenzioni e modifiche alla barca, trasferimenti e regate in equipaggio.

Cosa ti ha trasmesso Soldini?

È stato un punto di riferimento, lo considero il più forte navigatore solitario italiano di sempre. Da lui non ho imparato solo dal punto di vista tecnico, ma mi è rimasta la straordinaria abilità di superare ostacoli e imprevisti, a terra come in mare, senza perdersi d’animo. E poi la capacità di sdrammatizzare con una risata le situazioni più difficili, spiazzando anche la paura. In mare con lui si sta davvero bene.

E lui di situazioni drammatiche ne ha vissute…

Sì, soprattutto nel 2005, durante la Rotta del Caffè, una regata in doppio da Le Havre (Francia) a Salvador de Bahia, che correva con l’amico di sempre Vittorio Malingri. Il trimarano si ribaltò al largo del Senegal, i due furono salvati da una petroliera diretta a Houston che non poteva entrare in porto per le sue dimensioni e, a decine di miglia dalla costa, venne svuotata da tanker più piccoli. Ma i due naufraghi, pur avendo in tasca carte di credito, passaporti e visti per gli Usa, ci misero giorni per convincere uno dei comandanti dei tanker a portarli sulla terraferma: nessuno voleva assumersi la responsabilità di farli sbarcare. Già allora, nonostante il passaporto “giusto” (quello dei ricchi occidentali), il diritto del mare, per cui chi è in pericolo va aiutato, veniva messo in discussione.

Anche tu hai vissuto situazioni difficili?

L’unica volta in cui ho davvero rischiato la pelle è stato paradossalmente a pochi metri da una spiaggia dell’Elba, quando mi sono rovesciato con un amico mentre navigavamo su una deriva e sono rimasto incastrato sotto lo scafo.

Torniamo al mare aperto. Può fare paura, soprattutto se non lo conosci. Cosa vuol dire passarci una notte?

È un ambiente ostile per gli umani. Per sopravvivere in mare abbiamo bisogno di un mezzo che ci ospiti e protegga. Se ci troviamo su una barca affidabile, sappiamo utilizzarla, la situazione meteorologica è buona e conosciamo la nostra posizione, siamo più al sicuro di quando siamo al volante di un auto. Con questi presupposti una notte in navigazione può essere magica: lontani da terra, sconnessi, senza le luci e rumori della cosiddetta civiltà, respiriamo aria pulita, ci muoviamo spinti dal vento sotto un cielo stellato. Ma non siamo nemmeno animali notturni. Risolvere un problema al buio è più difficile, per questo la notte, in mare, se viene a mancare uno dei punti elencati sopra, può fare paura. La paura è negativa? No, ci fa alzare le antenne e ci permette di reagire di fronte a una situazione di potenziale o reale pericolo.

La paura può diventare anche un elemento che, invece di paralizzare, spinge a muoversi…

Faccio l’esempio delle persone che scappano dalla Libia. Si trovano in una situazione che terrorizzerebbe chiunque: non sanno fino all’ultimo quando potranno partire, non sanno che tempo farà, la maggior parte di loro non ha mai visto il mare, quasi nessuno sa nuotare, non hanno la minima esperienza di navigazione, non conoscono il gommone o la barca su cui saliranno (spesso in pessimo stato e sovraccarichi), non sanno dove andranno, non sanno quanto durerà il viaggio. Solo i primi coraggiosi navigatori della storia si sono trovati in condizioni simili… Ma loro vengono anche da situazioni terribili che lasciano pesanti segni psicologici e fisici. Eppure su quei gommoni ci salgono, perché il terrore che si portano alle spalle è ancora peggiore.

Coloro che intraprendono questi viaggi assurdi, durissimi e pericolosi che a volte durano anni, credo siano tra le più coraggiose e forti che abbia mai conosciuto.

Veniamo appunto al tuo impegno con Mediterranea. Avevi già avuto modo di dedicarti al sociale, com’è nato il contatto?

Sono sempre stato sensibile a certi temi. In passato avevo già unito l’interesse per il sociale alla vela, partecipando alla campagna di Goletta verde, oppure portando persone non vedenti o ragazzi di case famiglie in barca. Negli ultimi anni ho guardato con orrore a quello che succedeva nel Mediterraneo centrale. Quando nell’agosto 2018 l’Italia e i governi europei hanno bloccato le navi umanitarie, rendendo il mare davanti alla Libia un deserto senza testimoni oltre che a un cimitero, un gruppo eterogeneo di persone ha deciso che non poteva più stare a guardare. Un amico mi ha chiesto se ero interessato al progetto e ho subito detto sì. Inizialmente, la risposta dei fondatori è stato il classico: “Le faremo sapere”. La nave operativa è un rimorchiatore e io non ho i titoli per comandarla. Poi però si è capito che serviva anche una barca appoggio in grado di ospitare una parte dell’equipaggio operativo, una barca a vela, e quindi mi hanno ricontattato.

Quella barca era la Alex, su cui hai condotto alcune missioni, fino a quella che, a luglio 2019, ti ha permesso di salvare tante persone, ma ti è anche costata un’indagine della magistratura.

Era la mia terza missione come comandante della Alex, con un equipaggio fantastico. La Mare Jonio era sequestrata da mesi e abbiamo deciso di uscire con la Alex per una missione di monitoraggio e denuncia, consci che con una barca a vela non saremmo stati in grado di fare salvataggi. L’idea era che, se ci fossimo imbattuti in un’imbarcazione in difficoltà, avremmo stabilizzato la situazione con salvagenti e zattere e chiamato soccorso, per far intervenire la guardia costiera italiana. Ma quando è davvero successo, le autorità italiane ci hanno risposto che avevano già avvertito la cosiddetta guardia costiera libica, che sappiamo essere collusa con i trafficanti di esseri umani.

Oltre al pericolo concreto di un naufragio da un momento all’altro, ci trovavamo di fronte alla possibilità che quelle persone venissero riportate in Libia. Non potevamo abbandonare quei 59 esseri umani, né al rischio di annegare né che finissero in mano ai miliziani e così li abbiamo imbarcate tutti.

Dopo essere stati inseguiti e raggiunti dai libici, che fortunatamente ci hanno lasciato andare, e con le autorità italiane che hanno cercato di metterci in difficoltà, abbiamo fatto l’unica cosa possibile: ci siamo diretti verso il porto sicuro più vicino, Lampedusa.

E lì siete stati bloccati…

Arrivati a 12 miglia dall’isola, le motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza ci hanno notificato il decreto sicurezza impedendoci l’ingresso nelle acque territoriali. Siamo stati in vista di Lampedusa per due giorni caldissimi, faticosi e inutili, facendo di tutto per sbloccare diplomaticamente la situazione fino a che, dopo aver finito l’acqua, abbiamo deciso di forzare il blocco e siamo entrati in porto. Una volta ormeggiati non è finita: per tutto il pomeriggio e fino a tarda notte siamo stati sequestrati in barca, nessuno poteva scendere né salire. La situazione si è sbloccata quando la procura di Agrigento ha sequestrato la Alex: i naufraghi sono potuti scendere, cambiarsi i vestiti bagnati e sporchi di benzina, e ricevere le prime cure. Io sono stato indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza a nave da guerra, con pene previste fino a 15 anni. Dopodiché mi hanno sospeso la patente nautica per sei mesi. Tutto questo per aver salvato 59 esseri umani dal probabile annegamento e per non aver permesso che tornassero nei lager libici.

Quali sono stati i tuoi timori in quella situazione?

Primo di non riuscire a salvare tutte quelle persone. Se fossero arrivati i libici durante il trasbordo dei naufraghi poteva verificarsi un disastro: chi scappa dalla Libia è così terrorizzato dall’idea di essere riportato in quell’inferno che preferisce buttarsi in acqua. E poi a Lampedusa, quando ho capito che eravamo tutti in salvo, mi sono preoccupato per ciò che mi aspettava personalmente. Il governo continuava nella linea di criminalizzazione del soccorso in mare e io, in quanto comandante, ero il bersaglio più esposto. Ma mai, nemmeno per un momento, ho dubitato delle mie decisioni né della convinzione di essere dalla parte giusta, moralmente e legalmente.

La convivenza di tante persone su una nave come la Alex non dev’essere stata semplice.

Considerando il sovraffollamento, è comunque andata bene: equipaggio e naufraghi hanno collaborato nonostante le difficoltà di condividere uno spazio insufficiente. Ognuno ha fatto la sua parte con incredibile armonia.

C’è molto di surreale in tutta questa situazione.

Sì, ricordo soprattutto i marinai sulle motovedette preposte a impedire il nostro ingresso nelle acque territoriali che erano evidentemente imbarazzati nell’eseguire quegli ordini assurdi: “Anche noi salviamo” ci ripetevano, “Non siamo noi i cattivi”, qualcuno si è commosso quando ha guardato negli occhi i nostri “passeggeri”. È surreale che in pochi mesi si sia passati da Mare Nostrum che ha salvato 150.000 persone in un anno tra il 2013 e il 2014, dagli anni in cui Guardia Costiera e navi umanitarie cooperavano per un obiettivo comune, a un situazione in cui gli esseri umani sono considerati rifiuti tossici indesiderati in nome di una propaganda e di una politica tanto disumana quanto miope. È assurdo che ci siano ormai solo volontari e navi umanitarie a provare ad arginare una situazione così grave.

E la situazione non sembra migliorare negli ultimi mesi.

Da Grecia e Turchia arrivano notizie che ricordano tempi che non avremmo mai voluto rivivere: la Turchia usa i profughi come bomba umana in un infame ricatto con l’Europa. Forze armate greche ed europee che, invece di aiutare i profughi in fuga dalla Turchia, cercano di affondare i gommoni, sparano, bastonano, respingono… Migliaia di persone, bambini donne e uomini, che non vuole più nessuno e che non hanno più un posto dove andare: respinti dall’Europa, buttati fuori dalla Turchia… Non possono nemmeno tornare sotto le bombe in Siria.

Cosa può insegnare uno sport come la vela, che ti ha dato competenze che poi hai rimesso in gioco per il motivo più nobile, salvare vite umane?

La barca a vela è un laboratorio unico. I componenti dell’equipaggio devono convivere in pochi metri quadrati rispettando lo spazio altrui. Tutti sono chiamati a cooperare nei diversi compiti che vanno dalla conduzione della barca, alla cucina, fino alle manutenzioni quotidiane. Molte manovre richiedono l’intervento di tutti: se qualcuno non facesse la sua parte non si andrebbe lontano.

A bordo bisogna prestare attenzione all’uso delle risorse. Tutto dev’essere razionale e sostenibile. Se qualcuno pretendesse di non partecipare ai turni, di farsi dieci docce al giorno e di mangiare più degli altri, sarebbe ripreso dalla “comunità” per il suo comportamento che avrebbe immediate conseguenze per il benessere e la sicurezza di tutti: in mare non c’è spazio per i privilegi. E poi, è la natura ad avere l’ultima parola: è con lei, indifferente, che dobbiamo confrontarci per cercare di prendere le decisioni giuste e, quando sbagli, il conto te lo presenta subito.

Riflessioni che ben si sposano al periodo storico che stiamo affrontando.

È un po’ quel che diceva Luca Parmitano, il comandante della Stazione Spaziale Internazionale. Perché cos’altro è la Terra se non una grande nave dalle risorse limitate, in viaggio per la nostra galassia alla straordinaria velocità di 792.000km/h, che ospita un equipaggio umano di 7.000.000.000 di persone? Una grande nave in cui qualcuno non sta facendo la sua parte, in cui una minoranza rivendica il “diritto” di mangiare più degli altri e dove troppi consumano e sprecano a livelli non sostenibili le risorse disponibili. Una nave che sta lanciando segnali chiari a un equipaggio che ancora non li prende seriamente.

Parmitano aggiunge che vista da lassù, questa sfera azzurra che non ha traccia di confini, la nostra casa comune, è uno spettacolo straordinario.

Proprio in queste settimane siamo nel pieno dell’emergenza Coronavirus. Una situazione che ci dimostra che i confini non esistono. Per il virus siamo tutti uguali e dovremmo approfittare di questa situazione per inventarci un nuovo modo di stare insieme. Dobbiamo tutti capire che, come in una barca nella burrasca, su questa Terra ci si salva o si affonda tutti insieme.