Riccardo Cucchi: lo sport in voce

“Lo sport non può cambiare il mondo, ma può contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato”. Parola di Riccardo Cucchi, una delle più note voci dello sport italiano: otto Olimpiadi, sette Mondiali di Calcio, tra cui quello vinto dall’Italia in Germania nel 2006, oltre 500 partite raccontate in radiocronaca. Giornalista Rai per quasi 40 anni, nome storico di Tutto il Calcio minuto per minuto, oggi Cucchi è impegnato anche sulla tutela del diritti, grazie a una collaborazione con Amnesty Italia. Lo abbiamo intervistato per dare il via alla seconda edizione di Odiare non è uno sport, affidandoci alle sue parole e alla sua storia di grande narratore di sport, ma – oggi – anche di quotidiano fruitore di social network. 

Di Ilaria Leccardi

Un percorso giornalistico vissuto narrando lo sport con la sola voce. Com’è nata la passione per la Radio e come è riuscito a trasformarla in un lavoro?

Appartengo alla generazione dei nativi radiofonici, una definizione che mi piace usare simpaticamente in contrasto con “nativi digitali”. Era una generazione che ha potuto appassionarsi al calcio esclusivamente grazie alla radio, l’unico mezzo per sapere cosa avveniva sui campi di calcio in diretta. Sono cresciuto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto, con le voci di Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali e poi Claudio Ferretti. È stato inevitabile innamorarmi di quel modo di raccontare il calcio e di quelle voci che hanno scritto la storia. Fin da piccolo sognavo di fare questo mestiere e poi la passione si è ampliata quando finalmente sono riuscito a entrare allo stadio per seguire la mia squadra del cuore. Nel 1979 vinsi il concorso in Rai ed entrai a far parte di un gruppo di giornalisti che l’azienda decise di preparare al microfono: frequentai corsi di formazione che mi consentirono di esordire in un gruppo di straordinari maestri, imparando accanto a loro, fino a riuscire a prenderne il testimone. Ho vissuto un sogno e sono stato un privilegiato. Ho messo insieme due passioni, trasformandole in lavoro.

Radio mezzo di comunicazione magico. Media che ha saputo sopravvivere al passare del tempo e ad alcuni passaggi storici epocali, l’arrivo dei social network, l’avvento della PayTv, la crisi della carta stampata. Qual è il segreto di questa longevità?

I radiocronisti di oggi usano gli stessi strumenti che usava il loro progenitore, Nicolò Carosio, il primo a raccontare il calcio in radio, negli anni Trenta. Per fare il nostro mestiere servono un microfono, un cronometro, un blocco d’appunti e un binocolo, perché non sempre è possibile avere un monitor anche oggi negli stadi. E soprattutto servono gli occhi per poter vedere. Gli occhi del radiocronista sono le telecamere che vengono usate in tv, con la differenza che la libertà di espressione del radiocronista è direttamente collegata alla sua capacità di sollevare gli occhi dal campo per vedere cosa succedere intorno. E ovviamente alla sua capacità di entrare nell’evento che sta raccontando, sempre consapevole del fatto che chi ascolta non vede.

Riccardo Cucchi, per 35 anni voce di Tutto il Calcio minuto per minuto

Quali sono gli elementi chiave per una buona radiocronaca calcistica?

In passato come oggi, prima di tutto i tempi: nel calcio è molto importante misurare le parole e metterle in rapporto con la velocità del pallone. Mai una di troppo, perché altrimenti il pallone va troppo avanti rispetto al racconto, mai una di meno, perché altrimenti si è in ritardo rispetto al movimento del pallone. E poi la cura della voce. Ai nostri tempi la Rai investiva molto nella preparazione al microfono: l’uso della respirazione, il diaframma, la dizione. Prima di andare al microfono eravamo formati anche in recitazione, basti dire che il mio maestro è stato Arnoldo Foa. Il radiocronista bravo è colui che sa raccontare ciò che vede con terzietà e partecipazione. Se si emoziona davvero e sinceramente, saprà emozionare anche chi ascolta.

È un errore pensare che la radio non abbia immagini: le immagini sono quelle che la voce del radiocronista riesce a costruire nella mente di chi ascolta. Ed è questo il segreto del suo successo ancora oggi.

Ma serve anche molta capacità di far fronte agli imprevisti

Mi è successo più volte di dover staccare gli occhi dal campo e raccontare altro, a volte cronaca nera, episodi violenti. Bisogna aver la capacità di dare notizia di tutto ciò che avviene sotto i nostri occhi, ed è una delle ragioni per cui ho amato la radio fin da piccolo, la convinzione che la voce e la narrazione fossero uno strumento per aprire finestre a vantaggio di chi non poteva farlo.

Se dovesse selezionare l’episodio più emozionante tra i tantissimi che ha raccontato, quale sceglierebbe?

Ne sceglierei due. Per il calcio, sicuramente la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006, in Germania. Ho potuto gridare ai microfoni “Campioni del Mondo”, un privilegio che prima di me hanno avuto soltanto due grandi: Nicolò Carosio per due volte, nel 1934 e nel 1938, ed Enrico Ameri nel 1982. E poi la vittoria di Gelindo Bordin nella maratona olimpica a Seul 1988, la mia seconda edizione dei Giochi seguita come giornalista. Bordin entrò da solo nello stadio olimpico dopo una grande rimonta, una vittoria che arrivava a ottant’anni dalla drammatica vicenda di Dorando Pietri, il maratoneta italiano squalificato dopo aver dominato la gara ai Giochi del 1908, perché, stremato, fu sostenuto sul traguardo dai giudici e relegato per questo in fondo alla classifica. Ottant’anni dopo un altro italiano entrava in testa nello Stadio Olimpico e riscattava quella straordinaria storia di epicità sportiva.  

Veniamo ad oggi. Lei da sempre ha dimostrato grande attenzione al tema dei diritti e da alcuni anni presiede la giuria del Premio Sport e Diritti umani promosso da Amnesty Italia e Sport4Society. Quanto è importante valorizzare queste tematiche in relazione allo sport? 

Ho sempre ritenuto importante che lo sport sia in grado inviare messaggi e che non debba mai dimenticare i valori fondanti che ha hanno contribuito al suo sviluppo. Lo sport vive in ogni angolo del pianeta, ha un grande impatto nei confronti dell’opinione pubblica, ma a volte questo potenziale e questa forza comunicativa non vengono indirizzate nella direzione giusta. Ogni protagonista dello sport, dall’atleta al narratore, deve essere consapevole dell’importanza delle proprie parole e dei propri gesti, per favorire la divulgazione di messaggi. Penso che lo sport non possa di per sé cambiare il mondo, ma possa contribuire a far capire che il mondo può essere cambiato. La mia collaborazione con Amnesty nasce da questa consapevolezza. Ne avevo sempre seguito l’impegno, le battaglie e i valori, e così una volta in pensione ho pensato di poter dare un mio contributo. Sono presidente della giuria del Premio Sport e Diritti Umani da tre anni.

Chi sono i premiati di quest’anno?

Abbiamo scelto Gary Lineker, grande attaccante inglese, che ha saputo esprimere opinioni importanti a favore dei migranti, di fronte a una politica inglese molto restrittiva, rischiando di essere cacciato dalla BBC dove lavora come commentatore. Uno sportivo straordinario che in oltre 500 partite giocate, non ha mai ricevuto un cartellino giallo né rosso. E poi Natali Shaheen, calciatrice palestinese, molto coraggiosa a promuovere il calcio nel suo contesto di provenienza, dove le donne che fanno sport sono viste con grande criticità e dove forti sono gli effetti dell’occupazione israeliana. Prima è stata capitana della sua Nazionale, poi è stata la prima palestinese a venire a giocare in Europa, in particolare in Italia, in Sardegna, e anche qui sta portando avanti grandi battaglie per la promozione del calcio femminile.     

Lo sport nel corso della storia è stato protagonista e veicolo di analisi, denunce, rivendicazioni politiche e sociali. Pensiamo a Messico ‘68 ovviamente, con il pugno chiuso degli atleti Neri sul podio della 200 metri, ma anche più di recente alla protesta in ginocchio di Colin Kaepernick nel football americano, o la voce anti Trump della capitana della squadra di calcio statunitense Megan Rapinoe. Eppure, poi ci troviamo ad assistere a un Mondiale di calcio in uno dei Paesi dove meno vengono rispettati i diritti umani, come il Qatar. Vede una maggiore consapevolezza negli sportivi oggi?

La consapevolezza sta crescendo nelle ultime generazioni di calciatori. Non è facile per loro parlare, a volte sono costretti al silenzio. Pensiamo al Mondiale in Qatar, dove un giocatore della Germania voleva scendere in campo con una fascia arcobaleno in difesa dei diritti LGBT, ma è stato censurato dagli organizzatori. In risposta la squadra ha posato per una delle foto prepartita con la mano davanti alla bocca, uno scatto che ha fatto il giro del mondo. Quella foto denuncia la censura del mondo del calcio. Con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro Qatar 2022. I Mondiali dello sfruttamento, ho girato l’Italia per spiegare perché tenere i Mondiali in Qatar era sbagliato. Poi ci sono anche figure che non hanno paura di esporsi, pensiamo a Claudio Marchisio che si è sempre battuto per i diritti degli ultimi, anche attraverso i suoi canali social, dove ha raccolto non pochi attacchi per le sue posizioni.

Una volta terminata la carriera in Rai, lei ha deciso di rivelare quale fosse la sua squadra del cuore, la Lazio. Ha suscitato dissapori?

In realtà le principali reazioni sono state di sorpresa, perché nella mia lunga carriera tutti mi avevano attribuito altre fedi sportive, ma pochi pensavano fossi laziale. E questo mi ha fatto piacere, vuol dire che ho saputo celare la mia passione. Ed è un valore che nel mio mestiere si sta un po’ perdendo. Credo che sia ancora valida la definizione di Enzo Biagi: il giornalista è un testimone della realtà, deve essere attendibile, suscitare la fiducia dei lettori e degli ascoltatori. Su questo elemento la nostra categoria deve riflettere molto.

Che rapporto ha con i social network? I suoi profili sono molto seguiti

Sono un grande fruitore di social, mi diverto a utilizzarli, soprattutto ora che ho smesso di lavorare. Nei miei ultimi dieci anni in Rai sono stato responsabile dello sport in radio e ho dovuto occuparmi dei social, pur non avendo la formazione adatta. Questo mi ha portato a conoscere meglio il mezzo. Della televisione il filosofo Karl Popper scriveva: in sé non è né buona né cattiva, dipende da come la si usa. Penso che questo si possa ben applicare ai social che sono un grande strumento di comunicazione, ma possono diventare strumento di odio e di assalti nei confronti di chi esprime le proprie opinioni.

La sua posizione sembra molto chiara. Dal suo profilo Twitter leggiamo: “Migliaia di radiocronache e tre libri. Senza mai fare a meno di Puccini e di Wagner. Parlo di partite, non di episodi arbitrali. E di vita. Blocco i maleducati”.

Twitter mi piace molto perché consente una dinamica molto diretta con tutti. È uno strumento che mi ha permesso di raggiungere migliaia di persone anche lontane, di stringere amicizie virtuali o reali con personaggi che non avrei mai potuto incontrare. È una grande opportunità di incontro e scambio, ma purtroppo anche di odio. Succede anche a me di essere colpito da attacchi, soprattutto quando esprimo opinioni, sportive, culturali e politiche. Cerco di rispondere sempre, in alcuni casi funziona e in altri meno, quindi si deve ricorrere inevitabilmente al blocco.

Quanto si discostano i social dalla realtà?

Direi poco, li ritengo una sorta di piazza virtuale. Pensare che quello che accade sui social succeda solo lì è un errore. Sono una cartina tornasole di quello che sta succedendo attorno a noi: la società in cui viviamo è pervasa dall’odio e questo si riflette sui social. Di sicuro però i social facilitano certi tipi di attacchi perché nascondono chi li compie, fanno cadere le barriere che molti di noi utilizzano nelle relazioni interpersonali reali.

Che consiglio darebbe ai fruitori di social, anche quelli più aggressivi?

Di seguire una regola: non attaccare mai direttamente la persona, anche se non condividi le sue idee. Prima confrontati con le sue idee. Invece ciò che succede spesso è che non si apre un dibattito sul tema, ma si passa subito all’attacco personale.        

Oltre a raccontarlo, lei pratica sport?   

Ho praticato tanti sport, calcio, ciclismo, atletica leggera e continuo ancora oggi, vado in bici, in mountain bike, in palestra. Credo che la pratica dello sport sia un diritto, che dovrebbe essere sancita dalle costituzioni.

Ma soprattutto lo sport è una grande possibilità di confronto con sé stessi, sui propri limiti, le proprie capacità, è una crescita costante: conoscere noi stessi per imparare poi a confrontarci con gli altri.

Puoi seguire Riccardo Cucchi sui suoi canali social: Twitter FacebookInstagram

Assist, la lunga battaglia per i diritti delle atlete

L’Italia è un Paese per sportive? Dovrebbe essere scontato dire di sì nel 2021, ma purtroppo ancora troppo grande è il divario tra uomini e donne in tutti gli ambiti dello sport italiano. Se il numero di atleti maschi è maggiore, con una differenza che tuttavia si sta assottigliando, il gap è soprattutto nei ruoli dirigenziali e nel trattamento che alle atlete viene riservato dal mondo sportivo rispetto ai colleghi uomini. Compensi ridicoli, montepremi inferiori, assegnazione delle strutture sportive non sempre paritaria, per non parlare della narrazione che ancora oggi evidenzia la difficoltà di raccontare in modo corretto e con i termini giusti l’universo sportivo femminile.

Eppure negli ultimi decenni tanti passi sono stati compiuti. Ed è soprattutto grazie a chi si è battuta perché qualcosa cambiasse. Luisa Rizzitelli è una pallavolista (mai dire “è stata”, perché non si smette mai di essere sportive) che ha giocato come professionista per 14 anni, diventando testimone sulla propria pelle di tutte le discriminazioni che si potevano vivere sul campo e fuori. E ha deciso che non poteva rimanere in silenzio. E così, nel marzo del 2000, assieme a un gruppo di amiche e colleghe, ha fondato Assist – Associazione Nazionale Atlete, che da allora si è battuta in tutti gli ambiti e i livelli sportivi per ribaltare una situazione inaccettabile. Oggi Assist è una realtà consolidata, interpellata nei più importanti tavoli di lavoro a livello nazionale, ed è stata promotrice nelle ultime settimane di una grande novità, la Carta dei valori per lo sport femminile, approvata dal Comune di Bologna. Un documento importante, volto a dettare le linee guida fondamentali per rendere lo sport veramente paritario.

Di Ilaria Leccardi

Rizzitelli, iniziamo proprio da qui. Qual è il valore dei 14 articoli contenuti nella Carta firmata dal Comune di Bologna?

Da tempo avevamo in mente di stilare una Carta che potesse dare indicazioni pratiche alle istituzioni e alle amministrazioni, per come non diventare complici inconsapevoli di alcune discriminazioni. Abbiamo dunque pensato di mettere nero su bianco le azioni che un Comune dovrebbe mettere in pratica e gli aspetti a cui dovrebbe fare attenzione. Per me si tratta di un piccolo atto d’amore nei confronti dell’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale nessuno deve essere discriminato.

Cosa prevede la Carta sul piano pratico?

Luisa Rizzitelli

Mette in campo diversi strumenti per affermare la parità di genere e per arrivare a concretizzare il compito di trattare nella stessa maniera le Associazioni sportive che sono attive in ambito femminile rispetto a quelle che lavorano in ambito maschile. Il Comune si impegna a dotarsi di un sistema di rilevazione dati sulla partecipazione femminile alla pratica sportiva in città (Art. 5). Inoltre, si impegna a redigere bandi per la concessione di contributi e l’assegnazione d’uso di impianti sportivi, avendo cura di valutare, nell’attribuzione del punteggio, anche l’esperienza del soggetto richiedente in tema di antidiscriminazione e attenzione al genere e quindi le azioni concrete messe in pratica dalle singole realtà in questa direzione (Art. 9). Sappiamo che ancora oggi spesso le donne, nella scala di utilizzo degli impianti sportivi, sono le ultime a essere tenute in considerazione. Ne è un esempio il calcio, dove, nell’assegnazione degli stadi e dei campi, le squadre di Serie A femminili vengono messe dopo i pulcini di una qualsiasi squadra maschile… E ancora, il Comune si impegna a non concedere contributi economici o patrocini a organizzatori di eventi privati o pubblici che non abbiano pari condizioni di accesso e montepremi uguali per uomini e donne (Art. 10). Non ci siamo inventate nulla, sono principi semplici, ma concreti, per riuscire a incidere realmente su un tessuto sociale.

Tessuto che comunque si è rivelato molto ricettivo…

Sì, Bologna è una città che da questo punto di vista è molto sensibile. È una delle città dove Assist ha più socie e la cui amministrazione si è rivelata molto interessata e pronta a lavorare con noi. Devo ringraziare per questo l’assessora Susanna Zaccaria [con deleghe a Educazione, Scuola, Pari opportunità e differenze di genere, ndr] e l’assessore allo Sport Matteo Lepore. Abbiamo trovato da subito grande disponibilità e intuizione. L’amministrazione ha individuato nella Carta uno strumento importante da condividere con tutte le Asd della Città Metropolitana.

Ci sono altri Comuni pronti a recepirla sul territorio?

Abbiamo avuto interessamenti dalla città di Trento e da alcune città della Calabria. Stiamo cercando di promuoverla a Roma, a Milano, Torino. Speriamo che siano in tanti ad aderire.

Ma in generale, quanto è ancora discriminante verso le donne il mondo dello sport?

Immagine Pixabay

Purtroppo molto, a livello micro e ai livelli più alti. E questo anche perché è un mondo ancora quasi completamente gestito e diretto da uomini, oltretutto uomini di una certa età. Il ricambio giovanile e di genere nello sport non è ancora avvenuto. Anche se nella vita quotidiana sportiva tra atleti e atlete non si percepisce molta differenza di genere, nella gestione dei fondi e degli spazi, emerge ancora una cultura fortemente patriarcale che penalizza le donne. Ci sono ancora divari di investimenti, differenze di premi, borse di studio, montepremi. Noi da anni ci battiamo affinché i podi di una disciplina in ambito maschile e femminile vengano trattati nella stessa maniera.

Per quel che riguarda la pratica sportiva, i problemi sono differenti?

Diciamo che, se tra atleti e atlete le differenze si sentono poco, tuttavia ci sono ancora alcune dinamiche da scardinare. Come Assist abbiamo lanciato un progetto europeo dal titolo Fair Coaching, mirato ad abbattere i comportamenti machisti e impropri che ancora ci sono nella cultura dell’allenare. Il mito che l’allenatore duro e cattivo sia bravo è una stupidaggine.

Essere autorevole non vuol dire essere autoritario, per questo bisognerebbe lavorare maggiormente per un cambio culturale importante, che metta in risalto altri aspetti al fianco della bravura tecnica, per esempio l’empatia e l’attenzione alla dimensione psicologica dell’atleta.

Per tornare al cambio di prospettiva soprattutto in ambito dirigenziale. Assist negli ultimi mesi è scesa in prima linea per sostenere la candidatura di Antonella Bellutti alla presidenza del CONI. Due volte oro olimpico nel ciclismo su pista e ma anche olimpica di bob, è la prima donna a tentare la scalata al vertice dello sport azzurro. Cosa rappresenta questo percorso?

La candidatura di Antonella Bellutti si sta rivelando un percorso entusiasmante. Lei è una persona coraggiosa, che non ha nessuna resistenza o preoccupazione nel dire ciò che pensa. E la sua proposta va nella stessa direzione in cui da ventuno anni Assist lavora. Per noi è straordinario vedere che una donna del suo calibro, Commendatrice della Repubblica, stimata in tutto il mondo per il suo valore, porta avanti da candidata presidente del CONI tutti quei temi su cui noi come Associazione atlete abbiamo puntato da anni in assoluta solitudine. Abbiamo dovuto combattere, per tanto tempo nessuno ci ha dato credito, abbiamo affrontato l’ostruzionismo, siamo state ridicolizzate. E vedere che oggi i nostri temi sono gli stessi del programma della candidata alla presidenza del CONI è importante.

Tuttavia, alle elezioni in programma il prossimo 13 maggio, non sarà semplice vedersela con il presidente uscente Giovanni Malagò. Quali sono i riscontri che avete rilevato per ora?

Abbiamo ricevuto tantissimi contatti da responsabili di Asd, tecnici, atleti, che chiedono di partecipare al percorso che Antonella sta conducendo. Diciamo che la partecipazione è fortissima. Io credo tuttavia che i grandi elettori (74 in tutto, tra cui 44 presidenti federali tutti uomini! ndr), non saranno chiamati a fare una scelta tra due persone, Bellutti e Malagò, tra le quali c’è una grande stima reciproca, ma tra due modi diversi di gestire lo sport italiano e immaginare il suo futuro.

L’ultimo anno è stato importante per il mondo istituzionale sportivo, principalmente per il dibattito sulla Riforma dello sport. Assist è stata anche protagonista nei lavori delle commissioni parlamentari. Una Riforma – ancora da approvare – che ha toccato vari aspetti, ma che ancora non vi soddisfa. Perché?

La nostra critica va soprattutto nella direzione del mancato riconoscimento dei diritti elementari a chi fa dello sport il proprio lavoro. La Riforma aggiunge delle tipologie di inquadramento lavorativo, autonomo, subordinato, occasionale, ma questo non cambia nulla, perché viene lasciata al datore di lavoro la decisione su come inquadrare l’atleta. È stato un timido tentativo, ma per noi del tutto insufficiente. Pensiamo invece che sia necessario partire dal fatto che il lavoro sportivo esiste, ha una sua dignità e non può subire discriminazioni. Di certo però è necessario che venga dato sostegno alle Asd nel complesso passaggio dell’emersione del lavoro professionistico. Le Associazioni sportive non possono essere lasciate sole. E a chi chiede: dove trovare i soldi? Be’, ad esempio, noi sosteniamo che si debba ridimensionare il ruolo dato ai gruppi sportivi militari, un’anomalia tutta italiana che costa allo Stato 36 milioni di euro. E troppe volte per gli sportivi e le sportive questa è l’unica possibilità per mantenersi, ma ricordiamo che non tutte e tutti debbano volere per forza vestire una divisa. Quei fondi potrebbero invece essere investiti a sostegno delle Asd, dei centri universitari sportivi, dei vivai.

Ci sono stati negli ultimi anni esempi particolarmente positivi in ambito sportivo che vanno nella direzione della parità di genere?

Per lo più iniziative individuali. L’ultima in ordine di tempo è stata la decisione della squadra di ciclismo Trek Segafredo che ha introdotto il minimo salariale per le donne, pari a quello degli uomini. La FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera) ha compiuto un grande lavoro per eguagliare i montepremi delle gare di donne e uomini. Da anni possiamo inoltre testimoniare che la Lega Volley Femminile sta cercando di strutturare al meglio possibile le questioni riguardanti i diritti delle atlete. Ma il caso di Carli Lloyd, palleggiatrice della Vbc Casalmaggiore, costretta a rescindere il contratto dopo aver scoperto di essere incinta, ci riporta alla triste realtà. Ci sono contesti sportivi e realtà dove si tenta fare qualche passo in più, ma se questo viene affidato solo a chi rappresenta i datori di lavoro, ossia le società sportive, è ovvio che verrà fatto il loro interesse. Per quel che riguarda nello specifico il diritto a diventare madri, lo Stato ha creato un fondo maternità per le sportive. Una novità positiva, ma si tratta comunque di un palliativo.

Altro aspetto molto delicato in ambito sportivo sono gli episodi di discriminazioni e abusi. Assist come si è mossa in questi anni?

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Abbiamo lanciato campagne contro il linguaggio sessista e lesbofobico, ancora molto diffuso purtroppo. Siamo state inserite nel tavolo antidiscriminazioni dell’Unar, con la stessa dignità delle Federazioni nazionali, e questo ci fa grande onore. E poi, come ultima iniziativa, volta in particolare a contrastare il fenomeno degli abusi e delle molestie, abbiamo lanciato SAVE, acronimo di Sport Abuse and Violence Elimination. Si tratta di un servizio nato in collaborazione con la ong Differenza Donna, da anni attiva nel contrasto alla violenza di genere e gestore del numero verde antiviolenza 1522 del dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, con cui conduciamo una campagna di sensibilizzazione e forniamo supporto concreto alle ragazze e alle donne che potrebbero essere vittime di abusi. A partire da questa esperienza, la Regione Lazio ha voluto lanciare una campagna contro gli abusi e le molestie nello sport che prenderà via a marzo 2021, toccando Asd e scuole.

A ventuno anni ormai dalla nascita di Assist, se si guarda indietro cosa vede?

Vedo ancora ciò che mi ha spinto a fondare questa realtà, l’amore infinito che ho per lo sport e per la giustizia. Io sono stata un’atleta professionista nella pallavolo, ho vissuto le stesse cose per cui combatto adesso. Ho dato il via a questa realtà con un gruppo di amiche meravigliose con cui lavoro ancora, a cui poi si sono unite lungo la strada molte altre persone. Vedo ancora discriminazioni in un mondo che amo immensamente. E continuerò a battermi, perché ricordo le lacrime mie e delle mie compagne, quando quelle discriminazioni le subivamo, quando venivamo vendute con il nostro cartellino, come se fossimo al mercato delle vacche. E vorrei un mondo diverso per le ragazze di domani.