Frank Chamizo

Ai ragazzini dico: la lotta può salvarti dalla strada

Un bambino di 7 anni cammina per le strade polverose di Matanzas, Cuba, un centinaio di chilometri a est dall’Avana. Quel bambino ha dentro di sé qualcosa, qualcosa che sente di dover esprimere, tirare fuori. In una vita cresciuto lontano dai genitori, a badare a lui è la nonna, a cui quando può sfugge dalla vista. È in un giorno di quelli, nelle sue camminate in solitudine, che si perde per le strade, si imbatte in una palestra, guarda dentro, e vede dei ragazzi che lottano. Per lui è come una folgorazione. “Posso provare anch’io?”, chiede. Lo fanno provare, è bravo, un talento innato, qualcosa che lo fa prevalere sugli avversari, anche se è la prima volta per lui. Da quel giorno decide: diventerà un lottatore. E la palestra, appena saputo il suo cognome lo accoglie con ancor più gioia, visto che il padre era stato a sua volta un campione di lotta. Anche se quel bambino non potrà immaginare che, proprio a causa della lotta, un giorno sarà costretto a cambiare Paese e che, grazie alla lotta, salirà sul tetto del mondo.

Frank Chamizo oggi ha 27 anni ed è tra le stelle mondiali di questa disciplina fatta di fisicità e tattica. Di strada ne ha fatta da quel giorno: bronzo Olimpico a Rio 2016, due ori, un argento e un bronzo Mondiale, tre ori e un bronzo europei, la televisione, gli eventi mondani in cui è richiesto e fotografato. Ma dentro lui lo spirito è rimasto lo stesso.

di Ilaria Leccardi

È curioso come a volte sia il caso a guidarci nella vita, da una piccola palestra di Matanzas fino alla medaglia olimpica. Ma quanto sacrificio c’è dietro al tuo sport?

Alla lotta sono arrivato quasi per caso, ma è come se questo sport lo avessi dentro da sempre. Il giorno in cui passai davanti a quella palestra non ci pensai due volte, entrai e mi buttai, era come se avessi capito che il mio futuro sarebbe stato quello. La vita del lottatore è una vita di competizione, un sport che ti mette uomo contro uomo. Nella lotta c’è molto sacrificio, soprattutto per quel che riguarda il controllo del peso, visto che noi ci sfidiamo per categorie. Devi trovare la tua categoria giusta, come è stato nel mio caso che sono passato dai 65 Kg, vincendo l’oro mondiale, ai 70 Kg, dove ho conquistato un altro oro e, infine, alla categoria attuale, 74 kg dove lo scorso anno ho vinto l’argento.

L’aspetto che preferisco della mia disciplina sportiva è affrontare le sfide e, nonostante sia uno sport di contatto ed estremamente fisico, la cosa che conta di più è la testa, avere la giusta mentalità.

Il bronzo Olimpico per te è stato una medaglia importante, ti ha fatto conoscere al grande pubblico. Tuttavia, dopo quel risultato non sembravi molto contento…

Dalle Olimpiadi del 2016 mi porto dietro tanta esperienza e se non posso dirmi del tutto soddisfatto è solo perché me mi aspetto sempre il massimo, sono un pazzo, sono fatto così. Non posso dire che quella medaglia non mi abbia reso felice, ma in questi quattro anni ho lavorato tantissimo e voglio riprendermi quello che mi spetta.

Tu sei arrivato in Italia dopo una squalifica di due anni nel tuo Paese proprio a causa del peso, un’inezia che però ha influito molto, nonostante ti fossi messo al collo già una medaglia mondiale nel 2010, a soli 18 anni. Una squalifica che incise anche sul tuo tenore di vita, togliendoti quelle garanzie economiche che avevi conquistato con fatica. Fino al giorno in cui, con la tua compagna Dalma Caneva, lottatrice azzurra, decisi di trasferirti in Italia e, dopo il matrimonio, prendere la cittadinanza. Com’è stato il passaggio in Italia?

Questo Paese mi ha accolto a braccia aperte e mi ha dato la possibilità di ricostruirmi un futuro, restituendomi la voglia di combattere. Il sostegno del Centro Sportivo dell’Esercito è stato fondamentale. Più di così…

Hai mai avvertito nei tuoi confronti episodi di razzismo o attacchi gratuiti?

Devo dire di no e, anche se fosse successo, non sono la persona che ci fa caso. Sui social, certo, qualche commento non proprio bello ogni tanto lo ricevo: “Non sei farina del nostro sacco”, “Vattene…”. Ma è tutto frutto dell’ignoranza.

Se nel 2020 esistono ancora persone razziste vuol dire che non stanno bene, che c’è qualcosa in loro che non va. Bisogna essere ignoranti per essere ancora razzisti.

E il rapporto con i fan com’è?

Io sono molto social, ma sono seguito più da persone russe, americane, cinesi, gli italiani sono la minoranza, forse anche perché la lotta qui non è un sport con grande visibilità.

Un po’ ti ha aiutato la televisione, con la tua partecipazione al programma di ballo Dance, Dance, Dance. Che esperienza è stata?

Molto positiva. Io ero in coppia con la ginnasta Carlotta Ferlito, tremenda, una vera bomba di esplosività! Mi è servito per capire come si lavora in televisione e la differenza tra un programma dal vivo e uno registrato. Diciamo che nel programma registrato, con i tagli, i montaggi e la costruzione della storia, non riesci a essere veramente te stesso. Ma comunque sono contento di aver partecipato, anche perché il ballo è una delle mie grandi passioni.

Com’è la giornata tipo di un lottatore?

È difficile dirlo, viviamo momenti completamente diversi se siamo in un periodo tranquillo oppure in un periodo di gare. Nel primo la nostra vita è molto rilassata, io personalmente sono spesso in viaggio, partecipo a numerosi eventi. Sotto gara invece mi alleno due volte al giorno, mattina e pomeriggio, ho una vita molto più controllata e morigerata, sempre con l’occhio alla bilancia.

Ripensando a te da ragazzino, in quella strada di Matanzas, perché consiglieresti a un bambino di scoprire e farsi affascinare dalla lotta?

Anche in Italia, che è un Paese assolutamente civilizzato, non sono pochi i bambini e i ragazzini che vivono nel mondo della strada. Non a tutti capita di nascere nella famiglia “giusta”, con le dinamiche “giuste”, dove puoi essere ascoltato, accolto e crescere senza particolari problemi. E capita allora che in un bambino possa emergere della rabbia, una furia che si trova a scatenare nella vita di tutti i giorni. Ecco, la lotta sarebbe il posto migliore per sfogare questi sentimenti, trasformandoli in qualcosa di positivo, in una sfida con te stesso e con gli altri, accompagnata dai valori dello sport. A tutti i ragazzini che sentono dentro di sé qualcosa di forte da tirare fuori dico: andate in una palestra di lotta, magari non sarà così semplice trovare quella giusta, come è successo per caso a me, ma vi darà grandi soddisfazioni!