Quali sono gli ostacoli alla pratica sportiva per persone con disabilità? E com’è che lo sport può diventare uno strumento utile a sviluppare e costruire una propria autonomia?
Nella sesta puntata di Parole Fuorigioco parliamo dell’importanza di uno sport accessibile a tutti e tutte, grazie al dialogo con Chiara Maniero, allenatrice di volley della Polisportiva San Precariodi Padova, Andrea Ros, che ci racconta l’esperienza dell’ ASD Alta Resa, società sportiva di Pordenone che portava avanti una squadra di sitting volley dove giocano assieme persone con e senza disabilità, e Roberto Madinelli, atleta disabile che ha praticato negli anni il sitting volley con l’Alta Resa e oggi si dedica al basket in carrozzina nell’Olympic Basket Verona e nell’Albatros Trento.
Le Olimpaidi e le Paralimpiadi di Parigi sono state il culmine del quadriennio sportivo per tantissimi atleti e atlete. Ma rispetto a questi grandi eventi si può parlare di vera inclusività? Perché odio e discriminazioni continuano a essere presenti anche nel più emblematico degli eventi sportivi? Sono i temi al centro dell’episodio 5 di Parole Fuorigioco, il podcast di Odiare non è uno sport, a cura di Radio Sherwood
Grazie a Federico Greco, storico dello sport, la puntata affronta le modalità con cui ha lavorato il Comitato Olimpico sulla parità di genere e come hanno reagito società e stampa al tentativo di organizzare dei Giochi più inclusivi. Inoltre, si analizza come il lavoro compiuto sull’inclusività di genere non sia stato portato avanti rispetto invece alle persone marginalizzate, in particolare coloro che abitano nelle banlieu parigine, che hanno invece subito il peso organizzativo e logistico dei Giochi.
Come testimoniano le Olimpiadi di Parigi 2024, le dinamiche e la narrazione dello sport sono ancora minate da omolesbotransfobia, in particolare di transfobia, forse la contraddizione e la discriminazione più evidente nel mondo sportivo. Proprio su questo si concentra la quarta puntata di “Parole fuorigioco”
Nel podcast viene raccontata in particolare l’esperienza della polisportiva milanese “Open”, che da decenni crea spazi per la comunità queer e critica la normatività e le discriminazioni strutturali rispetto al genere nel mondo dello sport e lo fa praticando forme diverse di squadra e aggregazione e interrogandosi su cose spesso prese poco in considerazione, dagli spogliatoi al dibattito sul ruolo degli ormoni e la differenza dei corpi nel valutare le capacità di un atleta.
Come riporta l’AICS, il sessismo è una piaga ancora largamente riscontrata all’interno dell’attività sportiva dove persistono pregiudizi di genere e di orientamento sessuale.
Ne parliamo nell’episodio numero 3 di Parole fuorigioco, in cui partiamo da alcuni fatti di cronaca avvenuti nell’ultimo periodo, dallo stupro di gruppo denunciato dalla schermitrice di 17 anni della nazionale Uzbeca, agli insulti ricevuti dalla prima terna arbitrale femminile in serie A calcistica ad altri casi a livello internazionale quali la molestia subita dalla ciclista Lotte Kopecy nelle Fiandre nel mese di marzo fino a Lara Lugli, ex pallavolista del Pordenone Volley che è stata licenziata e citata in giudizio nel 2019 dopo aver comunicato alla società di essere incinta. Entriamo poi nel cuore del tema grazie alle parole di Francesca Masserdotti dell’associazione Assist (Associazione Nazionale Atlete) e Giulia Borghi della polisportiva popolare Atletico san Lorenzo che ci danno una chiave di lettura femminista dello sport professionale e popolare.
Nel secondo episodio, esploriamo le discriminazioni razziali nella danza, una disciplina spesso femminilizzata e vista più come arte che sport. Pur mantenendo il focus sul livello dilettantistico per contrastare l’invisibilità dello sport amatoriale, l’episodio affronta anche eventi di cronaca più noti. Nella danza, le micro aggressioni, l’omogeneità bianca e la denigrazione delle danze non europee sono ancora comuni in ambienti amatoriali e professionali. Tuttavia, ci sono anche esempi di resistenza antirazzista, studio di altre culture e sfida ai canoni tradizionali. Vogliamo quindi rompere il silenzio su questi casi di discriminazione e valorizzare le iniziative che utilizzano la danza per promuovere la pluralità culturale e combattere la marginalizzazione.
Nell’approfondimento partiamo dalla storia della danzatrice nera Chloé Lopes Gomes dello Staatsballett di Berlino che ha denunciato diversi episodi di razzismo e ascoltiamo le voci di Manuela De Luca, direttrice della Royal Academy di Danza con sede italiana a Trento, la quale parla di come il mondo della danza stia devolvendo, e della ballerina e docente di ballo Nadege Okou, nata e cresciuta a Milano e con origini della Costa d’Avorio, che approfondisce cosa voglia dire studiare danza in italia, nelle accademie e nelle scuole di provincia, da persona Black.
Il razzismo sui campi da calcio e sulle tribune degli stadi è purtroppo ancora molto diffuso. Lo dimostrano – tra gli altri episodi – il recente caso Acerbi nella nostra Serie A (con epiteti razzisti pronunciati dal giocatore dell’Inter nei confronti del collega del Napoli Juan Jesus) e i ripetuti insulti contro Vinicius junior, stella del Real Madrid, che ha avuto la forza di denunciare gli attacchi in maniera pubblica e potente.
Ma, benché con meno clamore mediatico, gli episodi razzisti si susseguono frequentemente anche in ambito dilettantistico, dove gli interventi per bloccare queste dinamiche non sempre sono tempestivi e incisivi.
Per approfondire il tema, nel primo degli 8 episodi del podcast Parole fuorigioco, abbiamo deciso di esplorare quanto avvenuto il 19 novembre 2023 nella partita tra il Casalanguida e l’Athletic Lanciano, con gli insulti piovuti dalle tribune contro alcuni giocatori della squadra di Lanciano. Ne abbiamo parlato con Michele La Scala (Vicepresidente dell’Athletic Lanciano) e MarcoIasci (della tifoseria Axa Rebel), per comprendere quanto sia importante rispondere con determinazione su tutti i fronti. Sia dal punto di vista delle società sportive che non devono sottovalutare questi episodi e possono dare sostegno concreto ai propri giocatori, per portare avanti progetti sportivi positivi in una dimensione di integrazione sociale. Sia dal punto di vista della tifoseria, in cui sono necessari consapevolezza e sano spirito sportivo.
Siamo all’ultimo appuntamento con le trasmissioni di “Odiare non è uno sport”. In una diretta dagli studi di Radio Sherwood, ripercorriamo con Anna, Antonio e Davide la campagna che nell’ultimo anno e mezzo ha voluto raccontare lo sport, reinventando un nuovo tipo di linguaggio e di narrazione dello sport e del suo rapporto con il sociale.
Ospiti della puntata avremo Ilaria Moretti, con cui parleremo dei presidi in programma il 19 marzo in dieci città in tutta Italia e dell’attività delle “Antenne Antiodio” e Francesca Masserdotti, psicologa, della Polisportiva San Precario di Padova e dell’Associazione Nazionale Atlete Assist, con cui approfondiremo la vicenda della disparità di genere nello sport e soprattutto nel professionismo sportivo, prendendo spunto dalla recente vicenda della pallavolista Lara Lugli e lanciando la campagna #ioloso.
I brani musicali:
Sleaford Mods – I Don’t Rate You; Iggy Pop – The Passenger; Extraliscio e Davide Toffolo – Bianca Luce Nera; Gorillaz – Strange Timez; Madame – Voce
Francesco Romor, il Bae, era un ultras, un’attivista. Leader storico degli Ultras Unione VeneziaMestre e di tutta la Curva Sud, il Bae negli ultimi anni della sua vita ha intrecciato il suo cammino con i giovani attivisti del Centro Sociale Rivolta.
Il Bae ha sempre lottato contro le ingiustizie. In tanti lo ricordano quando allo scoppio della prima guerra del golfo fece un’invasione di campo con un stendardo con su scritto “No alla guerra”.
Proprio perché non poteva sopportare le ingiustizie nel febbraio 2001 decise, assieme a molti altri attivisti, di unirsi alla “Marcia del Color della Terra” in Chiapas. Purtroppo Francesco non arrivò mai in quella terra lontana. Il dolore di amici, compagni, ultras, si trasformò però in una promessa: «ti porteremo noi in Chiapas».
Partì cosi il progetto “El Estadio del Bae”. Nel concreto, il progetto contribuì dunque a sistemare acquedotti, costruire falegnamerie, ristrutturare villaggi colpiti dagli uragani, riparare la turbina elettrica de La Realidad, sostenere il progetto Agua para Todos e infine costruire il laboratorio erbolario, la struttura che forma i promotori di salute dell’intero Caracol Hacia la Esperanza, fortemente voluto dalle mujeres rebeldes del Caracol stesso.
Si formò e attivò una rete di ultras, attivisti, associazioni, migranti che, uniti dagli ideali del Bae per un mondo senza ingiustizie e un fútbol senza razzismo e vigliacche aggressioni, prese il nome di rete del Fútbol Rebelde. A festeggiare tutto questo nel 2005 una delegazione si recò in Chiapas per giocare il primo Mundial del Fútbol Rebelde contro quattro tra le migliori squadre zapatiste.
La lotta per un mondo diverso si intrecciò a quella del desiderio di lottare per un calcio diverso, senza discriminazioni e per tutte e tutti.
Oggi a vent’anni dalla sua morte il progetto del “Estadio del Bae” riparte. Una nuova generazione di ultras e attivisti sogna ancora un mondo e un calcio diverso, uno sport per tutte e tutti libero da ogni discriminazione.
Pillola #9 - Africa mondiale: un viaggio nella storia
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Da sempre il continente africano, quasi per definizione, parrebbe avere una storia del tutto personale e isolata con lo sport, rispetto agli altri continenti.
Il calcio, fino agli anni ’90, non faceva eccezione a questa regola. Ci sono certamente state negli anni apparizioni sporadiche di squadre del Continente Nero, le quali però erano chiaramente parte del contorno delle competizioni mondiali. Con gli anni l’Africa ha ottenuto il suo prestigio, ma le vette da scalare in questa competizione sono ancora molte, e tutte queste convergono nel sogno di, un giorno, poter alzare davvero quella coppa. Oggi questa è solo una chimera. Domani, chissà…
Sigla: I Hate My Village – Tony Hawk Of Ghana
Brano: The Lighting Seeds, David Baddiel, Frank Skinner – Three Lions (Football’s Coming Home)
Samia aveva un sogno, partecipare alle Olimpiadi di Londra, con un paio di scarpe da corsa e gli applausi del pubblico attorno. Voleva essere l’atleta più veloce della Somalia e dire alle donne del suo paese che si può essere libere, basta crederci. Ma la storia di Samia Yusuf Omar è la stessa di tanti uomini, donne e bambini, che per inseguire i loro sogni, intraprendono un viaggio disperato e rischioso, scappando dalla guerra e dalle carestie.
Samia era una un’atleta coraggiosa che non può e non deve essere dimenticata.
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